“Come uccidere la tua famiglia” di Bella Mackie

Come uccidere la tua famiglia, Bella MackieA un anno e mezzo di distanza dall’uscita del romanzo in lingua originale, Come uccidere la tua famiglia arriva in Italia, edito da HarperCollins. Quello che a tutti gli effetti è il romanzo d’esordio di Bella Mackie, è al contempo uno dei più fragorosi debutti letterari degli ultimi anni, vendendo finora più di mezzo milione di copie, nel solo Regno Unito. L’autrice è una giornalista freelance, figlia dell’ex-direttore del Guardian, Alan Rusbridger. Ha collaborato con diversi giornali e scritto due manuali di “self-help”, incentrati sui benefici del jogging, prima di darsi alla narrativa. Come uccidere la tua famiglia si propone come un romanzo tagliente e ironico, una commedia nera che dovrebbe fare satira dell’ossessione contemporanea per il crime.

Trama

Grace è una ragazza inglese di vent’anni, nata da una liaison tra Simon Artemis, rampollo di una potente famiglia altoborghese, e Marie, un’attrice che dalla Francia si è trasferita a Londra in cerca di fortuna. Quando Marie rimane incinta, Simon teme lo scandalo, poiché ha appena avuto una figlia da Janine, sua moglie. Così, con l’aiuto della famiglia Artemis, allontana la piccola Grace, senza riconoscerla. Da sola, Marie sembra cavarsela con i bisogni della figlia, anche se è costretta a fare più lavori per sopravvivere, finché all’improvviso non muore. Grace cresce, muovendosi di casa in casa tra le amicizie della madre, e viene a conoscenza della verità sul padre. Assetata di vendetta, stermina la famiglia Artemis, per “restituire” il dolore che hanno procurato a lei e a sua madre. Una volta in carcere, perciò decide di scrivere le sue memorie e di raccontare i motivi per cui ha agito in questo modo.

Recensione

Se un po’ vi siete pentiti di aver letto le ultime righe della trama e ce l’avete col sottoscritto per avervi “spoilerato” il finale della storia, dovrete incolpare qualcun altro. Bella Mackie compie dal primo momento questa scelta, usando la forma del memoir. In questo modo, ci racconta nelle prime venti pagine, che Grace è riuscita a sterminare la famiglia Artemis, ma che si trova in carcere per un omicidio che non ha commesso. L’autrice dichiara così la direzione del suo romanzo, il modo di porsi nell’universo crime, un po’ con scetticismo, discostandosi dai canoni del genere.

Mettendoci davanti al fatto compiuto, Bella Mackie punta tutto sulla visione del mondo della protagonista, disincantata e con stoccate satiriche sulle contraddizioni e i problemi contemporanei, nonché proprio sui cliché del genere. Tuttavia, questo cinismo difficilmente riesce a essere sorprendente, o in qualche modo rivelatore. Più spesso si dimostra monotono, fiacco e contagia il resto del romanzo. Anche questa sorta di satira dei costumi con cui la protagonista si dilunga su ogni dettaglio o personaggio che incontra, non riesce quasi mai a essere tagliente. Grace è un personaggio che nella sua sfrontata intelligenza e superbia, non brilla mai per personalità o carattere. Sebbene nasca tra le difficoltà, non lo è mai davvero nelle vicende che affronta. Tutto le viene troppo facile, dagli omicidi al modo irrealistico in cui riuscirà a cavarsela, alla fine.

È però la direzione dello sguardo di Grace, uno dei principali problemi di questo romanzo. Se nelle prime sessanta pagine si può notare una certa attenzione per la struttura, i più maliziosi direbbero un editing meticoloso, questo scompare nelle restanti 370. Da qui, l’autrice dà libero sfogo ai pensieri della protagonista che diventano costanti, quasi meccanici nella narrazione. Ovunque vada, viene descritto qualsiasi ininfluente dettaglio dell’ambiente e delle comparse che affollano il romanzo. E di queste comparse, che ci danzano davanti una dopo l’altra in capitoli da sessanta pagine, si analizza il ceto sociale di ciascuno, come appaiono, cosa indossano, addirittura chi sono realmente, spesso in maniera pretenziosa. Sembra quasi che l’autrice non abbia saputo su quali dettagli focalizzarsi e abbia deciso di non rinunciare a nessuno.

È ovvio, poi, che uno sguardo tagliente, cinico sulla realtà, è molto difficile da tenere per un romanzo di 430 pagine. Per un’impresa simile, spesso non è solo questione di averlo più o meno naturalmente, ma di saperlo governare, aiutandosi con trama e personaggi. Ora, capite come sia invece impensabile riuscire interessanti se la protagonista, un po’ sapientina, dà un’opinione non richiesta su qualsiasi cosa le passi davanti. In più, c’è un lato goffo, a tratti involontariamente comico del modo di vedere di Grace. La ragazza, misantropa e femminista, finisce però per considerare le donne sempre e solo in tre particolari modi: c’è quella in gamba (specie rara), quella sfruttata e quella scema-superficiale. La piattezza delle osservazioni di Grace, che a volte rasentano l’ovvio, giusto per caricare l’effetto del cinismo, è una delle cose meno riuscite a Bella Mackie. È imperdonabile, poi, che un’antieroina che si presenta tanto cinica e furba, si dimostri nelle sue analisi particolareggiate, così leggera e banale. Un che di materialista e superficiale è sempre presente nelle sue analisi e nel suo modo di vedere.

