
L’intento del libro Comunicazione e potere è proprio di applicare questo modello per sfatare alcuni luoghi comuni ancora largamente imperanti, come quello che vede nel giornalismo un sistema alternativo ai centri di potere e impegnato nella ricerca della verità, o quello che considera l’interventismo degli USA nel mondo (prima in Vietnam e poi in Afghanistan, Iraq e Libia) basato sugli ideali di democrazia e libertà. Un altro luogo comune abbastanza radicato e tuttavia infondato è quello che considera la propaganda un sistema congeniale ai regimi totalitari ed esclusivo appannaggio di questo tipo di organizzazione politica e sociale. Chomsky invece ha mostrato come la propaganda si sia sviluppata proprio nei sistemi democratici, in primo luogo gli Stati Uniti e l’Inghilterra (dove già esisteva un Ministero dell’informazione fin dai primi anni del Novecento) perché, essendo due paesi a larga partecipazione democratica, era necessario studiare strategie per controllare le opinioni, indirizzare il consenso, non essendo possibile usare, tranne che in casi eccezionali, la forza. Ovviamente anche i regimi totalitari hanno usato tecniche di propaganda – il fascismo e, ancora di più, il nazismo con Joseph Goebbels – ma prendendo come modello di riferimento proprio il sistema del mondo anglosassone; lo stesso Hitler non mancava, nel Mein kampf, di esprimere la sua ammirazione per l’apparato propagandistico che gli Stati Uniti avevano usato durante la prima guerra mondiale nell’amministrazione di Wilson, convincendo in poco tempo la maggior parte della popolazione – che era contraria al coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra – a sostenere proprio l’entrata in guerra del loro paese contro la Germania. Inoltre nei regimi totalitari l’uso della propaganda è in generale più trasparente, utilizza delle tecniche che sono più facilmente riconoscibili e per questa ragione risulta assai meno interessante per la ricerca, anche perché in questi regimi è sempre possibile per controllare le opinioni usare la coercizione senza particolari problemi.
L’espressione “fabbrica del consenso” è stata coniata da Walter Lippmann, la personalità che più ha segnato il giornalismo americano del Novecento. Proprio negli anni venti egli richiamava l’attenzione sulle tecniche di propaganda per controllare le masse e pensava che il paese dovesse essere diretto da un’avanguardia di persone competenti e responsabili, le sole a poter prendere le decisioni importanti; anche la posizione di Harold Lasswell, uno dei fondatori delle moderne scienze politiche, andava nella stessa direzione quando riteneva che bisognasse rinunciare al dogma democratico secondo il quale il popolo sarebbe il miglior giudice dei propri interessi. Le tecniche di propaganda servono allora per guidare le persone, definite il «gregge disorientato», per controllare i loro pensieri e per convincerle ad assumere un ruolo passivo, accettando le direttive proposte dai sistemi di comunicazione mainstream.
Controllare le opinioni significa anche indirizzare la gente verso le cose superficiali della vita, il consumo, lo spettacolo, lo sport, il gossip, in modo da evitare che si interessi delle questioni importanti della vita economica e sociale del proprio paese e che partecipi in modo attivo alla sfera pubblica. Questa è la strategia della distrazione perseguita dall’industria dell’intrattenimento, (della quale fanno parte la pubblicità, il cinema, la musica, la televisione, o sport ecc.) che consiste appunto nel distogliere l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche utilizzando la tecnica del diluvio o dell’inondazione di distrazioni continue e di informazioni insignificanti. Il pubblico in questa maniera resta prigioniero della «filosofia della futilità» che promuove il consumo come alternativa alla ribellione, al fine di plasmare consumatori disinformati che fanno scelte irrazionali spesso contro i loro stessi interessi: ad esempio, il lavoratore amareggiato, invece di cercare di cambiare le sue condizioni di lavoro, cerca di rinnovarsi circondandosi di nuovi beni e servizi, segue le cose superficiali della vita, i consumi dettati dalla moda e dimentica le idee così pericolose di compassione, di solidarietà, di attenzione agli altri e, in generale, i valori umani.
