
Fin dalle superiori, gli studenti imparano a ‘contestualizzare’, come si usa dire, i filosofi e le teorie filosofiche, ma raramente apprendono ad argomentare e discutere questioni filosofiche. È questa la conseguenza dell’adozione di una prospettiva storicista, che ha le proprie radici in Hegel e nello hegelismo. È interessante notare, a questo proposito, che l’affermarsi di siffatta prospettiva non è imputabile, come talvolta si dice, a Giovanni Gentile, il quale aveva proposto con la sua riforma un insegnamento basato fondamentalmente sulla lettura e lo studio di pochi testi classici. La deriva storicista risale al riordino dell’istruzione che fu realizzato negli anni successivi alla riforma Gentile.
Naturalmente, se si prendono in considerazione le principali riviste internazionali di storia della filosofia, qui i ricercatori italiani hanno una presenza ben superiore a quella che hanno i filosofi nelle riviste di filosofia. Il punto sul quale intendo insistere è che, sebbene chi si occupa di storia della filosofia, si confronti necessariamente con temi e argomentazioni filosofiche (e ‘faccia’ inevitabilmente filosofia), ‘filosofare’ non è lo stesso che fare storia della filosofia. Vorrei però mitigare questo punto, che forse nel libro è troppo perentorio: in linea di principio non escludo la possibilità che una buona introduzione alla filosofia si basi su un’esposizione a prevalente (anche se non esclusivo) carattere storico. Quel che mi sembra non abbia senso è pensare di introdurre dei giovani alla filosofia sulla base delle narrazioni storicistiche offerte dai manuali attualmente adottati nel nostro Paese.
La filosofia può essere insegnata?
Non vedo perché non possa esserlo. Oggi si è diffusa l’idea che si può filosofare su tutto, a partire dalle vicende e le occasioni più marginali o insignificanti della vita quotidiana. La filosofia però nasce come tentativo di rispondere a interrogativi fondamentali come quelli relativi alla natura dei valori morali e delle nostre scelte, al significato e alla natura della conoscenza, a come si possano caratterizzare i ragionamenti corretti, ecc.
Per dirla in modo sbrigativo, ma penso efficace, la filosofia, a differenza delle scienze della natura non verte sulla conoscenza degli oggetti e dei fenomeni del mondo, ma sulle modalità secondo le quali noi conosciamo il mondo. Un filosofo della matematica, per esempio, non cerca di dimostrare teoremi, bensì cerca di capire la natura degli oggetti matematici, dei numeri, per esempio, oppure degli stessi teoremi; un filosofo della fisica può dedicarsi allo studio della natura delle leggi fisiche o chiedersi fino a che punto siano reali certe entità delle quali si occupano i fisici; può indagare come sia possibile refutare una determinata teoria fisica, ecc. Col passare del tempo, fin dal suo primo apparire con Platone e Aristotele, la tradizione filosofica ha messo a fuoco un nucleo di problemi e di metodi per trattarli che costituiscono i necessari punti di partenza per chiunque intenda applicarsi al lavoro filosofico. Nel caso dell’etica, per esempio, si sono ormai definite alcune posizioni fondamentali riguardo alla questione se un’azione si debba giudicare in base alle conseguenze che produce oppure in base all’intenzione di chi la compie, oppure ancora se esistano principi generali che devono essere seguiti senza eccezione, perché le nostre azioni siano definite ‘buone’ (in questo caso penso a Kant). Riguardo alla teoria della conoscenza si sono sviluppate discussioni sul rapporto tra conoscenza e credenza, se, per esempio, sia prioritaria (anche in ordine di tempo) la credenza, che diventa conoscenza con l’aggiunta di qualche caratteristica oppure se conoscere sia un’attività primitiva, che non ha bisogno di definizione, ecc. Tutti questi problemi possono essere presentati e discussi in modo sistematico, con le relative proposte di soluzione. È così che, di solito, si costruisce un manuale sistematico di filosofia.
Naturalmente, a questa concezione si contrappongono coloro che ritengono che la filosofia non si possa insegnare e che sia affine, in certo senso, alla poesia, in quanto richiede una particolare predisposizione dello spirito e particolari abilità che non si possono tramandare. Chi la pensa così ha di solito una concezione ‘oracolare’ della filosofia, tende a vedere il filosofo come una specie di santone ed è ostile all’idea che la filosofia sia una disciplina come tutte le altre. Credo però che questa sia una concezione non solo sbagliata, ma anche un poco ridicola, in quanto pone in una posizione particolare il filosofo-santone, depositario di un sapere esoterico, che solo in pochi sono in grado di apprezzare.
Quale concezione della filosofia emerge dagli ordinamenti ministeriali?
Dagli ordinamenti ministeriali emerge un’immagine composita. Da un lato si ha un’immagine abbastanza stereotipata, fondata sull’esaltazione delle scienze umane, tipica del nostro Paese. La convinzione portante su cui si regge questa immagine è che la filosofia, unica tra le varie discipline, sia la depositaria di un non meglio precisato ‘senso critico.’ Si tratta di una visione retorica ed esagerata della filosofia, che non trova riscontro nella realtà: un matematico o un fisico non si vede perché debbano avere minore capacità critica di un filosofo. L’altra immagine è più sobria, considera la filosofia alla stregua di una qualsiasi altra disciplina e, seppur confusamente, cerca di adeguare l’insegnamento della filosofia a quello che vige in altri paesi europei. Le ultime versioni degli ordinamenti (2019-20), per esempio, mostrano di essere sensibili nei confronti dell’esigenza di attuare un insegnamento di logica (già presente nelle proposte avanzate dalla cosiddetta ‘Commissione Brocca’). Un ulteriore problema con gli ordinamenti ministeriali è che sono scritti male, verbosi e inutilmente dettagliati, talvolta afflitti da sintassi incerta e perfino da sgrammaticature.
