
L’insieme delle varie forme di comunicazione va poi osservato rispetto alla politica: in effetti, non tutta la comunicazione è politica: se io dialogo con mia moglie circa il film da vedere alla sera siamo certamente in presenza di un fenomeno comunicativo ma del tutto irrilevante per la politica. Di qui sorge l’interrogativo: quando la comunicazione è “politica”? Si tratta di una domanda importante, la cui risposta orienta tutta la trattazione che espongo nel testo: in estrema sintesi, diciamo che la comunicazione è politica quando ha a che vedere con il comportamento degli attori politici (leader e partiti, gruppi di pressione, cittadini) nell’ambito della lotta per il potere politico, ovvero nel quadro della competizione che decide chi vince e chi perde i ruoli dai quali si esercita potere politico. Questo tipo di lotta si verifica in tutti i regimi (democratici, autoritari, totalitari), seppure – come è ovvio – secondo regole del gioco diverse (nei regimi non democratici la competizione non è decisa dalle elezioni, come è nel campo democratico). Si tratta di un aspetto importante sul piano teorico, giacché allarga lo sguardo del ricercatore in una duplice direzione. Per un verso, la comunicazione politica non si esaurisce alla mera comunicazione elettorale (per largo tempo la forma più studiata), bensì accoglie anche i messaggi alla nazione dei capi di Stato, per esempio, oppure le comunicazioni parlamentari; per l’altro verso, induce il ricercatore a tenere conto non solo della comunicazione politica formulata dai leader, ma anche di quella di attori il cui comportamento è altrettanto importante per l’esito della lotta per il potere, quali i gruppi di pressione (si pensi al ruolo di un grande gruppo editoriale nell’orientare i consensi pro o contro determinati protagonisti della politica democratica) o, in ultima analisi, i cittadini (oggi sovente riuniti in comunità virtuali, che si costruiscono nello spazio definito dai vari circuiti social, quali Facebook, Twitter o Instagram).
Quali sono i tratti che contraddistinguono lo studio della comunicazione politica secondo i canoni della scienza politica?
Sintetizzando, la scienza politica si distingue dalle altre discipline che si interessano della comunicazione politica (etica del linguaggio, sociologia della comunicazione, linguistica, e via dicendo) sia per l’ampio spettro dei fenomeni messi a fuoco (TUTTA la comunicazione politica, di tutti gli attori che tengono un comportamento politicamente rilevante), sia per lo scopo che informa il tentativo politologico, che è di taglio nettamente esplicativo. Detto altrimenti, la scienza politica è una scienza empirica che mira a spiegare i fenomeni comunicativi osservati, cercandone le determinanti negli aspetti extra-comunicativi di natura squisitamente politica, come, per esempio, la struttura delle istituzioni politiche, la distribuzione dei ruoli politici, l’emergere di situazioni (ordinarie o di crisi) che esercitano una influenza sulle scelte comunicative degli attori politici. Il punto è questo: la comunicazione politica non è mai casuale, ma risente delle variabili politiche che ne modellano il contesto. Il compito dello scienziato politico è di ricercare i nessi che collegano gli elementi extra-comunicativi (politici) alle forme e ai contenuti delle comunicazioni adottate dagli attori, al fine di gettare luce sui fattori politici che le modellano. Ad esempio, uno studio pionieristico condotto negli anni Ottanta dal mio maestro, Giorgio Fedel, mostrava che nelle dichiarazioni programmatiche rivolte alle Camere dai Presidenti del Consiglio italiani primeggiavano contenuti imputabili alla macchina dello Stato e alle strategie partitiche, mentre gli obiettivi programmatici e la politica estera ricevevano una attenzione residuale e limitata, al contrario di quanto era possibile desumere dalle medesime dichiarazioni pronunciate dai Primi Ministri britannici e dai Cancellieri tedeschi. Mutatis mutandis, le differenze erano da imputare non solo alla diversa caratura internazionale dei Paesi coinvolti (Italia, Germania e Gran Bretagna), bensì ai meccanismi istituzionali che regolavano l’insediamento degli esecutivi. Pur essendo tutte e tre democrazie parlamentari, i governi tedeschi e inglesi erano legittimati dagli elettori, al contrario delle fragili coalizioni che, dopo le elezioni e un laborioso processo di negoziazioni tra partiti, davano vita al governo italiano. Perciò i Presidenti del Consiglio erano costretti, diciamo così, a fare continui riferimenti alle forze politiche il cui sostegno era essenziale per il (precario) mantenimento degli accordi che avevano fatto nascere il governo, mentre negli altri due sistemi il sostegno del Parlamento si poteva dare per acquisito e, quindi, per scontato, senza alcun bisogno di richiamare continuamente alla responsabilità le forze politiche.
