
Il carattere orizzontale della piattaforma ha praticamente scalzato via i processi tradizionali di intermediazione che imponevano, nel bene o nel male, un loro ordine al dibattito. Tutti parlano con tutti senza la mediazione del tempo e senza le mediazioni delle procedure. Si è creata una grande confusione tra quanto è ufficiale, e quanto è invece estemporaneo; non è più possibile distinguere tra quelle che i linguisti chiamano pratiche discorsive. Per fare un esempio tristemente noto, gli esperti di diplomazia digitale non sapevano mai come interpretare un tweet di Trump. Come l’espressione di una sua opinione personale? Come una provocazione? Un ballon d’essai? Un atto istituzionale? Quello che vale ai massimi livelli per Trump, vale però per le produzioni di tutti noi: non è chiaro con quale fine scriviamo, a chi e perché.
La natura digitale della piattaforma, inoltre, fa sì che passiamo gran parte della nostra giornata (circa 6-7 ore al giorno, secondo le stime ufficiali) in un universo sociocomunicativo completamente inedito: comunichiamo in un ibrido tra conversazione spontanea e scrittura, tra privato e pubblico, tra una dimensione sincrona e asincrona. Non sempre è chiaro chi riceverà i nostri messaggi: il nostro contatto Facebook con il quale scherziamo? I suoi contatti? I contatti dei suoi contatti? I bot che raccolgono informazioni sul nostro conto ‘per profilarci meglio? Chi passerà su quella pagina tra dieci anni? Non si sa. Non è chiaro nemmeno da chi sono prodotti molti dei messaggi che circolano e che riceviamo, pensiamo ai meme per esempio. Ora, nessuno di noi è davvero educato a abitare questo spazio. Per navigarlo utilmente e prudentemente occorrerebbero competenze di cui la gran parte degli utenti non dispone e sulle quali c’è ancora bisogno di molta riflessione.
La gestione delle piattaforme da parte di colossali agenzie di pubblicità ha, poi, sottoposto il dibattito pubblico a logiche di profitto che richiedono che l’utente sia trattenuto in rete il più a lungo possibile attraverso un’esposizione a contenuti coerenti con il suo profilo e inclinazioni e quanto più accattivanti possibili. Il perseguimento di questa logica ha, da una parte, segregato gli utenti in eco chambers nelle quali essi ricevono unicamente messaggi che li confermano nelle loro opinioni e questo produce segregazione, estremizzazione, faziosità. D’altra parte, il bisogno di esporre gli utenti a contenuti accattivanti – le cosiddette ‘esche da click’, i clickbaiting come si dice in gergo – ha determinato il proliferare di contenuti caratterizzati da eccesso discorsivo: notizie sensazionali, fake news, discorsi d’odio, messaggi estremi e polarizzanti.
Infine, l’apertura universale delle piattaforme, che nasceva dalla sacrosanta esigenza di dare voce a tutti e non solo ai detentori di un potere di informazione e filtraggio, ha dato visibilità e risalto all’intera gamma di divergenze di valori e rappresentazioni della realtà che esistono nella società. In assenza di un’educazione al riconoscimento del discorso ricevibile, dell’argomentazione corretta – educazione che porterebbe meccanicamente i cittadini a marginalizzare i discorsi senza capo né coda – l’apertura universale della rete finisce per dare la falsa impressione che il dibattito pubblico contemporaneo possa essere fondato su una concezione totalmente relativistica del reale dove a contare e prevalere non sono i fatti, ma unicamente la loro percezione e rappresentazione.
Non dimentichiamo che a questa confusione che si produce più o meno meccanicamente, si aggiunge il dolo della cosiddetta propaganda computazionale, cioè quegli interventi esercitati per lo più tramite algoritmi da grandi potenze o grandi gruppi di potere, e tesi a minare, manipolare o orientare in maniera subdola il dibattito pubblico. Spesso, le nostre accese discussioni sui social sono infiammate ad arte da bot, che magari nemmeno riconosciamo come tali e scambiamo per veri utenti e che sono lì solo per creare confusione, disrupzione, o per dare risalto a movimenti d’opinione che in realtà sarebbero nella società molto più marginali di quanto la rete non lasci credere.
Quali indicazioni utili può offrire la linguistica per orientarsi in maniera rapida in tale dibattito?
La riflessione sulla lingua può fornire almeno una parte delle competenze che mancano agli utenti della rete per orientarsi nel dibattito: può darci una consapevolezza semiologica, una consapevolezza argomentativa e una consapevolezza strettamente linguistica sulle forme che prende la manipolazione.
La consapevolezza semiologica ci permette di capire in quale ambiente comunicativo ci muoviamo quando siamo sui social, e di comportarci di conseguenza. Possiamo capire per esempio che le condizioni in cui produciamo e riceviamo messaggi online non sono le condizioni adatte per dibattiti intensi su questioni fondamentali, perché si è spesso distratti, impegnati in un multitasking, perché i formati delle piattaforme impongono una brevità che spesso è inadatta ad argomentare, perché le piattaforme permettono un’interazione, ma non una vera partecipazione cittadina trasformatrice, perché banalmente prima di parlare, bisogna avere modo di pensare. La consapevolezza semiologica ci permette di evitare inoltre tutti quei rischi di fraintendimento che possono nascere dal fatto di maneggiare uno strumento che produce un discorso scritto e pubblico con la leggerezza con cui ci si lancia in una discussione orale e privata. Infine la consapevolezza semiologica ci permette di capire in quali comunità ci muoviamo, in che modo una comunità web ha bisogno di conformarsi a certe regole di obbedienza e fedeltà che inevitabilmente hanno un impatto sulla produzione dei nostri contenuti, sulla loro circolazione, sull’adesione, spesso superficiale, che si può trovare a quello che sul web si va dicendo.