Attualmente, al docente di filosofia viene riconosciuta ampia libertà nell’organizzazione dei corsi e sicuramente, se volesse, potrebbe, di propria iniziativa insegnare la disciplina seguendo un impianto sistematico. Non avrebbe tuttavia alcuna garanzia di non sottrarsi a eventuali sanzioni per non essere stato fedele alle direttive ministeriali e non ‘avere attuato il programma’.
Quali considerazione è possibile fare sui manuali di filosofia pubblicati nel nostro Paese?
Da noi l’insegnamento della filosofia nelle superiori avviene su manuali di storia della disciplina. Il nostro è l’unico paese europeo a non ricorrere a un insegnamento di tipo sistematico. Nel tempo, a un impianto vecchio di oltre cinquant’anni, vale a dire l’elenco dei filosofi che comincia con Talete e arriva (quasi) a oggi, si sono saldati brani di classici (perlopiù brevi ritagli che necessitano di introduzione e di contestualizzazione per essere compresi), spiegazioni e commenti ai brani, sunti sia dei brani sia della parte descrittiva del pensiero dei vari autori, diagrammi che richiamano le parole chiave della dottrina, mappe concettuali che stabiliscono nessi tra i vari autori e tra le parti interne al pensiero di un medesimo autore, riferimenti a film, sezioni dedicate al cosiddetto debate (gli studenti dibattono su un tema che si suppone abbia implicazioni filosofiche), suggerimenti per realizzare la cosiddetta ‘classe rovesciata’ (sono gli studenti sotto la guida del docente a far lezione su uno specifico argomento), ecc. Il mio manuale di cinquant’anni fa era di circa duecento pagine e non conteneva né mappe né brani di testi classici, né riferimenti a spettacoli cinematografici o teatrali, ma era facilmente consultabile e agevole da maneggiare. Oggi un solo volume per un anno di corso può superare le ottocento pagine ed è pressoché inconsultabile. Allo studente, anche se guidato da un bravo insegnante non rimane che affidarsi agli schemi riassuntivi e alle consuete ovvietà che si tramandano da generazione in generazione: Leibniz è quello delle monadi senza porte né finestre, Cartesio quello dell’io penso, Hegel quello di tesi, antitesi, sintesi… Alla fine del corso di studi, lo studente impara molte notizie, ha molte informazioni ma quasi sempre non ha imparato ad argomentare, non sa affrontare un problema filosofico né ha una mappa generale delle posizioni filosofiche che si possono assumere su un tema specifico, dall’aborto all’eutanasia, a cosa significa conoscere, ecc. I manuali, insomma, addestrano alla storia della filosofia ma non a filosofare.
Come potrebbe configurarsi, dunque, a Suo avviso, un insegnamento della filosofia alternativo a quello attuale?
Dovrebbe avere carattere sistematico: presentare, cioè, i principali temi che da secoli sono discussi in filosofia, come, appunto, cosa significa conoscere, cosa distingue un’azione buona da una non buona, qual è il rapporto tra uguaglianza e giustizia, qual è il rapporto tra mente e corpo, qual è il rapporto tra giustificazione e verità, ecc. illustrando al tempo stesso le principali posizioni filosofiche che sono state assunte per tentare di risolverli. Naturalmente non tutti questi temi filosofici potrebbero essere presentati e discussi, basterebbero alcuni di essi, concentrandosi soprattutto sulle argomentazioni che sono state avanzate per affrontarli. È anche ovvio che sovente diventerebbe fondamentale il riferimento ai classici – penso per esempio a Cartesio (e magari a Spinoza) riguardo al problema del rapporto mente-corpo. Ma quello che bisogna aver chiaro è che far ricorso ai classici non è lo stesso che ricorrere alla storia della filosofia. Ottimi manuali sistematici (non storie della filosofia, cioè) sono presenti, per esempio, nel Regno Unito.
Mi rendo conto, tuttavia, che passare a un insegnamento sistematico della disciplina comporterebbe un notevole disagio per gran parte dei docenti, sebbene come testimoniano alcuni manuali, da tempo ormai proprio i docenti si siano fatti portatori della richiesta di un insegnamento sistematico. Ed è evidente che un mutamento così drastico dovrebbe coinvolgere anche l’Università, dove la grande maggioranza degli insegnamenti di filosofia sono di tipo storico. Nel frattempo, in attesa che il cambiamento diventasse operante nella forma più radicale, si potrebbero pensare situazioni intermedie, come un insegnamento fondato sulla lettura di pochi classici, che permetta lo sviluppo di riflessioni filosofiche.
Di solito si usa mettere in luce lo scarso interesse degli studenti attuali per la lettura e, in generale, per acquisire conoscenze. Io penso però che siffatto interesse sarebbe risvegliato da un insegnamento che presenti direttamente i problemi filosofici e cerchi di fornire alcuni strumenti di base per affrontarli. Credo anche che un insegnamento del genere contribuirebbe a fare degli studenti persone con una vita migliore.
Massimo Mugnai è professore emerito della Scuola Normale Superiore di Pisa, dove ha insegnato Filosofia e Storia della logica