
Eppure era stata proprio l’ideologia eliminazionista del nazifascismo a vedere le donne come generatrici della “razza indegna” da estirpare dal mondo, e a costruire per loro un universo concentrazionario diverso e più crudele di quello maschile, dove anche le kapo e le Aufseherin delle SS erano donne: solo la gerarchia superiore era maschile. A detta dello stesso comandante di Auschwitz-Birkenau, Rudolf Höss, l’aspettativa di vita delle prigioniere che non venivano selezionate subito per la camera a gas non superava i tre mesi.
Ancora una volta, è Primo Levi a cogliere l’essenza dello sterminio femminile, nel secondo passo del celebre comando di Se questo è un uomo: «Considerate se questa è una donna, senza capelli e senza nome, senza più forza di ricordare, vuoti gli occhi e freddo il grembo, come una rana d’inverno». Quel grembo significa la ferita della maternità, il figlio strappato dalle braccia e mandato al gas, gli esperimenti perché le donne ebree non potessero più perpetuare la “razza indegna”.
Diceva che nella storiografia dello sterminio nazista le donne sono pressoché invisibili: può spiegare meglio?
É stato così per lungo tempo, ora le cose stanno cambiando. Alla fine degli anni Ottanta, Joan Ringelheim, responsabile della Sezione di Storia orale del Museo dell’Olocausto di Washington, fece autorevolmente rilevare che nell’allestimento di Washington, per quanto spazio venisse dato alle vicende specifiche di rom, sinti, testimoni di Geova e omosessuali maschi, non era prevista una sezione dedicata alle donne. Ed era lo stesso in tutti i principali musei. Nella seconda metà degli anni Novanta, la grande partigiana Lidia Beccaria Rolfi, ex deportata di Ravensbrück, levò una protesta destinata a rimanere inascoltata per molti anni: «La storia vera, si sa, la fanno gli uomini, è destinata agli uomini. Donne e bambini sono soltanto un incidente di percorso, non hanno volto e non hanno nomi, vanno bene solo a completare i quadri dell’orrore con le loro manine alzate, il numero sul braccio e gli occhi da animali feriti».
Basti pensare che la letteratura di testimonianza ha avuto testi femminili di grandissimo rilievo – come Ruth Klüger, Margarete Buber-Neumann, Charlotte Delbo, Liana Millu, Giuliana Tedeschi, Edith Bruck – eppure i testimoni di riferimento sono stati esclusivamente uomini: Primo Levi, Robert Antelme, Jorge Semprún, Elie Wiesel, Jean Améry… Forse è per questo motivo, come osservava Giuliana Tedeschi, che nel tempo si era diffusa l’opinione che per capire Auschwitz bastasse leggere le testimonianze maschili e che la deportazione maschile e femminile potesse essere di fatto equivalente.
Tre donne, tre storie: quanto comuni e quanto diverse?
Il libro segue un filo di relazioni che accomuna tre deportate prigioniere nel campo di Auschwitz-Birkenau durante lo stesso anno, quel 1944 che precedette la Liberazione. Avevano età diverse – Liliana Segre, tredicenne, era poco più di una bambina, Goti Bauer era una giovane donna di vent’anni e Giuliana Tedeschi era una donna di trent’anni, sposata e già madre di due figlie – ma tutte e tre, dopo le leggi razziali del 1938, avevano patito una progressiva erosione dei diritti e della libertà, fino all’arresto e alla deportazione.
Liliana viveva a Milano, la madre era morta quando era ancora molto piccola. Dopo l’entrata in guerra aveva vissuto nascosta in Brianza e quando, ormai braccata, cercò di fuggire in Svizzera con il padre, poi assassinato ad Auschwitz, venne arrestata e caricata su un carro bestiame Nel campo cercò di isolarsi, di estraniarsi, di non affezionarsi a nessuno, per l’impossibilità di sopportare altre separazioni. Sopravvisse anche alla Marcia della morte e dopo la liberazione rientrò finalmente in Italia, senza trovare più nessuno della famiglia d’origine. Si sposò ed ebbe tre figli. Ora ha 87 anni e il 19 gennaio è stata nominata senatrice a vita della Repubblica italiana.
