“Come e cosa pensano gli algoritmi di marketing” di Roberto Brognara

Prof. Roberto Brognara, Lei è autore del libro Come e cosa pensano gli algoritmi di marketing, edito da FrancoAngeli: quale ruolo svolge l’automazione nel marketing?
Come e cosa pensano gli algoritmi di marketing, Roberto BrognaraPreferisco parlare di “marketing programmatico”, che dell’automazione è lo stadio più avanzato, caratterizzato dagli algoritmi e l’intelligenza artificiale piuttosto che semplici software applicativi. Attualmente, è la principale forza di evoluzione e cambiamento nelle attività e nelle professionalità riconducibili al marketing. E lo è a livello globale, non solo nei mercati più avanzati in termini di cultura (di marketing) e di sistemi di business.

D’altra parte, lo sviluppo dell’automazione è strettamente legato ai dati, alla loro quantità e alla possibilità di usarli per svolgere sequenze di operazioni che portano un’idea, una campagna, un’azione dalla mente dei marketer all’attenzione dei consumatori. E i dati, oggigiorno, non fanno che aumentare, sia nella generazione che nella raccolta che nella capacità tecnologica di elaborarli.

Più concretamente, sono in crescita le risorse economiche e intellettuali che il marketing programmatico assorbe, a testimonianza di un fenomeno veramente trainante.

Seppur di difficile comprensione metodologica, le cifre che circolano indicano che per il 2023 la spesa globale in marketing automation sarà di 25 miliardi di dollari. Mentre nella thought leadership già precede altri approcci come quelli basati sulla creatività, sulla psicologia, più sociologici e in generale il “back to humans”.

Sta risultando irresistibile la promessa di riduzione dei costi facilmente dimostrabile e ottenibile con l’automazione e, di converso, non attecchiscono i temi relativi alla sua efficacia, anche nel breve, ma soprattutto nel medio-lungo termine.

Quindi, senza dubbio un ruolo di guida, economica, culturale e anche organizzativa.

Come si sono evoluti gli algoritmi di marketing?
Se parliamo dell’ultima generazione di marketing guidato dai dati e dal loro uso automatizzato e finalizzato, espresso in tutte le sue novità e potenzialità da aziende quali Google, Facebook o Netflix nel primo decennio del nuovo millennio, l’evoluzione si è mossa su due binari.

Uno focalizzato sui processi aziendali di gestione delle attività di marketing e l’altro, focalizzato su consumo e consumatori, ispirato da grandi temi strategici del marketing quali la personalizzazione e la segmentazione.

Nel primo ambito, quello della gestione dei processi, la digitalizzazione pervasiva ha consentito di progettare attività automatizzate dall’inizio al delivery. End-to-end, laddove in precedenza, quando la dimensione digitale non c’era o incideva poco nelle pratiche di consumo, specifici software si incaricavano solo di alcune operazioni. Oggi, persino le creatività delle campagne possono essere fatte da algoritmi!

Tutto il marketing ha la possibilità di essere automatizzato e tutto quello che si automatizza converge in prodotti/servizi all inclusive quali quelli offerti da Salesforce, Oracle e altri giganti del marketing programmatico. Peraltro, i loro prodotti implicano una visione del mercato in cui le tradizionali barriere concettuali e disciplinari del marketing vengono meno e tutte le attività muovono dallo stesso database, dalla stessa logica di selezione e lettura dei dati, dalla stessa modellistica di correlazioni, dallo stesso approccio alla gestione del feedback, eccetera. Cioè da un determinato modo di pensare e pensieri.

Relativamente al modo in cui gli algoritmi si sono evoluti sull’altro binario, quello che li ha calati nel mondo reale del consumo e consumatori, sono da rilevare sostanziali progressi nella concretizzazione delle attività rivolte alla personalizzazione e pochi avanzamenti nella clusterizzazione.

Credo che la capacità di intervenire per capire e “servire”, in misura più o meno soddisfacente ed efficace, i singoli individui sia la miglior qualità fin qui mostrata dagli algoritmi di marketing (altro discorso se e quanto venga considerata dai brand). Ed è anche quella che maggiormente li distingue rispetto ad altri tentativi passati di agire sugli individui in target.

Sulla clusterizzazione, da una parte c’è da apprezzare l’importante novità di intervenire su una varietà di comportamenti reali anche sofisticati (come fa Facebook), che tuttavia, dall’altra, un’interpretazione riduttiva dei segmenti, affidata agli algoritmi, vanifica nelle potenzialità. Se in precedenza, segmentazioni prodotte da applicazioni statistiche sofisticate venivano correttamente interpretate e impiegate dai marketer, lo stesso, per quanto riguarda la correttezza, non può dirsi per gli algoritmi.