Quali sono le tecniche retoriche utilizzate per il controllo del consenso?
Tra le tecniche retoriche ancora oggi più utilizzate nell’ambito del discorso pubblico troviamo le fallacie argomentative che sono esempi di argomentazione scorretta, in cui le premesse del ragionamento non sono attendibili perché costruite sulla base di pregiudizi o stereotipi, oppure addirittura sulla menzogna, o ancora sono espresse in forma ambigua e confusa; in altri casi le premesse non sono pertinenti rispetto all’argomento trattato. Pur essendo delle mosse argomentative scorrette, le fallacie sono molto frequenti e vengono usate nei più diversi contesti, proprio per la difficoltà di essere riconosciute come tali; la loro apparente correttezza le rende particolarmente adatte a manipolare intenzionalmente e in modo fraudolento l’uditorio, allo scopo di produrre una persuasione ingannevole. Ciò si spiega con il fatto che a differenza della logica formale, l’argomentazione, poiché tratta usi pratici del ragionamento (ad esempio in campo etico, politico o giuridico) deve soddisfare anche l’ulteriore criterio della efficacia e della forza persuasiva: entrano qui in gioco anche gli elementi della psicologia del ragionamento.
Una delle fallacie più sfruttate dai protagonisti della comunicazione politica è la cosiddetta fallacia di presupposizione o ragionamento circolare, si presenta come un errore logico, perché inserisce tra le premesse di un’argomentazione la conclusione, ovvero ciò che si intende dimostrare. Già Gorgia, il grande protagonista della retorica sofistica, era pienamente consapevole della forza persuasiva di questo tipo di ragionamento e lo utilizzava a pieno titolo nella sua opera più conosciuta e discussa: l’Encomio di Elena. Molti messaggi che ci vengono proposti, infatti, presentano già tra le premesse, in modo implicito o addirittura esplicito, la conclusione, che non è il risultato di un ragionamento, ma un assioma che viene spacciato per vero senza che venga fornita alcuna prova. Ad esempio, L’affermazione «l’aborto è l’uccisione ingiustificata di un essere umano, e come tale è omicidio. L’omicidio è illegale, dunque l’aborto dovrebbe essere illegale» appare fondata dal punto di vista argomentativo perché se si assume che l’aborto sia un omicidio, ne segue che, visto che l’omicidio è illegale, anche l’aborto dovrebbe essere illegale. Tuttavia il ragionamento proposto è chiaramente ingannevole perché la frase conclusiva non fa che ripetere in altra forma un principio già espresso nella prima premessa – cioè che il feto possa essere considerato a tutti gli effetti un essere umano – senza il sostegno di alcun principio di prova e altresì ignorando completamente il dibattito che tuttora divide i giuristi e gli scienziati su questa questione. La prima premessa di questo ragionamento è infondata perché l’argomentatore dà per scontato già in partenza che l’aborto sia un omicidio, senza apportare prove che convalidino questa affermazione; di conseguenza anche la conclusione, cioè che l’aborto dovrebbe essere considerato illegale, è infondata.
Questa strategia funziona molto bene nel discorso deliberativo perché permette al soggetto politico di non rendere conto del proprio operato: ad esempio, per rispondere alle numerose critiche rivolte dai cittadini e anche da alcuni commentatori alle riforme promosse dal governo Renzi (sul lavoro, sulla scuola, sulla pubblica amministrazione ecc.), gli esponenti della maggioranza, hanno detto in più occasioni che un’innovazione era comunque necessaria, che la riforma è sinonimo di cambiamento, e un cambiamento è sinonimo di miglioramento, evoluzione, progresso. Il messaggio proposto è che la situazione andava modificata e chi critica il rinnovamento è allora un conservatore che vuole mantenere le cose così come sono, e la conservazione è di per sé un fattore negativo da stigmatizzare. Invece di analizzare i contenuti delle riforme e di confrontare ciò che si intende eliminare con ciò che si vorrebbe sostituire ad esso, ci si limita a declamare uno slogan sul cambiamento in quanto tale. La presupposizione che sta dietro all’affermazione in questione è che il nuovo che interrompe la continuità di una tradizione vale in quanto tale come positivo e che l’essere conservatore di qualcosa abbia aprioristicamente una qualifica negativa, a prescindere da quale sia in concreto il contenuto che si intende preservare. Se dovessimo applicare questo principio alla valutazione di episodi salienti della nostra storia, gli effetti sarebbero paradossali, perché si potrebbe dire che le leggi fascistissime approvate nel 1926, furono un esempio positivo di radicale innovamento rispetto a una vecchia tradizione liberale da lungo tempo in crisi.
