
Più interessante è invece la domanda: Inside Out (e dunque la teoria delle emozioni di base) spiega davvero bene le nostre emozioni? Per questo, ovviamente, non c’è una risposta semplice.
Come si è sviluppata la storia scientifica delle emozioni?
Non abbiamo avuto la presunzione di voler raccontare una storia esaustiva delle emozioni: per farlo non sarebbero bastate mille pagine e dieci anni di ricerca! (Per non parlare di quella che abbiamo definito la sua “preistoria”: già prima della nascita della psicologia scientifica i filosofi si sono occupati di emozioni per millenni). Più modestamente, abbiamo interrogato la storia delle emozioni per constatare come alcune tesi anticipate ai suoi albori da alcuni “padri fondatori” come Charles Darwin, William James, John Dewey e George H. Mead, uscite per decenni dai radar degli scienziati, oggi sembrano riaffiorano come un fiume carsico nell’alveo dell’Embodied Cognition, alimentate dai risultati della ricerca psicologica e neuroscientifica.
Cosa afferma la teoria delle emozioni di base?
Parlando di quella più conosciuta, cioè quella difesa da Paul Ekman, sostanzialmente che ogni emozione è una sorta di “programma” innato, comune a tutti gli esseri umani (e presente in modo simile in altri primati e mammiferi) perché ereditato dall’evoluzione per affrontare in modo efficace determinate situazioni che sono state molto importanti nella storia evolutiva della nostra specie – e prima ancora, di vari altri mammiferi. Per esempio, la paura sarebbe innescata da quelle situazioni che un organismo percepisce come potenzialmente dannose per la sua sopravvivenza, e ogni qual volta che una di queste si verifica (o che l’organismo pensa che si verifichi: le emozioni possono per così dire “ingannare!”), nell’organismo si verificherebbero una serie di reazioni fisiologiche, tra cui certi movimenti facciali e corporei, supportati da una serie regolare di attivazioni neurali, e magari persino certi specifici tipi di pensieri e sensazioni. Queste reazioni sarebbero peraltro molto rapide e relativamente istintive, poco o per niente mediate dalla nostra cognizione cosciente (benché modificabili con l’esperienza).
Ekman arrivò a concedere lo statuto di emozioni di base a sei stati emotivi, studiando le espressioni facciali in vari popoli del mondo: la paura, la rabbia, la gioia, la tristezza, il disgusto (appunto, i personaggi di Inside Out) più la sorpresa. Ma i suoi epigoni, come il succitato Dacher Keltner, credono che prendendo in esame altre caratteristiche oltre alla faccia, come ad esempio il corpo o la voce, molte altre emozioni possano essere aggiunte all’inventario.
Negli ultimi anni, uno dei metodi più utilizzati per testare la teoria delle emozioni è stato quello delle neuroimmagini. L’idea di fondo era che se davvero le emozioni di base sono un patrimonio comune a tutta la specie umana, allora l’attività cerebrale corrispondente a un’emozione di base (spesso ottenuta in modo indiretto, e cioè attraverso il riconoscimento piuttosto che l’evocazione di una data emozione) dovrebbe essere grossomodo la medesima indipendentemente dai soggetti. Il che, a giudicare dalla letteratura neuroscientifica, sembrerebbe tutto sommato vero. Ne consegue, dunque, che esiste davvero qualcosa come le famigerate emozioni di base? Più o meno: secondo alcuni scienziati che avversano la teoria delle emozioni di base, i dati potrebbero essere infatti letti da tutt’altra prospettiva. Lo scontro feroce che ne consegue è uno dei temi caldi del libro.
Cosa hanno rivelato gli studi clinici sulle emozioni?
Se leggiamo le biografie dei grandi scienziati della mente del passato, come David Ferrier o Wilfred Penfield, balza all’occhio come scienza e pratica clinica fossero un tempo profondamente intrecciate. Oggi purtroppo neuroscienziati e clinici sembrano spesso vivere in mondi paralleli. È un vero peccato perché molti clinici, in particolare neurologi e neurochirurghi, siedono su una miniera d’oro di conoscenze fondamentali sul cervello, che aspettano solo di essere messe in ordine e integrate alle conoscenze dei neuroscienziati. Cosa che eviterebbe anche agli scienziati qualche cantonata.
Da diversi anni, uno di noi due (F.C) collabora con il Centro Claudio Munari di Chirurgia dell’Epilessia dell’Ospedale Niguarda di Milano, uno dei centri leader a livello mondiale, un fiore all’occhiello della medicina italiana. Una delle loro specialità è la cura dell’epilessia farmacoresistente, e durante la fase prechirurgica utilizzano la stimolazione elettrica come metodo di mappaggio funzionale. Analizzando retrospettivamente i casi di stimolazione elettrica eseguiti negli anni passati, è stato possibile scoprire come la stimolazione elettrica di centri corticali come la corteccia cingolata anteriore o l’insula può indurre nei pazienti espressioni emozionali, come (rispettivamente) il riso o il disgusto. Si tratta di dati preziosi non solo per la clinica ma anche per la ricerca, che non possono essere ottenuti con nessuna tecnica in mano oggi ai neuroscienziati, per i quali è impossibile indurre genuine espressioni emozionali durante i classici test neuroscientifici. Pensate al riso: riuscireste a fare sganasciare di risate un soggetto volontario chiuso in uno scanner di risonanza magnetica? Improbabile perché, come ha detto sarcasticamente lo psicologo americano Robert Provine, “il riso è quel comportamento sociale che scompare negli individui isolati e messi sotto osservazione nei laboratori scientifici”. Inoltre, qualora foste in grado di farlo, il vostro volontario muoverebbe la testa, vocalizzerebbe, e farebbe tutte quelle contorsioni che sono tipiche di una vera risata. E il tracciato che voi state registrando sarebbe da buttare, perché durante uno studio neuroscientifico non ci si deve muovere per evitare artefatti da movimento.