In che modo i social media hanno innovato la retorica politica nonché la partecipazione politica di massa?
Non è facile rispondere in poche righe. Schematicamente, diciamo che per quel che riguarda la retorica dei leader politici hanno senza dubbio incentivato le forme di comunicazione immediate e sintetiche: nei social, specie quelli che hanno una maggiore presa politica (Twitter e Instagram) non è possibile articolare un ragionamento complesso, fatto di distinguo e di precisazioni. Al contrario, prevalgono gli slogan, le comunicazioni tipo spot, le parole d’ordine – che solitamente puntano a mobilitare l’adesione (o la repulsione) emotiva degli utenti, piuttosto che il loro lato raziocinante. Sul piano della partecipazione politica di massa, nelle odierne democrazie i social hanno senza dubbio arricchito il repertorio delle forme attraverso cui i cittadini possono esprimere il loro sostegno o la loro ostilità ai leader e ai partiti. Osservo che sovente la digitalizzazione ha fatto emergere un nuovo tipo di cittadino partecipante, quello “critico” o “vigile”, che cioè si attiva in presenza di decisioni o fatti politici che a suo giudizio mettono a repentaglio valori considerati importanti (la patria, l’uguaglianza, la giustizia sociale). Ecco perché a volte si legge che i social incentivano la “protesta”: il che è possibile, ma non del tutto esatto sul piano del significato. Certamente i social media si prestano di più alla denuncia che all’azione positiva, ma anche quest’ultima può essere un risultato della mobilitazione online – come la campagna di Obama del 2008 ha largamente mostrato. Insomma, come per tutti gli strumenti, il tipo di utilizzo che i cittadini fanno dei social è materia di accertamento empirico – e non a caso sul tema abbiamo già a disposizione una messe di studi condotti negli ultimi dieci anni.
Quali caratteristiche presenta la comunicazione della classe politica nelle democrazie contemporanee?
Per una risposta completa rimando alla lettura del testo. In linea di grande semplificazione, lo scopo dei leader politici nei regimi democratici è conquistare, mantenere o incrementare il consenso dei cittadini. Perciò tutta la comunicazione politica emessa dalla classe politica è finalizzata a questo fine pragmaticamente dominante. Detto questo, si tratta di accertare come si attua la saldatura tra la finalità dei leader, da una parte, e i contenuti e le forme della loro comunicazione, dall’altra. La chiave per cercare di gettare un poco di luce su questo nesso è, come argomento nel volume, focalizzare le caratteristiche dei regimi, dei ruoli e delle situazioni che possono aiutarci a dare un senso ai fenomeni comunicativi osservati, sul piano teorico-esplicativo (che, lo ricordo, è quello proprio della scienza politica). Per esempio, il going public dei Presidenti americani – ovvero, il rivolgersi direttamente agli elettori sollecitandoli a sostenere le proposte del Presidente contro il parere contrario del Congresso, inducendoli a fare pressione sui propri rappresentanti a difesa della politica della Casa Bianca – può attuarsi appieno ed, eventualmente, avere successo in un sistema presidenziale, dove l’elezione del Capo dell’esecutivo è direttamente nelle mani degli elettori e, malgrado la “presidenzializzazione degli esecutivi” sia ormai un fenomeno largamente diffuso anche nelle democrazie parlamentari, difficilmente questa strategia comunicativa può registrare il medesimo grado di successo in contesti differenti. Inoltre, anche le situazioni, che nel libro per comodità distinguo tra “ordinarie” e “straordinarie”, hanno il loro peso nell’indirizzare la comunicazione dei leader e nel decretarne (o meno) l’efficacia: a titolo illustrativo, valga l’esempio di George W. Bush, la cui reazione comunicativa all’attacco alle Torri Gemelle – una situazione di drammatica emergenza nazionale e internazionale – ha segnato un recupero di consensi che era inimmaginabile nell’estate del 2001, preparando così la strada per la sua rielezione.
Come comunicano i regimi autoritari?
