“Come nascono le storie. Pedagogia narrativa per i più piccoli” di Anita Gramigna

Prof.ssa Anita Gramigna, Lei è autrice del libro Come nascono le storie. Pedagogia narrativa per i più piccoli edito da Unicopli: quale importanza rivestono, per lo sviluppo cognitivo dei bambini, e quale funzione svolgono le storie?
Come nascono le storie. Pedagogia narrativa per i più piccoli, Anita GramignaL’importanza è enorme perché la narrazione è un modo naturale di costruire e organizzare la conoscenza, come già molti importanti studiosi ci hanno insegnato, uno fra tutti Bruner. Infatti “giocare” con le storie significa stimolare la mente bambina in un modo che mi piacerebbe definire “naturale”, nel senso che è consono alla natura del pensiero, e di conseguenza, lo esalta nel suo implicito metaformativo. Per meta-formativo intendo la tensione apprenditiva implicita nel pensare. Una tensione che la frequentazione con le storie e soprattutto con le gioco-storie, esalta, potenzia, rafforza, dal punto di vista cognitivo, emotivo e linguistico. Che poi sono un tutt’uno, noi li separiamo perché abbiamo questa mania che chiamiamo analisi, ma sono un medesimo fenomeno, anzi, processo: la cognizione.

Questo significa che, con le storie, si pongono e potenziano le basi cognitive della mente. In una certa misura, possiamo affermare che si tracciano dei sentieri “cognitivi” che rappresentano una strada più comoda e veloce per imparare. Queste “autostrade” della conoscenza favoriranno l’organizzazione di un campo cognitivo dove sarà più facile stabilire relazioni – cioè vie di comunicazione della conoscenza – fra esperienze, immagini, sensazioni, emozioni, sentimenti, dati, simboli, linguaggi, ecc..

Ho parlato di “autostrade”, una metafora un po’ banale che allude al movimento e alla relazione, perché le strade uniscono i luoghi, le città, i paesaggi, attraverso il movimento di chi le percorre. “Relazione” e “dinamismo” sono fattori costitutivi dell’intelligenza, come lo sono della mente e del cervello.

Ecco, la narrazione, soprattutto se è “giocata” insieme al bambino che vi prende parte attiva, pone le basi per costruire magnifiche autostrade, ampie, sicure, veloci. Quei primi sentieri che citavo all’inizio si aprono così alla meravigliosa possibilità di esplorare il mondo, di costruire scenari di senso, orizzonti esistenziali. È questa la conoscenza che alimenta l’intelligenza.

Come nascono le storie fra bambini di uno-due anni e adulti?
Nella mia esperienza di gioco-narrazione con i bambini di questa età, mi sono resa conto che i piccoli “apprendono” con un approccio ludico, con un sentimento, appunto, di gioco. Cosa significa? Significa che mentalizzano la loro esperienza con una logica che ha poco a che vedere con le regole di quella che noi conosciamo come logica formale: la consequenzialità, il principio di non contraddizione, di causalità, ecc.. Ha poco a che vedere con la nostra razionalità, per dirla in parole povere.

La logica con cui i bambini organizzano la loro esperienza del mondo, la mentalizzano, la tras-formano, la immaginano e la memorizzano, ai nostri occhi, appare “surreale”. E non mi riferisco solo all’animismo, sul quale già autorevoli studiosi a partire da Piaget hanno fatto studi importanti, mi riferisco ad un mondo aurorale quasi-linguistico in cui la realtà si annuncia alla mente bambina in una veste che potremo definire “onirica”. Foucault, in un suo bellissimo saggio introduttivo di epistemologia del sogno, parla di “deraison”, ovvero di una ragione che ancora non è organizzata né pienamente dominata dal logos, cioè da quel pensiero che si esprime con il linguaggio.

La mente bambina assomiglia a questo cosmos onirico perché lì il pensiero-linguaggio, così come noi lo concepiamo, è ai suoi primi passi. Nella mente bambina, lo spazio-tempo non ancora pienamente linguistico è un ambiente meraviglioso, vorrei dire magico, dal punto di vista educativo. Perché? Ma, per la sua trascendenza nei confronti del contingente!