Un esempio: «Ho risparmiato, mantenuto un profilo basso e condotto una vita regolare, in attesa del momento in cui avrei attuato il piano e iniziato un nuovo capitolo. Nessuno dedicherà romanzi memorabili a quel periodo, ma tanta gente si limita ad assecondare la routine senza neppure desiderare un nuovo capitolo. Si accontenta della propria esistenza ristretta e banale, di soddisfare i propri bisogni essenziali e di concedersi di tanto in tanto una bella bottiglia di prosecco. […] Capiamoci, non ho vissuto come una puritana. Mi sono concessa dei piccoli lussi. A quanto pare apprezzo le cose un po’ più belle della media, un’inclinazione che penso di aver ereditato […] Ecco perché nel mio appartamento c’è una parete dedicata alle scarpe, la droga più comune con cui le donne decidono di viziarsi. […] E ogni volta che mi sono seduta su una terrazza a bere un bicchiere di vino, ho scacciato subito il pensiero che forse la morte di Marie (sua madre n.d.a.) mi aveva procurato una vita migliore di quella che avevo avuto con lei. Okay, la sua perdita mi aveva causato un trauma enorme e i Latimer non erano mai stati la mia famiglia, però ero stata ripagata da un ingresso immediato nella benestante classe media.»

Ah, gli uomini sono tutti maiali o bastardi, tranne uno. C’era bisogno di dirlo?

Di conseguenza, quel è ancora peggio, è che i personaggi difficilmente escono dallo stereotipo o risultano interessanti. Per tutto l’arco narrativo restano delle figure di cartone, immutabili. Ciò si riflette anche sui dialoghi, che alle volte mancano di profondità, o assomigliano più a dichiarazioni. Anche qui, un certo pressappochismo nel modo di comunicare dei personaggi, li porta a esprimere, come fossero burattini, tutto quel che è necessario all’autrice, maldestramente. Spesso, sembra essere la stessa voce a parlare, mascherata all’occorrenza. Un esempio: la protagonista chatta con l’hacker che ha trovato, un ragazzino di sedici anni, per commettere uno degli omicidi. Lo tiene a bada, fingendosi attratta da lui.

«Pete non mi scriveva da sedici ore, sdraiata al buio con gli occhi spalancati, mi resi conto che se l’indomani non si fosse fatto sentire in fretta non avrei potuto uccidere Janine. […] Alle due mi alzai e mandai un vocale a Pete. Parlai con un tono acuto, sperando di sembrare più giovane, e un po’ tremante, per risultare più credibile.

“Non so dove sei o se stai bene. Sto piangendo perché ho paura che tu ti sia fatto del male o ficcato in qualche casino. […] Ho paura di quello che provo per te, ecco perché ti ho allontanato, ma non volevo farti prendere male. […]”

Mi rispose dopo cinque minuti. “Avevo paura di farti schifo e mi sono sentito esposto. Mi sono arrabbiato, sono diventato uno di quegli stronzi che odiano le donne, “fanculo le ragazze” e “fanculo alla gentilezza”. La gente è falsa, lo sai? […] Lol sono un disastro. Ci tengo a te piccola.”»

In ultimo, c’è la relativa semplicità dei passaggi con cui Grace stermina uno per uno, i membri della sua ricca e potente famiglia (!). Il proverbiale colpo di fortuna è sempre presente: in tutti gli omicidi, Grace non si trova mai alle strette. Mi domando che effetto abbia questa satira del crime, cosa volesse raccontare al lettore. Voleva ridere del genere e dei suoi cliché? O, voleva, invece, incoraggiare gli indecisi? Assicurare loro che uccidere la propria famiglia e farla franca non è poi così difficile? Mistero. Anche la vendetta non acquista alcun significato originale nella storia di Bella Mackie, ma resta la classica “lucida follia” omicida.

La scelta di voler affidare l’intero motore narrativo alla visione del mondo di Grace e la lunghezza eccessiva con cui viene trattato ogni più elementare passaggio costituiscono la pietra tombale di questo romanzo. In Come uccidere la tua famiglia non c’è mai tensione, mai una spinta ad andare avanti. Troppo rari i momenti dove la prosa di Bella Mackie, che comunque si distingue per la sua scorrevolezza e capacità di linguaggio, esalta il lettore. Anzi, spesso abusa della sua pazienza, mostrandosi dichiaratamente prolissa!

Dati i risultati delle vendite, non metto in dubbio che a qualcuno questo romanzo (e la prosa dispersiva di Bella Mackie) possano essere piaciuti. Tuttavia, sotto un profilo di pura e onesta analisi, nessun romanzo può essere appassionante, o anche solo interessante, se prevedibile nello svolgimento e carente sul piano del ritmo. Per quanto la forma del memoir giustifichi analisi corpose e una certa staticità, queste non riescono ad animare un intero romanzo, se slegate tra loro e del tutto superflue ai fini del racconto: la Mackie non è Kerouac (e nemmeno vuole esserlo).

Come ho anticipato prima, ciò che invece, in qualità di lettore, mi è capitato a un certo punto della narrazione, ha del fantozziano. Nel momento in cui, mi rendevo conto che questo romanzo non riuscisse a decollare, è capitato che alcuni miei pensieri si materializzassero su carta. Nell’ultima metà di romanzo, l’autrice ha ammesso in continuazione cose come “ho perso il filo del discorso”, “ho divagato ancora una volta”, quasi fosse in balia della sua stessa scrittura e ci ridesse sopra. Tanto poi, tocca a noi leggerlo.

“Quousque tandem abutere, Bella Mackie…?”

Pierferdinando Buttaro

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