“Come Dio comanda” di Niccolò Ammaniti: riassunto trama e recensione

Come Dio comanda, Niccolò Ammaniti, riassunto, trama, recensione«In Come Dio comanda (Mondadori 2006), premio Strega 2007, Niccolò Ammaniti riprende temi, immagini e soluzioni narrative e stilistiche da suoi testi precedenti, in particolare dal racconto lungo L’ultimo capodanno dell’umanità, che apriva la raccolta Fango, e dal romanzo Ti prendo e ti porto via. Si può anzi dire che non ci sia nulla, nelle cinquecento pagine di cui è composto il romanzo, che non suoni come già detto (dallo stesso Ammaniti o da altri narratori degli ultimi quindici anni), tanto che si arriva alla fine con un netto senso di stanchezza, anche se la lettura non manca di offrire qualche pagina riuscita. Dell’Ultimo capodanno vengono recuperati tra l’altro la struttura che prevede il montaggio di brevi scene in cui si seguono di volta in volta le vicende dei vari personaggi, tutte concentrate nello stesso lasso di tempo, e il gusto per la rappresentazione di una galleria di figure di marginali, ritratte in atteggiamenti e pensieri che ne esibiscono la pochezza e lo squallore […]. Da Ti prendo e ti porto via viene presa di peso la figura del protagonista, un adolescente ipersensibile cresciuto in un ambiente degradato, che tenta di trovare un modo d’essere diverso da quello violento e cinico di chi gli sta intorno; e come già accadeva nel romanzo precedente, il rapporto conflittuale tra il personaggio e il resto del mondo viene rappresentato in modo schematico e con un’inclinazione al patetismo probabilmente spiegabile col tentativo di rendere un aspetto certo ben presente nella psicologia adolescenziale, ma che finisce in molte occasioni col far perdere di efficacia la raffigurazione di certi aspetti desolanti dell’Italia di oggi, che pure ha una parte fondamentale nel romanzo. I personaggi appaiono fissati in caratteri stereotipati, e rappresentati in modo sempre troppo “carico”. E in effetti, le figure più riuscite sono proprio le poche che non sono ipercaratterizzate, come ad esempio quella dell’assistente sociale, la cui mediocrità è più credibile della ferocia pressoché costante del padre del protagonista.

Non mi paiono invece molto fondate le riserve espresse da più d’un critico sulla scarsa connotazione dei luoghi in cui è ambientato il romanzo (una città con la sua la zona suburbana, in un Italia del Nord priva di elementi riconoscibili). In realtà, quello che Ammaniti vuole esibire sarà proprio ciò che di standardizzato si trova ormai in tutte le città; non a caso l’unico spazio descritto è un centro commerciale, vale a dire il luogo globalizzato per eccellenza. Il non mostrare elementi peculiari, quindi, sembra frutto di una scelta precisa, che ha una sua chiara funzionalità.

Rispetto a L’ultimo capodanno si registrano alcuni passi indietro per quanto riguarda le strategie narrative e stilistiche. Innanzi tutto, la dilatazione eccessiva del testo (che si sarebbe potuto scorciare senza perdere nulla d’essenziale) comporta il venir meno di quel ritmo incalzante che scandiva il precipitare dei protagonisti del primo racconto verso la catastrofe conclusiva. Secondo poi, appare meno convincente la riproduzione delle voci dei personaggi – tutte ben caratterizzate nell’Ultimo capodanno anche nelle parti prive di dialoghi, grazie a un uso accorto del discorso indiretto libero – che risultano di fatto appiattite fino a divenire perlopiù indistinguibili.

Rispetto ad altri scrittori della sua generazione, Ammaniti è sempre stato meno incline alla sperimentazione sul terreno della mimesi dell’oralità. Il suo stile è improntato alla ricerca, per così dire, di una media colloquialità, senza vistose deflessioni dalla norma. Del parlato, in effetti, si rinuncia quasi del tutto a sfruttare i fenomeni sintattici: ne vengono riprese quasi solo parole o locuzioni idiomatiche.

