
di Fabio Ciceri e Paola Arosio
Raffaello Cortina Editore
«In Sudafrica, a una trentina di chilometri da Johannesburg, nella zona che è stata battezzata “culla dell’umanità”, si trova la grotta calcarea di Swartkrans. È qui che Edward Odes e i suoi collaboratori, ricercatori dell’Istituto sugli studi evolutivi dell’Università di Witwatersrand, hanno rinvenuto nel 2016 i resti dell’osso del piede di un nostro antenato, vissuto circa 1,7 milioni di anni fa. Il frammento, analizzato con le più avanzate tecnologie, ha mostrato i segni di un osteosarcoma, un tumore osseo, che deve avere causato al nostro lontano e malcapitato parente non pochi problemi nel camminare e anche un consistente dolore. Un ritrovamento importante, annunciato dal South African Journal of Science, che costituisce la più antica testimonianza del cancro in un progenitore.
Del resto, le origini di questa malattia si perdono nella notte dei tempi. Basti pensare che le prime tracce di un tumore sono state osservate in un fossile di pesce di circa 300 milioni di anni or sono, ma anche nei dinosauri del Giurassico e in alcuni mammut vissuti 23-24.000 anni fa. Al contrario di ciò che a volte si crede, il cancro non è, quindi, una patologia moderna. “Attualmente si tende a ritenere che i tumori negli esseri umani siano causati dagli odierni stili di vita e dall’ambiente”, sottolinea Odes, “ma i nostri studi dimostrano che queste patologie si trovavano anche nell’antichità, milioni di anni prima dell’esistenza delle moderne società industriali.” Certo, un tempo tale malattia era meno diffusa, perché le persone avevano una vita più breve e venivano stroncate da pestilenze e infezioni ben prima che i tumori avessero modo di fare la loro comparsa.
Ora le cose non stanno più così. Si calcola, infatti, che un individuo su cinque svilupperà un tumore nel corso della propria vita. A dirlo è il rapporto Global Cancer Statistics 2020, realizzato dall’American Cancer Society e dall’International Agency for Research on Cancer, che prende in considerazione i dati relativi a 36 diversi tumori in 185 paesi del mondo. In particolare, lo scorso anno si sono ammalati circa 19,3 milioni di persone e i decessi sono stati circa 10 milioni. Tra i tumori più frequenti, in prima posizione si trova quello del seno, seguito da quello del polmone, del colon-retto, della prostata e dello stomaco. Secondo il rapporto I numeri del cancro in Italia 2020, pubblicato dall’Associazione italiana registri tumori (AIRTUM) e dall’Associazione italiana di oncologia medica (AIOM), l’anno passato nel nostro paese si sono ammalate 377.000 persone. Una cifra che, tra l’altro, è probabilmente sottostimata a causa della pandemia. Secondo l’AIOM, infatti, gli screening per il tumore della mammella, della cervice uterina e del colon-retto hanno registrato una riduzione di due milioni e mezzo nel 2020 rispetto al 2019, mentre i programmi di prevenzione secondaria sono stati ritardati di quattro-cinque mesi. Posticipati anche il 99 per cento degli interventi per tumori alla mammella, il 99,5 per cento di quelli alla prostata e il 74,4 per cento di quelli al colon-retto. Inoltre, nel periodo compreso tra aprile 2020 e febbraio 2021, gli oncologi hanno visitato il 30 per cento di pazienti in meno, il che corrisponde a 25-30 pazienti in meno alla settimana. Numeri di rilievo, che fanno presagire un aumento delle diagnosi in fase avanzata di malattia nell’immediato futuro. Alle cifre in continua ascesa, si deve poi aggiungere il fatto che tale patologia, nell’immaginario collettivo, è una delle più temibili di sempre e che la diagnosi segna, a livello individuale, un prima e un dopo, portando con sé ancestrali paure e infausti presagi. Ecco perché la ricerca oncologica a livello globale non conosce sosta.
Tuttavia, fino a poco tempo fa c’erano solo tre metodi collaudati per trattare il cancro: l’intervento chirurgico, la radioterapia, la chemioterapia. Si stimava che queste tecniche, capaci rispettivamente di tagliare, bruciare, avvelenare il cancro, fossero in grado di curare poco più della metà delle persone che sviluppavano la malattia. Un risultato importante che, però, lasciava fuori l’altra metà dei malati.
È in questi vuoti che, talvolta, la necessità di trovare risposte e soluzioni ha avuto il sopravvento sulla razionalità, portando a barattare la ragione e le prove di efficacia con estemporanei entusiasmi e illusorie speranze. Verso la metà del secolo scorso si verificò un caso che suscitò grande scalpore in tutta l’America. Harry Hoxsey, ex minatore e venditore di assicurazioni, fece fortuna commercializzando il suo trattamento contro i tumori, un mix di erbe e altri composti. La vendita proseguì per diversi anni finché, in assenza di prove che attestassero l’efficacia del prodotto, venne vietata dagli enti regolatori. Nel frattempo lo stesso Hoxsey fu colpito da un tumore alla prostata e, dopo avere provato il suo preparato con vani risultati, optò per l’intervento chirurgico e per i trattamenti tradizionali. Il che non riuscì comunque a sottrarlo alla morte, che avvenne nel 1974. In Italia il caso più clamoroso fu senza dubbio quello del fisiologo Luigi Di Bella. Era il 1997 quando giornali e tv annunciarono il suo nuovo metodo contro il cancro, una combinazione di varie molecole, tra cui somatostatina, bromocriptina, ciclofosfamide, melatonina, vitamine, retinoidi. Spacciata come efficace, la miscela si rivelò del tutto inutile. Accanto a questi esempi di ciarlataneria bella e buona, ci sono stati anche tentativi più seri, ma non per questo meno fallimentari.