La realtà contingente ci appare governata da norme e principi secondo una logica che, per semplicità, abbiamo definito formale. Ebbene, nel mondo del non ancora-quasi-linguaggio si può sperimentare la realtà in tutti i sensi, perfino nel non-senso. Qui, la narrazione può interpretare l’esperienza secondo una grammatica onirica e con intenzionalità ludica – tipica di questa fase evolutiva – che diviene terreno propizio per formare un immaginario ricchissimo, aperto a tutte le suggestioni e per nulla refrattario al logos che sta giungendo a piccoli passi nelle forme consuete del linguaggio adulto. È in questo immaginario che affonderanno le radici della motivazione ad apprendere, ed è anche qui che il nostro piccolo esploratore troverà materiali vecchi e nuovi per fare conoscenza del mondo. Come? con un po’ di bricolage. No, non sono del tutto impazzita. È così che funziona la conoscenza, ce lo ha spiegato molto bene il premio Nobel Francois Jacob. Così funziona anche la ricerca scientifica, non me ne vogliano i miei colleghi professoroni.

Insomma in questo spazio del sogno che supera la realtà, accade veramente di tutto: pesci che anelano a volare, colibrì che gironzolano fra i miei pensieri inquieti, parole che si posano sulle cose della vita in forma di farfalla.

Non è fantastico? Certo lo è. Ma lo è non solo per la sensazione di infinito che il surreale bambino regala ai nostri pensieri stanchi, lo è perché il surreale stuzzica nel nostro animo il folletto irriverente del gioco. E qui i casi sono due: o voltiamo gli occhi dall’altra parte, oppure ci facciamo prendere per mano dal folletto. Ed è così che nascono le storie fra bambini di uno-due anni e adulti.

In che modo gli adulti possono affinare la propria competenza narrativa?
Credo che dobbiamo reimparare la libertà e l’umiltà del ludico. Il folletto di poco fa, insomma, ci può insegnare molto, naturalmente con la mediazione dei bambini.

Dicevo prima che, di fronte al folletto irriverente, possiamo voltare lo sguardo e lo possiamo fare per diverse buone ragioni:

  1. perché non abbiamo tempo da perdere (devo correggere gli elaborati degli esami scritti, preparare le lezioni, stirare una montagna di biancheria);
  2. perché non siamo mica matti (devo risolvere in modo intelligente i quesiti stupidi posti dalla burocrazia accademica per certificare la qualità della mia ricerca e della mia didattica);
  3. perché chissà cosa penseranno i miei colleghi (devo dimostrare che sono una persona seria, affidabile, razionale);
  4. perché non ha senso (non ha il senso che sono solita attribuire alle cose).

Oppure, ed è la mia risposta alla Sua domanda, possiamo farci prendere per mano dal folletto e lo possiamo fare per diverse buone ragioni:

  1. Perché il tempo nel gioco non è tempo perso (mi diverto, mi sento almeno temporaneamente libera, imparo ad esplorare la realtà nel suo versante “trascendente”, insomma scopro che in giro c’è molto di più di quello che pensavo). Imparo un sacco di cose.
  2. Perché seminare, concimare e irrigare quel campo che abbiamo chiamato cognitivo forse – questa è la mia tesi – potrà aiutare la nuova generazione ad essere più critica, più creativa, meno egocentrica. (In una parola: a diventare più intelligente di noi). Questa, bene o male, è la mia ricerca.
  3. Perché mi riapproprio, temporaneamente sia chiaro, della libertà dal logos (al diavolo la burocrazia accademica!).
  4. Perché imparo che esiste un modo differente di attribuire senso all’esperienza (sono una persona diversamente seria, affidabile, razionale).

La quotidianità ci offre mille pretesti per far nascere le storie. Il folletto irrompe nel nostro tempo, irriverente, dicevo, quando meno ce l’aspettiamo: mentre facciamo la prima colazione, all’asilo, in giardino, quando prepariamo il bagnetto, prima di dormire. E poi, ancora di più, quando non sappiamo cosa fare. È qui il valore tutto pedagogico dello straordinario.