Le fallacie di presupposizione sono dannose perché falsano le regole del dibattito e lo svuotano dal suo interno: si chiede al pubblico di accettare una tesi in modo del tutto acritico e non di ragionare su un determinato problema cercando la soluzione che si ritiene migliore; la discussione non verte più sugli argomenti ma si riduce alla proposta di slogan che si presentano validi senza alcun elemento di prova.
Un altro tipo di fallacia molto presente è l’argomento ad hominem, o appello alla persona; si verifica quando si cerca di screditare una tesi attaccando la persona che la sostiene attraverso alcune sue caratteristiche come l’aspetto fisico, le abitudini, la lingua, l’orientamento sessuale, la cultura di appartenenza, piuttosto che portando ragioni contro la tesi stessa. Se, ad esempio, P. sostiene le ragioni a favore dell’istituzione del reddito di cittadinanza, si compie una scorrettezza nel momento in cui per contestare la sua idea si fa presente che su P. pende un’accusa di frode. In questo caso gli argomenti di P. possono essere validi anche nel caso in cui lui sia un soggetto di dubbia moralità e andrebbero esaminati indipendentemente dall’opinione che abbiamo di lui, perché questa non è rilevante per giudicare la validità della sua tesi. Se un rappresentante sindacale sostiene che nella fabbrica dove lavora è necessario migliorare i dispositivi di sicurezza, che a suo avviso risultano carenti e non adeguati a garantire l’incolumità dei lavoratori, il responsabile della sicurezza usa un’argomentazione scorretta se afferma che questa richiesta non può essere presa in considerazione perché lo stesso rappresentante non è credibile, visto che negli anni sessanta fu arrestato per resistenza a pubblico ufficiale. In questo caso il punto dovrebbe essere verificare la qualità dei dispositivi di sicurezza avviando un’analisi del rischio e non indagare sui precedenti del rappresentante sindacale. Nonostante la sua palese infondatezza, la fallacia ad hominem spesso risulta efficace nei contesti elettorali perché è funzionale al fenomeno noto come «personalizzazione della politica» che ha assunto sempre più una notevole rilevanza. In effetti la televisione si dimostra un mezzo estremamente efficace per rappresentare la politica attraverso le persone e i loro confronti spettacolari, attraverso la televisione la politica viene rivista e costruita come uno spettacolo, in cui agiscono delle “personae”, cioè delle maschere teatrali, nelle quali gli spettatori possono proiettarsi e identificarsi. La televisione ha cambiato il modo di fruizione della politica, che viene ricevuta in una dimensione privata e come funzione di personalità singole. La mediatizzazione della politica richiede la presenza sulla scena di leader che siano da una parte ben identificabili e dall’altra in perenne scontro con i loro avversari. La politica assume così le caratteristiche di un “corpo a corpo”, in cui gli aspetti enunciativi che riguardano il contenuto del discorso sono messi in secondo piano rispetto a quelli enunciazionali che si riferiscono, invece, alla presenza di chi pronuncia il discorso, con la conseguenza che non è tanto importante cosa si dice, quanto chi parla. La retorica tende in questa maniera a diventare un puro strumento di affabulazione anche e soprattutto attraverso uno squilibrio nell’uso delle tre argomentazioni di matrice aristotelica, l’ethos, il pathos e il logos, dove il primo diventa elemento privilegiato dell’argomentazione rispetto ad un logos il cui ruolo rimane molto limitato e secondario.
