
La seconda prospettiva da considerare è quella delle Brigate rosse. Il maoismo è indubbiamente parte del bagaglio ideologico di riferimento di questo gruppo e nei primi documenti teorici la stessa organizzazione fa esplicito riferimento a questa impostazione sia dal punto di vista politico, sia da quello tattico-militare. Per esempio, nel documento intitolato “Risoluzione strategica n.2”, nell’esporre le funzioni e la concezione del cosiddetto Fronte logistico, ovvero un gruppo interno responsabile degli aspetti organizzativi, prevedono di passare da una logistica basata sul mimetismo e la clandestinità assoluta ad una seconda fase in cui creare una rete di appoggio «insieme al popolo», citando espressamente Mao quando affermano che “se il guerrigliero vuole stare nella metropoli come un pesce nell’acqua e vuole costruire la guerriglia per linee interne al movimento di classe, deve anche costruire sue strutture di sopravvivenza, di lavoro e di combattimento secondo questa direttrice”.
Tuttavia, diversamente da altre formazioni, il rapporto delle Brigate rosse con il contesto non si è ispirato linearmente alla massima del condottiero cinese. Nella realtà dei fatti e nel corso della sua storia hanno prevalso altre esigenze e altre influenze, prima tra tutte quella dei gruppi armati metropolitani dell’America latina, in particolare i Tupamaros uruguaiani, che prescrivevano il mimetismo all’interno delle aree urbane. Se non sempre e non in tutti i contesti le Brigate rosse si sono attenute al rigido protocollo dell’anonimato e della totale clandestinità, ancor più raramente hanno agito come il famoso pesce nell’acqua, prevalendo nella loro storia l’isolamento rispetto ai contesti in cui vivevano, non solo dal punto di vista tattico, ma anche politico.
I terroristi hanno effettivamente creato una rete di sostegno intorno a sé o prevaleva, invece, la ricerca dell’isolamento e del mimetismo?
Non è semplice rispondere a questa domanda perché le Brigate rosse paiono muoversi, da questo punto d vista, in due modi opposti e contraddittori che rispecchiano i differenti piani dell’azione brigatista: il tentativo di creare un rapporto con il movimento di massa risponde a un’istanza politica, mentre l’esigenza della clandestinità è dettata in primo luogo dalla natura militare e criminale del gruppo. Le Brigate rosse penetrano nelle fabbriche, nelle università, nei quartieri popolari, nelle carceri e nei luoghi di lavoro con l’intento di reclutare nuovi militanti e di coinvolgere la classe operaia e gli altri ipotetici soggetti rivoluzionari nel proprio progetto e, al contempo, si muovono furtive e circospette, mimetizzate nell’ambiente circostante, rendendosi invisibili per poter meglio attaccare e difendersi. E tuttavia questo mimetismo e questo isolamento non riguardano solo l’aspetto tattico-militare, ma anche quello politico. Come abbiamo visto, i gruppi armati di estrema sinistra nell’Europa degli anni Settanta subiscono, infatti, la forte influenza delle recenti o coeve esperienze sudamericane che suggeriscono una via alternativa rispetto a quella leninista e a quella maoista, non solo riguardo alla tempistica del processo rivoluzionario e delle sue condizioni, del ruolo del partito e del rapporto tra aree urbane e rurali, ma anche della dinamica tra masse e avanguardie, teorizzando la possibilità per l’avanguardia combattente di sostituire le condizioni per la rivoluzione e la disponibilità delle masse che verranno coinvolte in un secondo momento grazie all’azione pedagogica della propaganda armata. Sebbene, l’area di consenso intorno ai gruppi armati di sinistra non sia irrilevante, con la scelta militarista operata tra il 1974 e il 1976 la seconda modalità prevarrà sulla prima, cambiando il rapporto delle Br con l’ambiente circostante e imprimendogli un carattere progressivamente, seppure con ripensamenti e segnali sporadici in senso contrario, sempre più estraneo e persino contrapposto.
Che rapporto esisteva tra i gruppi terroristi e le altre organizzazioni della sinistra extraparlamentare?