Abbastanza efficace nel narrato, la scrittura di Ammaniti si rivela piuttosto deficitaria nei dialoghi, che suonano sovente un po’ falsi. Non è sufficiente riempire le pagine di turpiloquio per ottenere un verosimile effetto di parlato: sarebbe stato necessario un maggior lavoro sui costrutti, perlopiù troppo puliti e corretti per essere messi in bocca a personaggi incolti e rozzi. Così, un alcolizzato violento che sente “la rabbia propagarsi per tutto il corpo come una tossina” (p. 74), e che conseguentemente aggredisce quello che ritiene essere il responsabile dei suoi guai, si rivolge in questo modo al malcapitato:
«Sei a corto d’aria. Una sensazione orribile, vero? È più o meno la sensazione che si prova quando arriva la fine del mese e non sai dove sbattere la testa per pagare le bollette» (p. 77).

E si legga anche il passo seguente, facendo la tara dei disfemismi:
«Adesso, però, tu mi devi ascoltare attentamente. Nessuno ti deve picchiare. Mai più. Nessuno al mondo deve permettersi di farlo. Tu non sei un finocchio che si fa menare dal primo stronzo che gli si mette davanti. Io vorrei, non sai quanto vorrei aiutarti, ma non posso. Sei tu che devi sbrigarti i tuoi casini. E per fare questo esiste solo un modo: devi diventare cattivo» (p. 161).

In Come Dio comanda torna la propensione del primo Ammaniti ad assorbire nella prosa elementi di provenienza extraletteraria (evidente soprattutto nel romanzo d’esordio, Branchie). Ecco ad esempio la riproduzione (non particolarmente riuscita, a essere sinceri) di una di quelle televendite di quadri che imperversano su certe reti private:
«“Questa tela appartiene alla splendida serie di pagliacci di montagna del maestro Moreno Capobianco […]. Ma di tutta la serie, lasciatemi dire, questo è sicuramente il più efficace e compiuto, un’opera d’arte assoluta, in cui l’artista ha dato il massimo e meglio ha espresso come si può dire… ecco, lo scontro titanico e senza tempo tra uomo e natura. Il significato anche per i profani è chiaro: il pagliaccio rappresenta la farsa che supera i confini del mondo come lo vediamo noi per arrivare lì dove nessuno è mai arrivato. Verso Dio e l’amore, con un atteggiamento quasi mistico-religioso.”
Danilo era incredulo. L’esperto stava dicendo, in modo più giusto, le stesse cose che aveva pensato lui. Alzò ancora il volume.
“Ma, signori miei, senza parlare dei massimi sistemi, guardiamo le cose concrete: lo splendido paesaggio, la luce, il fraseggio raffinato, la pennellata decisa… La pennellata di Capobianco è qualcosa di così delicato che… Immaginate solo un momentino di avere un quadro così nel vostro salotto, all’ingresso, lasciatemi dire, dove vi apre, questa è un’occasione irrip…”» (pp. 189-190).

Un altro elemento che accomuna il romanzo alle prove precedenti è l’alto tasso di figuratività, che si concretizza quasi unicamente attraverso immagini estremamente concrete: “scossa da tremori e spasmi come se al suo corpo fossero collegati centinaia di elettrostimolatori” (p. 34); “Quando le aveva prese erano grandi quanto una moneta da due euro, ora, dopo cinque anni, erano poco più piccole di una forma di pane casereccio” (p. 36); “aveva la pancia gonfia come quella di una vacca affogata” (p. 43); “le loro donne gli venivano addosso peggio delle mosche su uno stronzo di cane” (p. 46); “una donna sciapa come una minestrina di dado vegetale” (p. 48); “una montagnetta di neve che si scioglieva sull’asfalto come citrosodina” (p. 49).

Ma anche in questo campo, la ripetitività delle pagine di Ammaniti ha raggiunto il livello di guardia. In Come Dio comanda, a tratti, ci si accorge di essere in presenza di un narratore tutt’altro che privo di doti; ma non si può che auspicare un cambio di rotta che porti l’autore a sperimentare nuove soluzioni.»

tratto da Narratori italiani del Duemila. Scritti di stilistica militante di Luigi Matt, Meltemi editore

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