
Con questa espressione, «il complesso di Peeperkorn», indico il comportamento di quelle persone che hanno la facoltà, e facilità, di parlare, anche in modo diffuso, senza dire nulla. Pieter Peeperkorn, personaggio della Montagna incantata, o magica, di Thomas Mann, è un ricco olandese delle colonie, un po’ di colore, un uomo di Giava, un piantatore di caffè. Peeperkorn ha il dono ‒ dice Mann ‒ di parlare senza dire niente. Certe volte le sue frasi non sono neanche pronunciate.
Peeperkorn si esprime sciorinando frasi come queste:
«Signori… bene. Tutto bene. Chiuso, e non parliamone più. Ma prego di considerare e di non trascurare, nemmeno un istante, che… Ma lasciamo questo punto. Ciò che spetta a me di dire non è tanto questo quanto piuttosto e soprattutto che abbiamo l’obbligo… che ci è imposto l’imprescindibile… ripeto e metto in rilievo questa parola… l’imprescindibile dovere di… No! Nossignori, non così! Non già che io… Sarebbe grave errore pensare che io… Chiuso, signori, chiuso e liquidato. So che in tutto ciò siamo d’accordo. Dunque: veniamo all’argomento!»
Non aveva detto un bel niente, commenta Mann, ma la sua testa aveva senza alcun dubbio un aspetto così importante, la mimica e i gesti erano stati talmente decisi, penetranti, espressivi che tutti credevano di aver udito cose notevolissime.
Ecco, c’è chi ha il complesso di Edipo e nutre amore per il genitore del sesso opposto e gelosia verso quello dello stesso sesso, e c’è chi ha il complesso di Peeperkorn e nutre amore per il parlare senza dire nulla e una certa rivalità (inconscia) verso quelli che parlano chiaro e non si nascondono dietro le parole.
Nel libro Lei racconta che la Sua riflessione sul nulla nacque dalla lettura de “L’Essere e il nulla” di Jean-Paul Sartre.
Non mi vergogno a confessare che quando iniziai a leggere L’Essere e il nulla. Saggio fenomenologico sull’ontologia di Jean-Paul Sartre, nella traduzione italiana di Giuseppe Del Bo, siamo negli anni settanta, non ci capii nulla, letteralmente nulla. In quel periodo – avrò avuto sui vent’anni o poco più – mi atteggiavo a fare l’esistenzialista, vestivo di nero, fumavo sigarette francesi, ascoltavo le canzoni di Juliette Greco (la Greco cantò delle canzoni scritte da Sartre come La Rue des Blancs-Manteaux) e dunque era obbligatorio, scontato che leggessi Sartre. Dopo aver preso in mano il libro di Sartre e aver letto frasi come «Il per-sé è l’in-sé perdentesi come in-sé per fondarsi come coscienza. La coscienza trae dunque da se stessa il suo esser coscienza e non può rinviare che a se stessa, in quanto è la propria nullificazione; ma ciò che si annulla nella coscienza, senza tuttavia potere esser detto fondamento della coscienza, è l’essere in sé contingente», oppure frasi di questo tenore: «L’in-sé non può fondare nulla. Se fonda se stesso lo può soltanto dandosi la modificazione del per-sé. È fondamento di se stesso in quanto non è già più in sé: qui incontriamo l’origine di ogni fondamento. Se l’essere in sé non può essere né il proprio fondamento né quello di alcun altro essere, il fondamento in generale viene all’essere in virtù del per-sé. Il per-sé non soltanto fonda se stesso come in sé nullificato, ma con lui fa la sua prima apparizione il fondamento come tale», restai perplesso. Scioccato. Era un testo indigeribile, criptico per le mie orecchie. E però il tema, il nulla, nonostante il frullato quasi nonsensico (almeno per me) preparato da Sartre, continuava a affascinarmi, era stimolante; m’intrigava il fatto che l’avevano affrontato in tanti: poeti, filosofi, artisti, romanzieri, musicisti. Non volevo desistere, arrendermi per colpa di Sartre (del resto a me piaceva più la Greco, si sarà capito). E perciò, quando si presentò l’occasione, e cioè un convegno sul Nulla organizzato nel maggio del 2011 da Paolo Nori, con la partecipazione di Stefano Andreoli (informatico), Mauro Dadina (astronomo), Anna Pasi (ginecologa), Alfredo Gianolio (avvocato), Carlo Boccadoro (compositore), Mirco Ghirardini (clarinettista), Guido Barbujani (genetista), Guido Leotta (editore), Alessandro Bonino (blogger), Ugo Cornia (scrittore), Gabriele Bevilacqua (pianista), Marco Raffaini (fisarmonicista) e lo stesso Nori, fui contento di ripensare a quel tema e di provare a sviscerarlo alla mia maniera.
