“Come si racconta un’epidemia. Tucidide e altre storie” di Emanuele Stolfi

Prof. Emanuele Stolfi, Lei è autore del libro Come si racconta un’epidemia. Tucidide e altre storie, edito da Carocci: quale rilevanza assumono, nella letteratura classica, le narrazioni delle epidemie, reali o immaginarie, che colpirono il mondo antico?
Come si racconta un’epidemia. Tucidide e altre storie, Emanuele StolfiUn rilievo straordinario: persino genetico, verrebbe da dire (da qui l’interrogativo col quale si apre il primo capitolo: “di epidemia si nasce?”). Nel senso di dar vita – molto prima che a un’analisi propriamente medica – a inventiva poetica, interpretazione storiografica e investigazione sui fenomeni della natura. Una scena di “peste” apre sia l’Iliade (e quindi la letteratura occidentale) sia la tragedia probabilmente più nota del mondo antico, ossia l’Edipo tiranno di Sofocle. Ma anche in Tucidide ha un ruolo nevralgico il racconto dell’epidemia che investì Atene – non solo per l’importanza del fatto in sé, ma anche per la qualità del resoconto, in cui si ritrovano tutti i punti salienti del suo metodo storico –, ed essa è poi rievocata in un punto strategico del poema di Lucrezio. Accanto e dopo questi quattro autori, ai quali il libro dà lo spazio maggiore, ne ho ricordati vari altri, alle prese col nostro tema soprattutto nell’impero romano. E anche in questo caso troviamo esponenti di saperi diversi: dalla storiografia (Diodoro Siculo, Dione Cassio, Erodiano, Procopio) alla medicina (Galeno), dalla poesia (Virgilio) alla teologia cristiana (Cipriano). Colpisce l’eterogeneità delle impostazioni assunte per raccontare i rispettivi episodi (dapprima immaginari, poi quasi sempre reali), ma anche la persistenza di alcune questioni di fondo, su cui tornerò. Esse ci fanno comprendere come le epidemie fossero sia un fenomeno biomedico, ricorrente e devastante, sia occasione per cruciali quesiti posti al potere, sia un dispositivo metaforico di notevolissimo impatto, emotivo e culturale. È il senso stesso della convivenza umana – le sue regole, responsabilità, gerarchie – che, tramite l’epidemia, si fa problema e drammatico interrogativo.

Il racconto della peste di Atene da parte di Tucidide rappresenta un modello esemplare di tali narrazioni: quale resoconto ne offre lo storico ateniese?
Tucidide è certamente l’autore che più ha influito sulle narrazioni successive (a partire da Lucrezio) e che ci suona anche più familiare. Pur avendo personalmente sofferto di quel male (a cui sopravvisse in modo quasi miracoloso), egli ne offre un racconto lucido e razionale, “laico” e quasi distaccato – assai più, paradossalmente, di quanto accadrà nello stesso Lucrezio, vari secoli dopo. Il contesto, storico e narrativo, è quello della guerra del Peloponneso: e la simmetria fra “peste” e guerra assume un rilievo decisivo, sotto vari profili. A Tucidide non interessa tanto formulare ipotesi sulle cause all’origine del male o della sua diffusione – anche perché, da questo punto di vista, avrebbe dovuto chiamare in causa Pericle, che egli vuole invece tenere esente da ogni responsabilità (e qui la sua strategia espositiva è esemplare, soprattutto in ciò che omette o colloca alla periferia del racconto). L’approccio, come rispetto a ogni altro fenomeno storico, è quello di un minuzioso e disincantato “sintomatologo”. Descrive accuratamente il modo in cui il morbo si manifestò, come si propagò in città, il suo decorso più ricorrente in chi ne era colpito: il tutto al dichiarato scopo di agevolarne un pronto riconoscimento, qualora in futuro dovesse ripresentarsi – riconoscimento che era invece mancato ai suoi tempi, per penuria di esperienza e non per demeriti della medicina (altro potenziale “imputato”, nello statuto “scientifico” che di recente aveva assunto, e che egli intende invece assolvere: cosa all’epoca tutt’altro che scontata). Tutto questo fa spiccare uno stile di lavoro che contraddistingue l’intera ricerca tucididea: volta a “trovare” fatti e “operare congetture” razionalmente verificabili, conoscere tramite “indizi” e ricostruire oggettive “leggi di sviluppo”, tali da agevolare “previsioni” e gestione degli scenari che torneranno a profilarsi. Accanto a questo vi è poi uno straordinario talento, speculativo e letterario, nel dar conto dei risvolti psicologici, delle conseguenze a livello di comportamenti individuali e degenerazione dell’etica collettiva: così da illustrare in cosa si espresse quell’“immane sconvolgimento” che, ad avviso di Tucidide, la “peste” rappresentò nella vita ateniese.