Goti Bauer veniva da una famiglia ungherese trasferita a Fiume, una cittadina cosmopolita in riva al mare che a quei tempi era italiana. Nel tentativo di fuggire in Svizzera, venne catturata e deportata insieme alla madre, al fratello più piccolo e al padre, gravemente malato. Fu l’unica sopravvissuta di tutta la famiglia, ma nel campo sperò con tutte le forze di poter riabbracciare il fratello, che cercò inutilmente nei convogli dei prigionieri dopo la Liberazione. Ora ha 93 anni, una figlia, nipoti e bisnipoti e ancora, quando può, va nelle scuole a testimoniare.
Giuliana Tedeschi viveva a Torino, dove si era laureata in linguistica. Aveva un marito e due figlie. Riuscì ad affidare le bambine a una suora prima di essere deportata. Il marito morì in un campo poco prima della Liberazione, ma al ritorno ritrovò le figlie, miracolosamente salve, e proprio questa speranza la tenne in vita durante la prigionia. Giuliana fu mossa da una necessità di solidarietà, nel campo, perché, come era solita ripetere, «le donne sono maglie, se una si perde si perdono tutte». É morta nel 2010, a 96 anni, lasciando pagine preziose di riflessione sulla sua esperienza.
Il Presidente della Repubblica ha da poco nominato Liliana Segre senatrice a vita: qual è a Suo avviso il valore profondo di questa scelta?
É un tributo dovuto, anche se tardivo. Un risarcimento fatto non solo a Liliana e alla memoria che rappresenta, ma a tutti i deportati, a tutti gli scomparsi, in un momento in cui l’ideologia nazifascista e il negazionismo riaffiorano pericolosamente in tutta Europa. Il testimone è colui che ha visto (martyr, in greco), ed è colui che più di chiunque altro può dire l’esito cui conducono politiche razziali, segregazioniste e fasciste, perché lo porta letteralmente impresso sulla propria pelle. Il Presidente Mattarella ha indicato con chiarezza la necessità di guardare al fascismo come all’origine e alla causa della deportazione razziale italiana: un monito importantissimo. La senatrice Segre, con la sua storia e la sua altissima testimonianza, ma anche con la sua capacità di leggere il presente, rappresenterà un baluardo per la democrazia e la dignità delle nostre istituzioni.
In che modo il racconto delle sopravvissute può contribuire a mantenere viva la memoria di ciò che è stato, in un’epoca come la nostra?
Oggi la memoria della Shoah è minacciata dalla normalizzazione. É qualcosa che fa paura quasi quanto il negazionismo, perché più insidiosa, meno facile a smontarsi: un turismo di massa, un’editoria di massa, un cinema di massa. Le divise dei deportati in vendita su eBay, l’Arbeit Macht Frei del portale di Auschwitz rubato su commissione, il bambino prigioniero di Majdanek fatto “rivivere” in internet e reso oggetto di migliaia di contatti e messaggi di auguri. É quello che Imre Kertész – premio Nobel per la letteratura e sopravvissuto di Auschwitz e Buchenwald – chiamò il «kitsch dell’Olocausto».
Sta a noi preservare la memoria, il lascito testimoniale che le sopravvissute e i sopravvissuti ci hanno affidato, interrogandolo senza mai considerarlo saputo una volta per tutte, e senza mai considerare in salvo la nostra civiltà dei diritti, costruita a fatica dopo due devastanti guerre mondiali e il precipizio criminale portato in Europa dal razzismo e dal nazifascismo. I testimoni hanno parlato, scritto, e ancora continuano a farlo: ma anche quando, inevitabilmente, nessun di loro sarà più tra noi, resteranno centinaia, migliaia di video, di audio e di libri. Un patrimonio che va preservato dal consumo e dalla banalizzazione. Quei testi, quelle parole, sono una biblioteca immensa che ci è stata donata, da soppesare, riascoltare e reinterrogare, che costituisce un lascito politico e umano, perché ci mette davanti agli occhi la verità innegabile dello sterminio, continuando a darci strumenti critici ed elementi di comprensione. Una comprensione profonda, che può passare solo dalla parola narrata, soppesata, temprata negli anni: la letteratura testimoniale.