Sempre nel Suo testo, Lei ragiona sull’espressione «Come se niente fosse», un’espressione apparentemente innocua, in realtà…
Come se niente fosse è il titolo della relazione da me tenuta al secondo convegno sul Nulla, sempre organizzato da Nori, questa volta nella Sala Borsa di Bologna il 15 dicembre 2012. Non c’è uno senza due, perciò fu fatta una seconda edizione del convegno sul Nulla.
Nella mia relazione ragiono sul modo di dire «Come se niente fosse» che ha sempre esercitato un fascino particolare su di me, mi ha sempre incuriosito e allo stesso tempo lasciato perplesso, dubbioso nel tentativo di afferrarne il senso. Per altro Adelphi ha pubblicato di recente il romanzo di una brava scrittrice e giornalista, Letizia Muratori, intitolato per l’appunto: Come se niente fosse, che ha per protagonista una scrittrice in crisi che conduce un seminario, e proprio attraverso il contatto con i lettori e il loro giudizio, finirà come se niente fosse per raccontare la sua vera storia e svelare il suo vero volto.
La mia esposizione è condotta imitando certi ragionamenti filosofici che muovono da frasi banali, da affermazioni di una semplicità lapidaria e finiscono per mettere le brache al mondo. In superficie il mio approccio appare come un discorso di senso, che ha una sua logica interna; in realtà è un ragionamento assurdo, campato in aria, senza nessuna validità dimostrativa. Si tratta di una sorta di parodia del classico «ragionamento per assurdo», un tipo di argomentazione logica in cui si assume temporaneamente un’ipotesi, si giunge a una conclusione assurda, e quindi si dimostra che l’assunto originale deve essere errato.
Dalla mia analisi appare, ad esempio, che il niente è un affare complicato. Pensate ad esempio alle pratiche zen e alla ricerca di quel tipo di «conoscenza assoluta», come la chiamano i buddisti, che trascende non solo il pensiero intellettuale, ma anche la percezione dei sensi e permette, semplifico al massimo, un’esperienza diretta dell’essenza assoluta, indifferenziata, indivisa, indeterminata della vita. Approdare a questa esperienza di «pacificazione nullista» («Cosa fa un Buddha sotto l’albero del Bodhi? Non fa nulla. Si limita a essere») comporta anni e anni di studio, di meditazione, di assimilazione di tecniche ascetiche che sono tutto tranne che facili. Ne deduco perciò che il modo di dire «come se niente fosse», inteso nell’accezione di «con la massima facilità», risulta fuorviante e soprattutto non veritiero.
Questo tipo di operazione – mimare in modo ironico un ragionamento per assurdo – sottende il mio amore per la letteratura del nonsense che ha al suo attivo una lunga e gloriosa tradizione. Mi riferisco ad esempio a versi come quelli del Burchiello:
«Nominativi fritti, e mappamondi,
E l’arca di Noè fra due colonne
Cantavan tutti Chirieleisonne
Per l’influenza de’ taglier mal tondi.
La luna mi dicea, che non rispondi?»
oppure alle poesiole di Petrolini:
«Fiore di virgoletta e di bacillo
Quando ti vedo mi fa male un callo
Ti amo come si ama il coccodrillo.»
passando per i limerick di Edward Lear:
«C’era un vecchio di Budurro
Che mangiava eternamente pane e burro;
Fin che un’enorme pagnotta,
Cacciata a forza in bocca,
Soffocò quel tristo vecchio di Budurro.»
per arrivare fino a Totò:
«Il funzionario civico municipale è un aggettivo qualificativo di genere funzionario, il funzionario fisiologicamente funziona con la metamorfosi della leptempsicosi, la fase del funzionamento muove la leva idraulica delle cellule che, agendo sull’arteriosclerosi del soggetto patologico, lo fa funzionare nell’esercizio delle proprie funzioni. Non ha capito che cosa vuol dire? Beh, nemmeno io.»