In che modo Omero ha influito su tali racconti?
Omero, in genere, ha avuto sulla cultura della Grecia antica un’incidenza enorme, inimmaginabile per qualsiasi poeta moderno. Nel nostro caso occorre però operare una netta distinzione. La sua influenza su Sofocle, in particolare, è pressoché indubbia, pur se sulla “peste” della Tebe mitica ha forse inciso anche l’esperienza reale vissuta poco prima dagli ateniesi – e sebbene i due autori divergano notevolmente da più punti di vista: a cominciare dal tipo di impatto riconosciuto al fattore divino e alle capacità salvifiche attribuite, o meno, a chi è alla guida della comunità. Rispetto a Tucidide, invece, l’ascendenza omerica rimane senz’altro sullo sfondo (così come dilegua ogni profilo religioso e ogni ricostruzione non razionale dei fatti) – e anche questo è a suo modo significativo, illustrando un modo affatto nuovo, alla fine del V secolo a.C., per riflettere su tali fenomeni. Rimane comunque vero che la scena d’esordio dell’Iliade pone già molte delle questioni con cui tutti gli autori antichi si misureranno (pur se in termini via via difformi): il problema delle cause del morbo, le sue (molteplici) implicazioni col potere, la ricerca di una via d’uscita tramite il ricorso a un “interprete di segni”, lo stesso legame con la guerra (destinato, altrove, a riproporsi o almeno ad assumere la veste di similitudine).

A quali motivi di fondo sono riconducibili le interpretazioni che i vari morbi suscitarono nel mondo antico?
Direi, in estrema sintesi, che essi rinviano a ciò che nel libro chiamo “questione etica ed eziologica”, “questione politica” e “questione medica” (non stupisca che questa venga ricordata solo da ultima: del resto occorre un millennio, da Omero a Galeno, per trovare un medico impegnato scientificamente su un’epidemia, nel senso del vocabolo odierno e non di quello greco). La prima questione concerne il profilo delle cause (divine, umane, naturali) e dei comportamenti – nel duplice senso di atti che hanno dato origine al morbo o possono porvi rimedio, ma anche di contegni che vengono bruscamente modificati dal dilagare del male. La seconda attiene al rapporto – fin dall’Iliade senz’altro nevralgico, da più punti di vista – fra epidemia e potere su una comunità (sia essa il complesso degli eroi omerici, la Tebe del mito, l’Atene storica o l’impero romano). Nelle prime tre scene letterarie la “peste” si lega, pur se in maniera ovviamente alquanto diversa, ad altrettanti leaders: Agamennone, Edipo e Pericle. È dunque in sé, intrinsecamente, una questione “politica” – e quindi anche connessa alla guerra, esterna o interna –, pur se proprio nell’Atene di Tucidide non troviamo traccia di precisi e diretti interventi pubblici. Vi è poi, in tutti gli autori antichi (salvo un tardo e fugace riferimento, in Procopio), un silenzio eloquente: quello sui risvolti economici dell’epidemia. Un vuoto tanto più appariscente se comparato all’incidenza del tema entro i dibattiti odierni, ma che in realtà non sorprende affatto, come cerco di spiegare nelle ultime pagine del libro.

Quali parallelismi è possibile tracciare tra quei racconti e le vicende dell’attuale pandemia?
Ho insistito molto su questo punto, soprattutto per evitare equivoci e troppo sbrigative assimilazioni fra passato e presente. Il confronto – che non può ridursi a semplice registrazione di affinità o simmetrie, pur esistenti – riguarda innanzi tutto le narrazioni più che i fatti epidemici in sé. Porre sullo stesso piano la “peste” dell’Atene del V secolo a.C. (così come, del resto, qualsiasi fatto analogo del passato) e il Corona virus ha di per sé poco significato. Assai più interessante – anche per guardare criticamente al nostro presente – è addentrarsi nelle strategie narrative adottate dagli autori antichi, ripercorrere i quesiti che essi ponevano, ciò su cui più insistevano (il responso dell’indovino in Omero, l’inchiesta del “detective” Edipo in Sofocle, la tassonomia dei sintomi, a futura memoria in Tucidide) e ciò di cui tacevano (come il ruolo di Pericle nello stesso Tucidide, o il profilo economico, come dicevo). Ovviamente questo aiuta a rimeditare sul retroterra – culturale, storico e persino antropologico – di certe reazioni innescate dall’attuale pandemia. Ma aiuta anche, per così dire, a capirci per differentiam. Non dobbiamo mai dimenticare, infatti, l’enorme divario che ci separa dagli antichi: innanzi tutto sul piano delle risorse scientifiche, economiche e informative; ma anche a livello di mentalità (con un modo diversissimo, in particolare, di rapportarsi con la dimensione biologica dell’esistenza, e dunque con la morte), come pure di concezioni del potere pubblico e delle istituzioni, ormai su scala planetaria – da cui ci attendiamo oggi un impegno, appunto “biopolitico”, inimmaginabile in ogni contesto premoderno.

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