La fallacia ad hominem si presenta anche nella variante del tu quoque, detta anche fallacia di azzeramento: ciò si verifica ad esempio, quando, per scagionarsi da un’accusa di corruzione, si afferma che anche la parte avversa si è macchiata dello stesso reato; oppure quando si dice che non bisogna indignarsi per la corruzione dei politici, perché casi analoghi sono presenti anche tra i giudici, le forze di polizia, i medici ecc. Si parla in questo caso di violazione della rilevanza per simmetria. Lo scopo è quello di suggerire al pubblico l’idea che se la colpa è generalizzata, e se molte persone si comportano in questo modo, non c’è da preoccuparsi e il problema è azzerato. il risultato paradossale è che la generalizzazione del reato, invece di essere un elemento aggravante, assume al contrario funzione di attenuante. Questa dissonanza cognitiva la maggior parte delle volte non è rilevata dall’opinione pubblica. La simmetria a volte risulta anche menzognera, come quando Berlusconi, per difendersi dall’accusa di aver evitato dei processi grazie alle leggi ad personam promulgate dal suo governo, ritorse contro Prodi la medesima accusa, dicendo che Prodi si era salvato grazie all’amnistia e alla modifica dell’abuso d’ufficio, mentre in realtà fu Berlusconi a beneficiare di quelle leggi in quanto Prodi venne prosciolto perché i giudici hanno ritenuto che il fatto non sussisteva.
La conoscenza delle fallacie e dei meccanismi dell’argomentazione scorretta può aiutare i destinatari dei messaggi a valutarli con maggiore cognizione di causa e a difendersi dalla loro potenzialità persuasiva: in questa funzione di analisi critica del discorso pubblico risiede a nostro avviso l’attualità e l’utilità della retorica.
In che modo i media influenzano il comportamento delle persone e la formazione dell’opinione pubblica?
Oltre alla strategia della distrazione di cui abbiamo già parlato, il sistema dei media utilizza altre tecniche di manipolazione la cui dinamica è stata sempre messa in luce da Chomsky. La prima si può definire come la tecnica del “creare problemi e poi offrire le soluzioni” e si basa sullo schema “problema-reazione- soluzione”: si crea un problema, una situazione prevista per suscitare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desiderano far accettare. Ad esempio, lasciare che si intensifichi la violenza urbana, o organizzare attentati sanguinosi, con lo scopo che sia la stessa opinione pubblica a richiedere le leggi sulla sicurezza e le politiche a discapito della libertà. Oppure si lascia sviluppare una grave crisi economica senza intervenire con lo scopo di far accettare poi come un male necessario la retrocessione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici.
La seconda è la cosiddetta strategia della gradualità: per far accettare una misura che va contro gli interessi dei cittadini, basta applicarla gradualmente per anni consecutivi. In questo modo condizioni socioeconomiche radicalmente nuove sono state imposte durante i decenni degli anni ‘80 e ‘90: stato minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione di massa, salari che non garantiscono più redditi dignitosi, sistema pensionistico vessatorio soprattutto in riferimento alle fasce più deboli della popolazione. Tutti questi cambiamenti che hanno notevolmente peggiorato le condizioni di vita dei ceti medi avrebbero provocato una rivoluzione se fossero stati applicati in una sola volta.
La terza è la strategia del differimento: una decisione impopolare viene presentata come dolorosa e necessaria, ottenendo l’accettazione pubblica nell’immediato, rimandando però la sua effettiva applicazione a un momento futuro. È una strategia il più delle volte efficace, dal momento che è più facile accettare un sacrificio futuro che un sacrificio immediato, in primo luogo perché lo sforzo non è quello impiegato immediatamente e, in secondo luogo, perché il pubblico ha sempre la tendenza a sperare ingenuamente che “tutto andrà meglio domani” e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato. Questo dà più tempo al pubblico per abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo rassegnato quando arriva il momento della sua effettiva realizzazione.
