“Computer, robot ed esperimenti” di Viola Schiaffonati

Computer, robot ed esperimenti, Viola SchiaffonatiComputer, robot ed esperimenti
di Viola Schiaffonati
Meltemi editore

«In questo libro ho proposto la nozione di esperimento esplorativo, mostrando come il concetto di esperimento in funzione nelle scienze naturali non debba essere semplicemente adattato alle scienze ingegneristiche, quanto piuttosto modificato per includere forme diverse di sperimentazione. Nella storia della scienza l’applicazione acritica del metodo scientifico al di fuori delle discipline per cui esso è stato pensato ha prodotto risultati discutibili come è ben evidente, per esempio, nella psicologia e nella sociologia. Nel capitolo 4, a questo proposito, ho fatto riferimento alle “scienze innaturali” del premio Nobel Peter Medawar.

Per concludere il libro, mi sembra importante discutere una prospettiva recente che, per quanto diversa da quelle dell’assimilazione tra scienze artificiali e naturali, si pone nello stesso solco ed è probabilmente destinata a ripetere gli stessi errori. Si tratta di un lavoro, pubblicato recentemente su Nature, che discute della necessità di fondare una nuova disciplina dal nome di Machine Behaviour. Questa nuova disciplina dovrebbe basarsi sull’idea che, così come gli esseri umani e gli animali non possono essere studiati a prescindere dai loro contesti, il comportamento di macchine sempre più sofisticate, realizzate nell’ambito dell’intelligenza artificiale, non può essere compreso se non con uno studio integrato degli algoritmi e dei contesti sociali in cui essi operano. Anche in questo lavoro si parte dal constatare che gli scienziati che studiano il comportamento di queste macchine sono per la maggior parte gli stessi soggetti che le hanno create, e che sono quindi interessati ad assicurare che esse svolgano adeguatamente la funzione per cui sono state costruite. Tuttavia, la natura di questi sistemi artificiali estremamente complessi, non trasparenti e dai risultati difficilmente prevedibili, rende necessario uno studio specifico del loro comportamento.

Le motivazioni elencate a supporto della nascita di questa nuova disciplina sono tre. In primo luogo, perché gli algoritmi operano nelle nostre società e hanno un ruolo sempre più centrale in molte delle nostre attività quotidiane. Inoltre, perché alcuni dei loro attributi e comportamenti sono difficili da comprendere a causa delle proprietà complesse sia degli algoritmi sia degli ambienti in cui operano. Infine perché, data la loro ubiquità e complessità, prevedere gli effetti di questi algoritmi – siano essi positivi o negativi – è diventata una sfida sostanziale.

Proprio per queste caratteristiche la nuova disciplina del Machine Behavior dovrebbe essere multidisciplinare e integrare conoscenze provenienti da diverse discipline. In particolare, secondo gli autori della proposta, dovrebbe impiegare i metodi delle scienze sociali e del comportamento, dando per scontata l’analogia fra animali e macchine. È significativo osservare che, anche in questo caso, sembra che nell’analizzare i metodi di una disciplina dell’artificiale non si possa che fare ricorso ai metodi e agli strumenti di discipline già esistenti. Se fino a questo momento il riferimento metodologico principale sono stati i metodi sperimentali delle scienze naturali, ora questo riferimento pare essere costituito anche dalle scienze sociali, e in particolare dai metodi delle scienze del comportamento, come gli esperimenti randomizzati, le inferenze osservazionali e le statistiche descrittive basate sulle popolazioni. A mio parere è invece giunto il momento di ripensare questi metodi, insieme alle peculiari caratteristiche che essi hanno nelle discipline dell’artificiale, in parziale indipendenza sia dalle scienze naturali sia da quelle sociali. Non si tratta solo di non reinventare la ruota, come criticamente è stato commentato questo articolo, suggerendo che la cibernetica abbia già ampiamente trattato gli stessi temi. Si tratta piuttosto di non ripetere gli stessi errori; in un momento di grande sviluppo dell’ingegneria informatica, e in particolare dell’intelligenza artificiale e dei sistemi robotici autonomi, occorre porre un’attenzione particolare alla riflessione sui metodi di queste discipline e alla loro strutturazione. Passare dall’adesione acritica ai metodi sperimentali delle scienze naturali all’adozione trionfalistica, e non del tutto giustificata, dei metodi delle scienze sociali significa ripetere lo stesso errore e dimenticare l’unicità delle discipline dell’artificiale.

Questo libro offre, dunque, un contributo per una riflessione sui fondamenti delle discipline dell’artificiale a partire dalla prospettiva di una di esse – l’ingegneria informatica – e dall’indagine sul suo metodo sperimentale. Come ho cercato di mostrare, alcune peculiarità ontologiche di queste discipline richiedono l’apertura a metodi differenti. Ciò non significa negare che molti dei metodi validi per le scienze naturali e sociali non possano esserlo anche per le discipline dell’artificiale. Significa, piuttosto, ampliare i concetti tradizionali, partendo da un’analisi quanto più possibile accurata delle pratiche della ricerca, adottando una epistemologia della pratica scientifica non focalizzata solo sui prodotti della scienza, come le teorie, ma sulle azioni della scienza. Questa pratica, quindi, deve essere intesa in senso ampio e includere, oltre alla creazione di teorie e spiegazioni, anche altre attività come il collezionare dati, il manipolare entità e processi, l’indagare fenomeni per i quali non vi sono teorie a fare da sfondo. Tutto ciò significa anche aprirsi ai metodi di diverse discipline. Oltre alla filosofia della scienza e alla filosofia della tecnologia, possono giocare un ruolo importante in questa impresa anche la filosofia della tecnoscienza, la sociologia della scienza, gli studi sulla scienza e sulla tecnologia.

Molto resta ancora da fare. Non solo per estendere queste riflessioni ad altre discipline dell’artificiale, come per esempio ad altre scienze ingegneristiche, ma anche per costruire un metodo di indagine innovativo su questi temi. L’analisi sistematica delle pubblicazioni di cui mi sono servita in questo libro è senza dubbio un buon punto di partenza, anche se presenta molti limiti: primo fra tutti, la discrepanza fra le attività concrete e quanto viene descritto in pubblicazioni che, il più delle volte, appaiono ripulite dalle fatiche del procedere per tentativi ed errori che costituisce, invece, uno dei tratti salienti dell’impresa scientifico-tecnologica. L’etnografia della scienza, e in particolare l’osservazione partecipante, può costituire una valida integrazione. Tuttavia, è importante che l’attenzione non rimanga esclusivamente concentrata sul singolo caso che può ingiustificatamente ergersi a paradigma anche senza averne le caratteristiche. Credo quindi che per porre le basi di una filosofia delle discipline dell’artificiale o filosofia delle ingegnerie occorrano vari elementi: in primo luogo occorre un’analisi sulla natura, sui metodi e sulle azioni delle ingegnerie a partire dalle loro pratiche; in secondo luogo una riflessione sul metodo di indagine, che è filosofico nel suo tentativo di trovare linee e quadri concettuali di riferimento sufficientemente generali, ma aperto anche ai metodi empirici; infine, occorre una frequentazione imprescindibile dei luoghi dove questa conoscenza ingegneristica ha luogo e prende forma.»

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