Il nonsense, di origine inglese, è certamente una reincarnazione del koan, letteralmente «certificazione pubblica», che è una tecnica zen che dall’esterno appare come una vera e propria insensatezza. Il suo scopo è stimolare il raggiungimento dell’illuminazione presentando problemi paradossali. Il koan è un indovinello insolubile con i metodi della logica, è un «anti-indovinello» che l’allievo deve tentare di risolvere; è un enigma, o un problema insolubile, o un paradosso logico, che il maestro propone al discepolo per aiutarlo a scoprire l’inadeguatezza di ogni sforzo razionale a penetrare la realtà ultima.
Ad esempio: il maestro chiede all’allievo: «Una ragazza cammina per la strada: è la sorella maggiore o la minore?» Al che l’allievo non dice nulla, bensì assume un comportamento amabile, cercando di diventare la ragazza: mostra così che l’importante è l’esperienza dell’essere e non la descrizione verbale.
Ecco un classico dialogo buddhista:
– Maestro, qual è la natura ultima della realtà?
– Domandalo a quel palo.
– Non ho capito.
– Neppure io.
Insomma, per riassumere, nello scrivere Come se niente fosse mi sono ispirato alla letteratura del nonsenso.
È possibile parlare senza dir nulla?
Certo che si può, come dimostra Pieter Peeperkorn. Al riguardo si pensi ai politici che brillano per la loro attitudine comunicativa al vago, all’astruso, al nebuloso, all’incomprensibile, allo sfuggente. Si dice di solito, è un luogo comune, che per fare i politici bisogna essere prima di tutto diplomatici. Credo che questo sia vero perché come affermava William James Durant (1885-1981), filosofo e scrittore statunitense, «metà dell’arte della diplomazia consiste nel non dire nulla, specialmente quando stiamo parlando».
Nel Manuale minimo dell’attore (1997), parlando del grammelot, gioco onomatopeico che consiste nell’emissione di suoni che imitano la struttura sonora di una determinata lingua senza però pronunziarne parole reali, Dario Fo confessava che uno dei suoi sogni segreti era quello di riuscire, un giorno, a entrare in televisione, sedersi al posto dello speaker che dà le notizie del telegiornale e parlare, per tutto lo spazio della trasmissione, in grammelot. Scommetto, sosteneva Fo, che nessuno se ne accorgerebbe, si potrebbe continuare imperterriti per una buona mezz’ora a parlare così:
«Oggi traneuguale per indotto-ne consebase al tresico imparte Montecitorio per altro non sparetico ndorgio, pur secministri e cognando, insto allegò sigrede al presidente interim prepaltico, non manifolo di sesto, dissesto: Reagan, si può intervento e lo stava intemario anche nale perdipiù albato ‒ senza stipuò lagno en sogno-la-prima di estabio in Craxi e il suo masso nato per illuco saltrusio ma non sempre. Si sa, albatro spertico, rimo sa medesimo non vechianante e, anche, sortomane del pontefice in diverica lombata visito Opus Dei.»
Nel mio libro accenno anche alla categoria dei cantanti e racconto questo episodio. Nel marzo 2010, durante una trasmissione su RaiRadio3 intitolata Dr. Djembè condotta da David Riondino e Stefano Bollani, sollevai la delicata questione della cosiddetta «indeterminatezza semantica» che caratterizza quasi tutte le canzoni italiane. In altre parole facevo notare che i testi delle canzoni italiane, assunti come strutture narrative, non dicono niente, ovvero restano nel vago, nell’evasivo, nell’indeterminato appunto. E per dimostrare la mia tesi prendevo a modello la canzone Una rotonda sul mare (1964) di Migliacci, Faleni e Valleroni, cantata da Fred Bongusto, che – forse qualcuno lo ricorderà – inizia con questa struggente strofa:
Una rotonda sul mare / il nostro disco che suona /
vedo gli amici ballare / ma tu non sei qui con me /
eccetera eccetera.