Anche qui, bisognerebbe fare un discorso articolato, giacché lo stesso campo dei regimi autoritari è variegato: da quelli di stampo militare alle dittature di matrice ideologica (di destra o di sinistra), fino agli autoritarismi di taglio schiettamente personalistico (per esempio, l’Iraq sotto Saddam Hussein). In ogni caso, volendo fissare qualche coordinata generale, diciamo che in questo tipo di sistemi, come cerco di argomentare nel volume, la comunicazione dei leader ha una certa importanza, maggiore che nei regimi democratici semplicemente perché i ruoli di vertice non sono nella disponibilità dei sudditi o delle masse: laddove sono previste, le elezioni non hanno naturalmente lo stesso significato delle consultazioni libere, ricorrenti e corrette che si svolgono nelle democrazie, ma servono solitamente da mera legittimazione simbolica dei dittatori (si pensi ai contemporanei casi di Maduro in Venezuela on di Lukashenko in Bielorussia. Detto questo, il tipo di comunicazione prevalente nei regimi autoritari dipende strettamente dagli scopi politici del regime stesso: a titolo illustrativo, in quelli dove lo scopo è mobilitare i seguaci – come nel fascismo italiano – la propaganda, accanto ai discorsi del capo del regime, gioca un ruolo fondamentale; viceversa, dove il fine prevalente è la “smobilitazione” delle masse, come nella Spagna di Franco o in altre dittature militari, il ruolo della comunicazione è più essenziale e in alcuni casi non è nemmeno la risorsa principale impiegata dal governo autoritario per ottenere la soggezione delle masse, bensì si preferisce ricorrere alla repressione e alla violenza (come in molti autoritarismi sudamericani: penso in particolare all’ascesa di Pinochet in Cile o alla dittatura dei colonnelli in Argentina).
Anche il terrorismo internazionale comunica, anzi: è possibile affermare che il terrorismo stesso è una forma di ‘comunicazione politica’?
No, dissento nella maniera più totale dal considerare il terrorismo una forma di comunicazione politica. Certamente, il terrorismo impiega la comunicazione politica, oggi specialmente quella social, per una miriade di scopi, tra i quali campeggiano il proselitismo, il reclutamento di potenziali attentatori, l’hackeraggio informatico e il reperimento di fondi – come l’esempio di ISIS, che tratto succintamente nel volume, illustra in maniera esemplare. Ma il terrorismo rimane una forma di lotta organizzata, che impiega la violenza sulle cose e sulle persone, al fine di esercitare pressione sui governi dei Paesi aggrediti con le azioni terroristiche, nel senso di ottenere da loro provvedimenti che interessano ai movimenti terroristici stessi (il rilascio di compagni arrestati, il ritiro delle truppe da qualche territorio, il sostegno alle loro rivendicazioni). Che poi, almeno in qualche grado, la comunicazione sia stata una delle principali risorse sfruttate dal terrorismo internazionale, specie di matrice islamica, è un altro discorso. Bisogna comunque avere ben chiare le categorie analitiche: il terrorismo è prima di tutto una organizzazione di uomini che, attraverso la violenza, persegue scopi politici. La comunicazione identifica uno dei mezzi prescelti per facilitare l’ottenimento di quegli scopi. Ritengo che alcune suggestioni contemporanee che considerano il terrorismo come una “forma di comunicazione” confondano il mezzo (i social, per esempio) con le organizzazioni che lo utilizzano. Questo abbaglio risulta immediatamente chiaro allorché si cerca di applicare la stessa chiave di lettura a fenomeni analoghi ma collocati in altri contesti, lontani nello spazio e/o nel tempo: ad esempio, nell’Italia degli anni Settanta nessun si sarebbe sognato di definire le BR come una forma di comunicazione politica…
Quale stile di comunicazione adottano i movimenti transnazionali?
A questi fenomeni ho dedicato una attenzione limitata nel volume, concentrandomi soprattutto su quello relativo alla parità di genere (#metoo) e a quello ambientalista capeggiato da Greta Thunberg (#FridaysForFuture). L’aspetto sul quale conviene concentrare l’attenzione è che questi attori mirano a conquistare potenziali sostenitori delle loro istanze e a mobilitarli online, grazie ad un sapiente utilizzo dei social, non di rado in connessione a manifestazioni organizzate offline (flash mob, marce di protesta, dimostrazioni pacifiche nelle piazze delle principali città). Sotto questo profilo, malgrado i social media non consentano una elaborazione complessa, è interessante notare come la comunicazione di queste organizzazioni riservi uno spazio niente affatto secondario alla costruzione di identità politiche condivise (di matrice sessuale o ambientalista) il cui successo è cruciale in vista della possibilità di mobilitare efficacemente i followers.
Flavio Chiapponi è ricercatore in Scienza politica presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Pavia, dove insegna Comunicazione politica e Marketing politico. Tra i suoi interessi di ricerca, figurano, oltre alla comunicazione politica, il populismo in Europa, la teoria della democrazia, lo studio dei partiti. Tra le sue pubblicazioni più recenti, oltre a Comunicazione politica. Un approccio teorico, il libro Democrazia, populismo, leadership: il MoVimento 5 Stelle (2017).