In breve, dobbiamo apprendere a giocare con un pensiero che si apre agli spazi del surreale. In questo modo possiamo fare del paradosso un espediente didattico di sicuro interesse.

Poi, credo che dovremmo allenarci al silenzio che è un indispensabile alleato dell’ascolto.

Infine, ma non per ultimo e parlo soprattutto di noi accademici – e questo è davvero importante – dobbiamo imparare ad essere umili. Solo così, giù dalla cattedra, bambini e folletti potranno insegnarci qualcosa. Diversamente, siamo condannati all’ignoranza bruta di chi crede di sapere.

Attraverso quali processi di costruzione di significato i bambini designano e interpretano il mondo?
Dicevo prima che i piccoli fanno esperienza del mondo, cioè, iniziano a costruirne la conoscenza, con sentimento ludico. È questo il loro approccio; pertanto le immagini che elaborano seguono altre logiche. E tuttavia, poco a poco e a seconda del contesto culturale che abitano, i bambini strutturano, ma sempre in modo narrativo, degli schemi apprenditivi della razionalità. Gli schemi apprenditivi sono dei modelli comportamentali attraverso i quali i bambini organizzano i contenuti e i processi della conoscenza e così facendo decifrano il reale, ma, nello stesso tempo, lo “agiscono”, lo interpretano. Ripeto si stratta di schemi e comportamenti che hanno forma narrativa e che fungono da “lenti” con le quali i bambini interpretano la realtà. Man mano che il linguaggio si complessifica, schemi e comportamenti diventano strategici, cioè si specializzano per risolvere i problemi. Con quali mezzi? Prendendo immagini, contenuti, metodi d’azione non solo dall’esperienza ma, soprattutto, dal loro immaginario. Come? Lo dicevo prima: facendo del bricolage, cioè utilizzando vecchi materiali in modo nuovo, trasformando certe immagini un po’ consumate, incollandovi sopra un ricordo, tagliandone un elemento, cambiandone la destinazione d’uso.

Per conoscere la realtà bisogna saperla immaginare. Per questo le gioco-storie sono importanti, perché alimentano l’immaginazione dei bambini e credo che potrebbero alimentare efficacemente anche quella degli scienziati, degli studiosi, degli accademici di ogni latitudine, i quali, comunque, sono stati bambini. Ma torniamo ai nostri piccoli esploratori di mondi.

Tanto più i comportamenti cognitivi sono strategici quanto più sono relazionali, cioè in grado di trasformare i sentieri in autostrade, di tracciare nuovi percorsi e individuare nuovi approdi. Effettivamente i nostri bricoleurs imparano a collegare immagini, simboli, emozioni, estetiche, codici, contenuti. Più ne hanno, più relazioni stabiliscono e più si dissociano dall’imperio di un unico punto di vista e più diventano intelligenti.

Così funzionano le autostrade dell’intelligenza. Si tratta naturalmente di una intelligenza che apprende perché nessuno nasce genio e perché l’intelligenza, appunto, si può imparare e si può imparare a qualsiasi età. Ma sarebbe meglio cominciare da piccoli.

E poi, attenzione, io parlo di un’intelligenza “sensibile” che non misconosce l’apporto cognitivo dei sentimenti, perché, per dirla con Damasio, il sentimento è la mentalizzazione dell’emozione e poi perché, come scrivevo nell’introduzione, questo libro nasce da una storia d’amore.

Anita Gramigna è direttrice del Laboratorio di Epistemologia presso l’Università di Ferrara, dove insegna Pedagogia e Metodologia della ricerca. Nel 2012 è stata nominata ambasciatrice europea della cultura scolastica dal Centro Europeo Internazionale (CEINCE). Nel 2015 ha ricevuto il premio SIPED. Svolge importanti incarichi scientifici e didattici presso prestigiose università straniere, dalle quali ha ricevuto dodici nomine a Visiting Professor; è professoressa onoraria a Salamanca e in Guatemala.

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