Resta da aggiungere che in questa evoluzione il “format” stesso di algoritmo è già stato sussunto da quello del machine learning, che ne amplia e modifica, almeno in parte, impostazione e vita (ma non natura).

Come pensano gli algoritmi di marketing?
Pensano come le teste dei loro progettisti/programmatori – checché ne dicano i tanti che vedono in loro la trasfusione di oggettività e neutralità analitica.

Più concretamente e semplificando, credo che il modo in cui pensano sia oggi molto condizionato, da una parte da come pensano i tanti “tecnici” che si danno al marketing per fare business, valorizzando quello che sanno fare, cioè scrivere codice. E dall’altra da un’idea abbastanza elementare della statistica applicata alla realtà sociale, che la statistica stessa ha già superato da decenni.

Se avete presente come gli informatici considerano problemi di branding o reward promozionali o di engagement, avete anche più di un suggerimento su come questi stessi problemi vengono trattati e risolti dagli algoritmi. Risolti? In un modo o nell’altro, sì. Con più efficienza e meno costi? Quasi sempre. Anche più efficaci? Dipende, da obiettivi e termini di paragone.

Proprio quello degli obiettivi è un altro tema che modella il modo di pensare degli algoritmi di marketing. Non c’è dubbio che, nella gran parte delle loro applicazioni, siano “miglioristi” piuttosto che strategici. Sono conservativi piuttosto che visionari. Come chi li progetta e con il consenso dei clienti per i quali vengono impiegati.

Da studioso e operatore mi sono convinto, in questi anni, che si stia usando un cannone per spaventare dei passeri: vedo poca innovazione di pensiero in questa distruzione creatrice e molto semplicismo, addirittura una regressione rispetto al livello raggiunto dalla cultura di marketing. Per non dire dei risultati, tutt’altro che esaltanti.

Che cosa pensano gli algoritmi di marketing?
Se sono quasi tutti figli della stessa forma mentis, se i meccanismi della loro intelligenza sono condivisi, ciò che concretamente esprimono varia e dipende essenzialmente dallo scopo per il quale vengono applicati.

Cosa pensano riguarda cosa devono fare e di ciò si può averne saggio osservandoli all’opera. Altri modi, come fare reverse engineering, si possono usare solo nei casi più semplici e quelli di marketing raramente lo sono.

Quello di Amazon, per esempio, pensa che i migliori suggerimenti per gli acquisti siano quelli basati sulla convergenza di tante storie di acquisti.

Netflix pensa che si possano rivelare interessi e piaceri nuovi, sviscerando quelli vecchi, capendone e pesandone le ragioni e proponendo soluzioni inattese.

Quelli usati nel programmatic advertising, tendono a pensare, come un media planner degli anni 70, che ci sia una correlazione stretta, per esempio, tra essere benestanti e provare interesse per una BMW.

E così via. Tutti gli algoritmi di marketing muovono verso un obiettivo, lo “operazionalizzano”, infondendo in questo le nozioni e i meccanismi di cui sono capaci, per poi lasciare che proceda programmaticamente verso il suo conseguimento.

Nel libro Lei riporta numerosi case studies che riguardano alcuni degli algoritmi che maggiormente incidono nell’attuale contesto consumistico, come Google e Amazon: quali meccanismi presiedono al funzionamento dei due portali?
Non c’è dubbio che Google avanza spedito nel suo tentativo di massimizzare l’utilità del singolo utente, con un intervento di filtraggio e personalizzazione dei risultati particolarmente sofisticata, basata su un numero crescente di “signals”. Quello di “utilità” può risultare un concetto sfuggente e foriero di rischi socio-culturali, ma Google è indefettibile nel perseguirlo, pensando agli interessi degli utenti non meno che al proprio business.

Amazon è la macchina per vendere più perfetta fin qui conosciuta. E non tanto per i risultati che ha raggiunto, ma per il modo in cui ha saputo approfittare delle opportunità che, come ogni altro retailer nella storia del consumo, ha sempre avuto davanti a sé e mai sfruttato. Amazon ha cercato nei suoi clienti e trovato nella comunicazione e nel pricing, tutto gestito in maniera algoritmica, quello che serviva a creare nuove vendite, senza badare (troppo) a prodotti, correnti sociali o chissà quali esperienze di vendita.

Nella dimensione digitale e, per contaminazione, anche in quella materiale, gli algoritmi hanno consentito una gestione dei processi di consumo veramente innovativa, decisamente superiore a quanto hanno sin qui mostrato in termini di comprensione e capacità di aiutare il marketing in tal senso.

Roberto Brognara è Digital Strategist e docente di Digital Media for Marketing Communication allo IULM di Milano

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