Questo è uno dei nodi più difficili da affrontare nell’ambito della storia della lotta armata e della violenza politica nell’Italia degli anni Settanta per due ragioni: la prima è la necessità di confrontarsi con un dibattito estremamente polarizzato; la seconda è l’impossibilità di leggere questo rapporto in maniera univoca poiché si tratta una relazione che presenta caratteri molto diversi, addirittura opposti a seconda delle fasi, dei contesti, dei soggetti coinvolti. Per quanto riguarda il primo aspetto, notiamo come la storiografia abbia faticato a confrontarsi con un tema che è oggetto di un discorso pubblico sovente segnato da animosità, sentimentalismo, furore ideologico cui non raramente si accompagna una nebulosità impressionistica per quanto riguarda le categorie, i termini della questione, la periodizzazione, i confini tra ambiti diversi, tra responsabilità penale e politica, tra violenza politica, illegalità e terrorismo, tra appartenenze ideologiche e connivenze politiche e collaborazioni operative. Per quanto riguarda il secondo aspetto, va evidenziato che le differenze tra i diversi gruppi extraparlamentare, le varie formazioni armate, i successivi momenti della parabola della violenza politica, i differenti contesti in cui si svolgono le vicende rendono fuorviante, se non impossibile, un discorso unitario. In generale possiamo dire che la sinistra extraparlamentare costituisca l’area più vicina alla lotta armata, dal punto di vista delle teorizzazioni politiche e degli assunti ideologici, in particolare per il porsi entrambi come orizzonte il rovesciamento dell’ordinamento parlamentare e capitalista in una prospettiva rivoluzionaria, ma esistono differenze molto marcate all’interno di questa definizione: per esempio, il rapporto con la lotta armata di Potere operaio non è uguale a quello di Avanguardia operaia, ma neppure di Lotta continua. Anche all’interno dell’area denominata Autonomia operaia, sicuramente la più contigua ai gruppi armati, esistono profonde differenze: settarismo, prospettiva rivoluzionaria, rifiuto della democrazia rappresentativa e attenzione prioritaria alla questione dell’organizzazione sono i tratti unificanti di una galassia di sigle molto differenziata al suo interno. Inoltre, le varie formazioni armate non concepiscono allo stesso modo il rapporto con la sinistra extraparlamentare, ma, viceversa, esistono marcate differenze, da questo punto di vista, tra Brigate rosse, Prima linea, Nap e così via. Stringendo il fuoco sul gruppo terrorista maggiore, ovvero le Brigate rosse, rileviamo ancora l’impossibilità di un discorso unitario che non tenga conto di fasi e contesti. Se è vero che le Brigate rosse appaiono in generale disinteressate al rapporto con altre organizzazioni e in generale con il movimento di massa, chiuse nel loro solipsismo militarista non va dimenticato che questo quadro generale subisce modificazioni anche molto significative. Dal punto di vista temporale, per esempio, al principio e alla fine della parabola brigatista all’interno dell’organizzazione sono più presenti e determinanti le correnti movimentiste che teorizzano una maggiore interazione con le lotte e le istanze del movimento. Dal punto di vista territoriale, ogni colonna delle Brigate rosse presenta caratteri peculiari anche rispetto al rapporto con il contesto e, venendo alla questione che stiamo esaminando, con la sinistra extraparlamentare; i casi di Genova e del Veneto, di cui si tratta nel libro, offrono da questo punto due esempi opposti rispettivamente di estraneità e di contiguità, sebbene la contiguità veneta si manifesti in buona misura nei termini di concorrenza per l’egemonia.
Il terrorismo può essere interpretato come la continuazione delle lotte di massa con altri mezzi? Il movimento ha nutrito il terrorismo o ne è stato suo malgrado vampirizzato?
La mobilitazione collettiva ha contribuito a creare quella stagione che viene denominata lungo Sessantotto; una stagione caratterizzata dalla realizzazione di importanti riforme e dall’approfondimento della democrazia, con l’allargamento della base della partecipazione alla costruzione della polis e l’inveramento del dettato costituzionale, restituendo piena cittadinanza a gruppi sociali che fino a quel momento erano stati in larga misura esclusi dai diritti formalmente riconosciuti in egual misura a tutti cittadini. Nonostante queste importanti conquiste, il lungo Sessantotto viene frequentemente letto e interpretato, anche da molti protagonisti dell’epoca, come una stagione cupa contrassegnata da riflusso nel privato, violenza e pulsioni nichiliste. In effetti, nella seconda metà del decennio, l’esaurimento della spinta della mobilitazione collettiva nata alla fine del decennio precedente e il mutamento dello scenario politico, in particolare la prospettiva del compromesso storico, provocano una serie di reazioni che prevalentemente assumono la forma della disaffezione alla politica, della fine della mobilitazione e del riflusso nel privato, dell’avvicinamento al mondo della controcultura nelle sue diverse declinazioni o della continuazione della militanza attraverso l’impegno civile o umanitario e, in una minoranza di casi, consistono nel passaggio a formazioni eversive, talvolta anche armate e terroriste.
Da un lato, quindi, il movimento di massa è forse vittima di un giudizio fin troppo severo che misconosce le conquiste ottenute, dall’altro lato, si è enfatizzato molto il ruolo del terrorismo e della sua repressione da parte dello stato nel determinare il logoramento e poi la dissoluzione del movimento di massa, ruolo senz’altro importante ma che costituisce una concausa di ragioni più profonde: è l’ideologismo dei gruppi a determinare la successiva radicalizzazione e impoverimento delle idee per cui si assiste all’affermarsi di involute ortodossie ideologiche, di un messianismo fanatico e di pratiche violente che spingono il movimento in un vicolo cieco e lo privano della capacità di leggere il presente e immaginare un futuro.
Chiara Dogliotti è membro del comitato scientifico e ricercatrice presso l’Istituto ligure per la storia della Resistenza e della società contemporanea