Degna di interesse è anche la strategia dell’auto-colpevolezza che ha lo scopo di far credere alle persone che se si trovano in una situazione difficile dal punto di vista economico e sociale, la responsabilità di tutto questo appartiene a loro, alla loro insufficiente intelligenza e alle loro limitate capacità. Così, invece di ribellarsi contro il sistema economico, le persone si auto-svalutano e s’incolpano, cosa che crea a sua volta uno stato depressivo, uno dei cui effetti è l’inibizione della loro possibilità di reagire. E senza azione, naturalmente, non è possibile alcuna forma di reazione, sia individuale che collettiva. Questo obiettivo si consegue quando il pubblico è immerso nell’ignoranza e nella mediocrità e non è pertanto in grado di comprendere le tecnologie ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù. Per questa ragione negli ultimi decenni le politiche educative e scolastiche, anche in Italia, sono state organizzate sempre più in modo da far sì che la qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori sia la più povera e mediocre possibile, e che la distanza culturale che divide le classi inferiori da quelle superiori sia tale da non poter essere colmata. Per consolidare questo risultato l’industria dell’intrattenimento ha stimolato il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità, spingendolo a ritenere che è di moda essere stupidi, volgari e ignoranti.
Quale ruolo svolgono i mass media nella produzione delle paure collettive?
Generare delle paure nell’opinione pubblica per addomesticarla secondo gli interessi dei sistemi di potere è una strategia ormai classica che rientra nel più generale metodo di utilizzo dell’aspetto emozionale a discapito della riflessione, al fine di provocare un corto circuito su un’analisi razionale e indebolire il più possibile il senso critico delle persone. L’uso esclusivo del registro emotivo permette di aprire la porta d’accesso all’inconscio per impiantare, paure e timori, compulsioni, e indurre comportamenti adeguati a questo stato d’animo. Sfruttare la paura per far accettare una tesi corrisponde del resto alla dinamica della fallacia ad baculum, che coincide un appello più o meno esplicito alla forza, in virtù del quale si ricorre anche all’arma del ricatto come negli avvertimenti mafiosi, per cui ad esempio si invitano i lavoratori ad accettare determinate condizioni non troppo favorevoli perché altrimenti il loro contratto di impiego alla scadenza potrebbe non essere rinnovato. In questa maniera il soggetto non ha allora più la possibilità di valutare con libertà di giudizio le proposte dell’interlocutore e il confronto non è più dialettico.
Un esempio emblematico della strategia della paura è quello relativo all’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti nel 2003: per giustificare questa aggressione il governo americano e i loro alleati europei hanno sostenuto a più riprese che l’Iraq possedeva un arsenale di armi di distruzione di massa, che l’Iraq avrebbe potuto colpire direttamente gli Stati Uniti e che la forza militare irachena poteva addirittura essere paragonata a quella della Germania hitleriana. La maggior parte dei media americani, ma anche italiani, si è guardata bene dal sottoporre al vaglio critico queste tesi, mettendo in dubbio la loro palese infondatezza, ad esempio chiedendosi come fosse possibile che l’Iraq, colpito da anni di embargo e con un esercito di gran lunga inferiore a tutti gli altri paesi dell’area mediorientale, potesse costituire una minaccia immediata per una potenza militare mondiale come gli Stati Uniti. Al contrario i media a più larga diffusione non hanno fatto altro che ripetere fino alla nausea queste tesi, inducendo, secondo i sondaggi dell’epoca, la maggioranza della popolazione a essere favorevole all’intervento militare. Queste tesi si sono rilevate a distanza di anni del tutto menzognere e un importante giornale come il New York Times lo ha anche riconosciuto, dopo però che la macchina propagandistica aveva svolto efficacemente il proprio lavoro.