Ora, nella fattispecie, io argomentavo che il testo, dal punto di vista semantico, non ci dice niente di ciò di cui sta parlando; non sappiamo ad esempio quale sia la rotonda in questione, si dice genericamente una rotonda, ma dov’è questa rotonda, in che località? È sul mare Adriatico, sul mare Tirreno, o addirittura su un lago, dato che certi laghi sono ritenuti dei «piccoli mari»? Non lo sapremo mai. E ancora: qual è il nostro disco che suona? Di che tipo di musica si tratta? È un rock, un twist, una samba, un cha cha cha, un lento? Che suona, va bene, ma come suona? È un disco dentro un juke-box, o c’è un disc jockey che lo aziona, o viene trasmesso da una radio? Anche qui niente, si brancola nel buio. Vedo gli amici ballare. Ma quali amici? Sono Mario, Giovanni, Teresa, Filomena? E cosa fanno nella vita questi amici, sono colleghi di lavoro del narratore, e come si sono conosciuti. Di nuovo niente, mistero. E cosa ballano? Sarebbe importante, per decodificare il testo, sapere che tipo di ballo stanno ballando questi amici. Ma tu non sei qui con me. Ma tu chi? Chi è la donna a cui si rivolge il narratore, sempre ammesso che si tratti di una donna, e come si chiama, quanti anni ha, di che colore sono i suoi occhi, è alta, bassa, eccetera. Tutti particolari che non è dato conoscere, e che per questo lasciano perplessi il lettore-ascoltatore. Come pure ci sfugge il significato di quel qui evocato nel testo, buttato lì senz’alcuna ulteriore specificazione. Qui dove? Dove si trova il narratore? È davvero su una rotonda sul mare o sta pensando a una rotonda sul mare in un altro luogo? In quest’ultimo caso, in quale città si trova? È a casa sua dov’è in corso una festa, in un bar, in un parco. Niente, il testo non ci dice assolutamente niente. E potremmo andare avanti così, facendo le pulci alla tenuta semantica del testo integrale di Una rotonda sul mare.
Il terreno si fa un po’ più scivoloso – scrivo nel libro – quando si parla degli scrittori. Come sempre, è buona norma evitare generalizzazioni estreme. In alcuni casi, penso a quegli scrittori che appartengono alla cosiddetta corrente del teatro dell’assurdo o alla letteratura del nonsense cui ho accennato prima, il non dire niente, cioè il voler non trasmettere informazioni o presentare i problemi o i destini di personaggi né esporre tesi o discutere ideologie, e cose del genere, costituisce per gli autori appartenenti a queste aree di ricerca una poetica intenzionale, voluta, perseguita. Più interessante, a mio avviso, è il caso di quegli scrittori che riescono a non dire niente senza volerlo, in modo involontario, senza rendersene conto, malgré lui. «Ci sono certi scrittori», dice il perfido Karl Kraus, «che riescono a esprimere già in venti pagine cose per cui talvolta mi ci vogliono addirittura due righe».
In ultima analisi la mia idea è che, a parte il caso di frasi prodotte da una mente confusa dal punto di vista psichico, la capacità di parlare – e in certe occasioni anche a lungo – senza dire assolutamente niente sia un virtuosismo sofisticato, una tecnica raffinata, insomma una vera e propria arte. Voglio dire che si tratta di una facoltà, una perizia che non s’improvvisano, bisogna studiare, allenarsi per arrivare a parlare correttamente e fluidamente senza dire nulla. Non è una cosa da poco (mi veniva da scrivere “da nulla”, ma mi sono fermato in tempo).
Possiamo paragonare il Suo libro ai divertissement letterari cari a Umberto Eco?
L’accostamento è molto lusinghiero per me. Vicino a Eco mi sento un po’ come quegli uccellini – si chiamano bùfaghe o uccelli-zecche – che hanno la caratteristica di posarsi sul dorso di grandi mammiferi africani quali rinoceronti, bufali, giraffe, ippopotami e antilopi. Però, una volta stabilite le doverose distanze, è indubbio che Il complesso di Peeperkorn s’inserisce a pieno titolo, e nel suo piccolo (diffidate dei falsi modesti) nel solco di quei testi divertenti scritti da Eco, che è un maestro nel campo del comico, fenomeno complesso che ha, fra le sue caratteristiche principali, la tecnica del rovesciamento: a questo proposito ricordo per tutti lo scritto di Eco intitolato Nonita uscito in Diario minimo (1963), recentemente ripubblicato nell’antologia Racconti da ridere (2017) uscita da Einaudi per la cura di Marco Rossari. Capovolgendo il capolavoro di Nabokov, Nonita è la storia di un giovinetto che rapisce la nonna di una sua conoscente, fugge con lei portandola sulla canna della bicicletta verso il Piemonte e la possiede in un ospizio di poveri vecchi, apprendendo fra l’altro che la vecchia non è alla sua prima esperienza.