Acquisendo una consapevolezza argomentativa, poi, gli utenti possono inserirsi nel dibattito pubblico in maniera giusta ed efficace, ma non fallace. Troppo spesso le nostre discussioni sul web finiscono male, non tanto perché siamo malintenzionati, ma semplicemente perché non sappiamo come coniugare efficacia, effetto retorico e correttezza.
La consapevolezza linguistica, infine, permette di riconoscere rapidamente tutte le manipolazioni che passano per la lingua, e sono amplificate dal web, a qualunque livello: impliciti, vaghezza, predicazioni non fondate, relazioni tra eventi non giustificate, dicerie, insinuazioni, decontestualizzazioni, ecc.
La linguistica globalmente dà agli utenti gli strumenti necessari per decidere davvero rapidamente e indipendentemente dalla conoscenza dei contenuti, se si è di fronte a un messaggio manipolatorio oppure no; se si è in un dibattito che vale la pena approfondire oppure no; se si è in condizioni di partecipare a un dibattito oppure no.
Quali suggerimenti consentono di decidere senza sforzo a quali dibattiti vale la pena partecipare?
Siamo stati educati a fidarci delle fonti certe. Ora, la legittimità di una fonte, la sua ufficialità e autorevolezza costituiscono solo uno degli elementi che vanno presi in considerazione quando si vaglia criticamente un discorso. È altrettanto, se non più importante, analizzare il discorso in sé. Quando un discorso è vago, implicito, insinuante, ammiccante, non fondato, più o meno sottilmente violento, quale che sia la fonte da cui proviene, è un discorso con il quale non vale la pena confrontarsi. Allo stesso modo, lanciarsi in un dibattito che è chiaramente impostato in maniera manipolatoria, capziosa, violenta, tendenziosa o schiettamente falsa, è una perdita di tempo. Così come è una perdita di tempo, fermarsi a leggere testi che non sono solidi dal punto di vista linguistico e argomentativo. E questo indipendentemente da chi ne sia all’origine.
In qualche modo, dovremmo riservare l’abitudine di verificare l’attendibilità di un’informazione (o impegnarci a dibattere) solo per quei discorsi che ci sembrano giusti e corretti e proprio lasciar stare gli altri. Siamo bombardati di informazioni : un filtro è necessario.
Come è possibile evitare di subire o riprodurre involontariamente manipolazioni linguistiche e discorsi fallaci?
Monitorando costantemente e criticamente non solo i discorsi altrui, ma anche i propri. Bisogna chiedersi costantemente se tutti i partecipanti ad una conversazione stanno parlando delle stesse cose; se ciò che si dice di quelle cose lo si dice in maniera esplicita e fondata o in maniera allusiva, implicita e senza fondamento; se c’è una coerenza globale tra le varie cose che si vanno dicendo e soprattutto se è chiaro l’obiettivo globale del discorso in cui ci si sta impegnando.
Insomma non bisogna smettere mai, mentre si discute, di farsi alcune domande semplici: «Di cosa stiamo parlando?», «Cosa ne stiamo dicendo?», «Abbiamo elementi per affermare quello che diciamo?», «Siamo sufficientemente espliciti?», «Siamo sufficientemente precisi?», «Le varie cose che diciamo sono coerenti fra loro?». Ma soprattutto: «Abbiamo tutti chiaro dove vogliamo andare a ‘parare’?».
Bisogna sapere che non capirsi, dare significati diversi alle stesse parole è la norma nelle discussioni tra umani. E solo un costante monitoraggio del canale di comunicazione, e della ricezione del nostro messaggio ci può evitare di fallire la nostra comunicazione.
In che modo si può avere la consapevolezza necessaria per usare al meglio i canali, le tecniche e le pratiche di cui si dispone?
Serve un’educazione linguistica al digitale che deve essere proposta fin dalla più giovane età sia dalla scuola sia dalla società in generale, in una dimensione di educazione pubblica continua.
Come si può sviluppare una sensibilità semiotica generale con cui analizzare la comunicazione non verbale, fatta di immagini e video, diffusa in rete?
Un’educazione alla comunicazione in generale può già fare molto; ma in questo momento, visto il cambiamento che si sta producendo in rete, dove ormai la comunicazione è tutta multimodale e in grandissima parte parlata anziché scritta, si sente l’esigenza di sviluppare presso i cittadini, oltre ad un’educazione civica di base, oltre ad un’educazione linguistica, anche un’educazione all’immagine che venga ad affiancare altri saperi più formali.
Paola Pietrandrea è Professoressa ordinaria di Scienze del linguaggio all’Université de Lille