In che modo il web e i social media hanno modificato la narrazione della politica?
Le forme e gli strumenti della comunicazione digitale hanno permesso in questi ultimi anni di modificare in maniera rilevante le dinamiche della comunicazione politica, rendendo più facile per i suoi protagonisti coinvolgere emotivamente i pubblici di riferimento, costruire una relazione di fiducia, generare senso di appartenenza ad una comunità e favorire la comprensione delle proposte. La campagna politica per l’elezione di Barack Obama tutta centrata sui valori anziché sui contenuti costituisce da questo punto di vista un esempio importante di questa tendenza. Il web, infatti, e in particolare i social media permettono, per la prima volta, al politico di instaurare un dialogo diretto con i cittadini, superando la tradizionale mediazione degli organi della comunicazione di massa. Una presa di posizione postata su Facebook, un videomessaggio caricato su YouTube, uno scambio di battute su Twitter hanno la possibilità di diffondersi in Rete, e quindi arrivare a un numero potenzialmente elevato di persone, senza dover dipendere dalle scelte della redazione di un giornale o di una trasmissione televisiva. La mediazione giornalistica diventa così sempre più marginale. Una presenza online non sporadica e non strumentale, quindi non limitata solo allo spazio di una campagna elettorale, mette il politico nelle condizioni di illustrare in maniera puntuale la propria attività, informare sulle proprie proposte, fare emergere il proprio lato privato in modo da costruire un rapporto fiduciario e di identificazione con il suo elettorato di riferimento.
Tuttavia non sempre la narrazione politica costruita attraverso l’uso di Twitter o di Instagram è efficace, la coerenza tra il messaggio e la biografia del politico che lo diffonde, o tra il messaggio e il contesto sociale ed economico in cui viviamo, è fondamentale. Per questa ragione, ad esempio, la narrazione rassicurante sulla crescita economica e sul miglioramento delle condizioni di vita costruita dal governo Renzi non ha avuto i risultati di consenso sperati e, anzi, in molti casi ha suscitato irritazione e derisione. Un altro aspetto critico, questa volta riferito a un altro ambiente della comunicazione online molto amato dai politici come Twitter, riguarda il fatto che questo strumento viene considerato come un prolungamento social delle attività di comunicazione un tempo affidate esclusivamente all’ufficio stampa. In molti casi più che ascoltare, più che interagire, più che mobilitare il pubblico, ci si limita a diffondere i propri messaggi, imboccando la strada pericolosa dell’autoreferenzialità. Il dialogo che è alla base di questo mezzo di comunicazione è spesso trascurato e l’ascolto diventa una mera dichiarazione d’intenti più che un’attività veramente realizzata.
Al di là degli elementi di criticità che restano comunque importanti, è anche vero che la rete ha permesso in molti casi una diffusione più ampia e pervasiva delle notizie e una presenza di punti di vista diversi che spesso hanno poca possibilità di raggiungere i mezzi di comunicazione tradizionali. Molte persone non si informano più solo sui giornali e periodici più diffusi, o sui programmi d’informazione televisivi, e prediligono sempre più spesso la rete. La conseguenza è che l’influenza dei media sull’opinione pubblica sembra, soprattutto negli ultimi anni, essere sempre meno efficace, come dimostrano i risultati della campagna referendaria in Italia sulla riforma della Costituzione: la maggioranza dei giornali, dei periodici e delle testate giornalistiche televisive ha sostenuto il “SÍ” al referendum, mentre la maggioranza schiacciante degli elettori ha scelto il “NO”. Questo dimostra che il potere democratico nonostante tutto è ancora nelle mani dei cittadini che valutano gli argomenti dei politici e dei manipolatori dell’opinione pubblica. Quanto più le persone saranno consapevoli dell’importanza di questo loro potere e sapranno gestirlo al meglio, tanto più il veleno che infetta la comunicazione pubblica si indebolirà e il nostro sistema democratico, così fragile e compromesso, potrà rafforzarsi e consolidarsi.