Risultato: le basi neurali di queste espressioni sono studiate dai neuroscienziati in modo indiretto, ad esempio studiando le attivazioni cerebrali durante la percezione di espressioni prodotte da altri individui (anziché la produzione in prima persona) o chiedendo ai soggetti di mimare volontariamente l’espressione (benché sia noto che le basi neurali del controllo volontario delle espressioni divergano da quelle del controllo involontario). E questo ha portato gli scienziati a prendere, secondo noi, qualche cantonata – di cui parliamo nel libro. In questo senso, l’apporto dei dati di stimolazione elettrica su pazienti è fondamentale per mettere qualche “punto sulle i” nella ricerca sulle emozioni.
Un altro apporto fondamentale dal mondo della clinica riguarda le lesioni cerebrali. Esistono casi clinici in cui lesioni circoscritte a specifiche aree del cervello, come l’insula o l’amigdala, hanno comportato la perdita selettiva di esperienze emozionali. Sono riportati casi di lesioni dell’insula che hanno reso i pazienti incapaci di provare disgusto, o di riconoscerlo in altri, ma risparmiando tutte le altre emozioni. E pazienti che a seguito della lesione dell’amigdala hanno perso la paura e si sono fatti impavidi, intraprendendo sport rischiosissimi – tra i quali la caccia al cervo in Siberia mantenendosi abbracciati a una fune calata da un elicottero. Come potete immaginare, difficile testare cose del genere in un laboratorio neuroscientifico.
Come si caratterizzano l’approccio componenziale e la teoria dei sistemi dinamici?
Si tratta di teorie all’ultimo grido tra neuroscienziati, psicologi e filosofi della mente vicini all’Embodied Cognition. Entrambe queste teorie sostengono che le emozioni non siano fenomeni stabili, ma complessi processi dinamici che emergono dalla sincronizzazione di molteplici elementi quali l’attività cognitiva, le tendenze all’azione, l’espressione motoria, gli stati soggettivi e le attivazioni fisiologiche di un individuo. Queste teorie sostengono che vi sia una grande variabilità tra episodi emozionali (è come minimo improbabile trovarsi più volte nella stessa combinazione di ingredienti), e che l’idea classica per cui provare una certa emozione dipenda dall’attivazione di un unico centro cerebrale sia poco più che una favola. Tuttavia, a differenza di approcci ancor più radicali, come quello costruzionista proposto da Lisa Feldman Barrett, tanto l’approccio componenziale quanto la teoria dei sistemi dinamici ammettono che i vari concetti di emozione non abbiano esaurito la sua funzione in neuroscienze, e non vadano dunque abbandonati.
In che modo l’emozione costituisce una tendenza all’azione?
Un’idea che percorre il libro è quella per cui molte emozioni sono particolari tipi di azioni, o di tendenze all’azione, volte a modulare la relazione tra noi e l’ambiente naturale e sociale.
Una conseguenza di questa idea è che l’esperienza emozionale – cioè il provare una certa emozione – sia esattamente quel che si prova a preparare o a eseguire queste azioni; detto in altri termini, che l’emozione sia la presa di consapevolezza di avere una certa tendenza all’azione. Pensiamo alla paura che potremmo provare nell’incontrare un orso mentre giriamo per i boschi. La paura di un orso non è qualcosa che succede “prima” di innescare le azioni di fuga, quanto piuttosto la stessa pianificazione e produzione di quelle azioni. Tant’è che laddove non ci fosse alcuna tendenza all’azione (come allo zoo, dove di fronte all’orso non pianifichiamo la fuga), non ci sarebbe paura. La stessa logica vale per molte altre emozioni. Questa idea oggi può essere supportata da alcuni dati neuroscientifici e psicologici, ed è in linea con gli assunti dell’Embodied Cognition, ma non è nuova. È stata formulata alla fine del XIX secolo negli Stati Uniti dai filosofi e psicologi pragmatisti William James, John Dewey e George H. Mead e successivamente ripresa, negli anni ‘80, dallo psicologo delle emozioni Nico Frijda. Noi gli diamo una spolverata e la rimettiamo in circolazione.
Come si sviluppa la dimensione sociale e situata delle emozioni?
Abbiamo appena detto che alcune emozioni sono riconducibili a tipi di azioni o a tendenze all’azione. Ebbene, alcune di queste azioni sono azioni sociali, cioè azioni la cui funzione è quella di ricalibrare la relazione che abbiamo con gli altri individui. Le espressioni emozionali, infatti, non sono state selezionate dall’evoluzione per esprimere i nostri sentimenti agli altri, ma per coordinarci e comunicare con i conspecifici. Già negli anni ’60 erano stati condotti esperimenti che mostravano che l’espressione di sorriso o di paura vengono impiegate dalle madri come segnali per comunicare ai figli come comportarsi. Se un neonato si trova su una superficie di plexiglas da attraversare, e non sa se la superficie reggerà il suo peso, guarderà la madre: se la madre sorride, il bambino interpreta il sorriso come un “procedi pure” (e non come un “sono contenta”), mentre se la madre fa un’espressione spaventata, il bambino la interpreta come un “non farlo” (e non come un “sono spaventata”). Le emozioni sono alla base di un linguaggio prima del linguaggio, un codice primitivo per regolare le relazioni sociali. Un linguaggio, tra l’altro, in buona parte parlato nella lingua dei neuroni mirror. Ma non spoileriamo troppo.