Più o meno negli stessi anni in cui si discuteva della terapia Di Bella, al di là dell’oceano Judah Folkman, uno studioso di Harvard, dichiarò di avere messo a punto una cura in grado di battere il tumore. L’idea era quella di impiegare una proteina, l’angiostatina, per bloccare la formazione dei vasi sanguigni che alimentano il cancro, soffocando e uccidendo il male. […]
Storie di presunte cure miracolose contro il cancro, che si sono poi rivelate un buco nell’acqua, ma che intanto hanno illuso migliaia di pazienti, alcuni dei quali, per inseguire queste chimere, hanno anche abbandonato i trattamenti standard approvati dalla comunità scientifica, gli unici sicuri ed efficaci.
A oggi possiamo dire, con ragionevole certezza, che non sarà una sola terapia – che si tratti di una nuova pillola o di una fiala – a dare scacco matto ai tumori. Una “cura universale” sembra molto improbabile, perché il cancro non è una singola malattia, ma un insieme di oltre duecento patologie differenti, multiformi ed eterogenee, catalogabili non solo sulla base dell’organo o del tessuto colpito, ma anche in base ai geni coinvolti. Questi ultimi sono fondamentali, visto che nessun cancro è geneticamente uguale a un altro e che il tipo di anomalia genetica che provoca un determinato tipo di tumore è responsabile anche della risposta alle terapie, così come della possibilità di sopravvivenza.
Su questo fronte negli ultimi anni sono stati fatti numerosi passi avanti, ma ostinarsi con l’idea di una cura “pozione magica” rischia di oscurare il lavoro compiuto. Da un recente sondaggio commissionato dall’Institute for Cancer Research di Londra, è emerso che solo il 28 per cento delle persone pensa che la ricerca stia facendo importanti progressi nella lotta contro la malattia, nonostante negli ultimi dieci anni il tempo medio di sopravvivenza dei malati di cancro sia pressoché raddoppiato. In particolare, secondo l’American Cancer Society, a metà degli anni Settanta meno del 50 per cento dei pazienti sopravviveva per cinque anni o più dopo la diagnosi, mentre oggi tale quota supera il 70 per cento. È tuttavia importante precisare che molte volte non si tratta di guarire o soccombere, di bianco o nero, di tutto o niente. Sempre più pazienti convivono per anni, decenni a volte, con la loro patologia, sottoponendosi periodicamente alle necessarie terapie e mantenendo comunque una soddisfacente qualità di vita. […]
Ma a che punto siamo, quindi, oggi? Quali sono le frecce al nostro arco per combattere la malattia? Proprio la consapevolezza della molteplicità dei tumori ha indotto gli esperti a rivedere il concetto stesso di terapia, cercando trattamenti non più uguali per tutti, ma su misura per ciascun tipo di cancro e perfino per ciascun paziente. Non più un abito che veste tutti, ma uno confezionato ad hoc da un abile sarto, affinché possa calzare a pennello. È questa l’oncologia personalizzata, che tende appunto a individuare il giusto trattamento per il giusto paziente nelle giuste tempistiche e alle giuste dosi.
Accanto a questa strategia, ce n’è un’altra molto rilevante, che prende il nome di “immunoterapia”. In pratica, si tratta di fare in modo che il sistema immunitario del paziente, ovvero il suo “esercito difensore”, possa riconoscere le cellule tumorali per attaccarle e distruggerle. Un’idea così innovativa da essersi meritata nel 2013 la copertina della rivista Science, che non ha esitato a definirla il traguardo scientifico più importante dell’anno. Infine, l’ultima e più recente frontiera dei trattamenti sono le cosiddette terapie geniche, che agiscono in laboratorio sulle cellule.
Ebbene, proprio al crocevia tra personalizzazione, immunoterapia, terapia genica si colloca un nuovo, promettente trattamento, che mette a frutto le più avanzate conoscenze e le più sofisticate tecnologie. Si tratta delle Car T, una strategia di ultimissima generazione, un approccio che sovverte i tradizionali principi della lotta al cancro, sfidandolo in modo del tutto diverso da come è stato fatto sinora. Il presupposto, infatti, è quello di non attaccare direttamente le cellule malate, ma di potenziare le cellule immunitarie, in modo che siano in grado di mettere k.o. il tumore. In pratica, l’idea è quella di combattere il cancro come se fosse un’infezione, tipo una polmonite o un’uretrite, per intenderci. […]
Queste ultime rappresentano il culmine di molti anni di studi, perché la ricerca è come un grande edificio che si costruisce nel tempo, in cui ciascun mattone rappresenta i risultati ottenuti da ogni singolo scienziato. Un percorso dinamico che, come un puzzle, avanza tessera dopo tessera, fino ad arrivare agli ultimi pezzi che trovano la loro posizione nel disegno complessivo. Così è stato anche nel caso di questa terapia rivoluzionaria, che costituisce il principio di una nuova era. Un ambito di ricerca per gli scienziati, una frontiera di investimento per le aziende farmaceutiche, una sfida per i sistemi sanitari e, ovviamente, una concreta speranza per i malati di tumore di tutto il mondo.»
Fabio Ciceri è direttore scientifico dell’Ospedale San Raffaele di Milano e professore ordinario di Ematologia all’Università Vita-Salute San Raffaele