
La relazione tra religione e diritto, o, se non si vuole ricorrere ad astrazioni, tra sacerdoti e magistrati, è una questione cardine anche nello studio del diritto romano. Su questa relazione, esaminata in vario modo dagli studiosi, non si può dire, ad oggi, che siano state raggiunte conclusioni esaurienti, perché i risultati prodotti dalle ricerche hanno fornito solo una percezione di come i Romani la intendessero e la vivessero. Esemplarmente, è ragionevole ritenere che molte nuove riflessioni potrebbero scaturire dalla realizzazione del progettato lessico del diritto pubblico romano.
Il problema principale nello studio della relazione tra religione e diritto è costituito dalla polisemia del termine “laicità” (dunque, dalla sua ambiguità) e dall’uso, spesso acritico, fattone dai giuristi odierni per spiegare questa relazione anche nell’evo antico.
Eppure, nel mondo romano, tanto i sacerdoti quanto i magistrati ed i singoli cittadini potevano consultare gli dèi tramite i poteri auspicali e non vi era contesa tra loro sull’esercizio di questi poteri. Che senso può avere, allora, parlare di «laicizzazione dell’intero ordinamento» con riferimento a un sistema basato sulla massima diffusione dei poteri auspicali?
Tutto ciò mi porta a pensare che termini e concetti moderni (quali laico, laicismo, laicità) calati in contesti antichi conducono, sempre e comunque, a contraddizioni e “autoproiezioni” concettuali. “Laicità” non è un concetto romano, ma moderno; conseguentemente, non è attraverso la “laicità” che può essere vista la relazione tra religione e diritto nel mondo romano.
In cosa si distinguevano sacerdotes e magistratus?
Religione e diritto non sono separati, né tanto meno isolati; neppure sono separati i sacerdozi dalle magistrature. Nel mondo romano, infatti, le stesse persone potevano essere contemporaneamente magistrati e sacerdoti, gli uni a carattere temporaneo, gli altri invece vitalizi. Quindi, non di separazione o isolamento è possibile parlare, ma di distinzione; la quale deve essere primariamente cercata nei fondamenti dei poteri sacerdotali e magistratuali, poiché da essi dipende la possibile distinzione quanto ai contenuti. Mentre la nomina del magistrato passa attraverso l’elezione popolare, la scelta del sacerdote dipende dalla cooptazione collegiale o dalla scelta da parte del pontefice massimo; in più, per il sacerdote è prevista l’inaugurazione, atto che, invece, non è contemplato per i magistrati.
Come ho detto, tra i poteri di sacerdoti e magistrati sono gli auspici; ma questi poteri hanno caratteristiche diverse, perché, a differenza degli auspici magistratuali, quelli sacerdotali non hanno fondamento nel popolo che non partecipa né alla scelta né alla inaugurazione dei sacerdoti. Pertanto, il fondamento dei poteri sacerdotali non è nel popolo, ma è esclusivamente divino.
La distinzione tra i fondamenti dei poteri sacerdotali e dei poteri magistratuali trova la sua ragione nella collocazione su piani distinti del potere del popolo e del potere divino. I sacerdoti sono esperti dotati di capacità e poteri religiosi che non hanno fondamento nel potere del popolo e il meccanismo della cooptazione e della scelta diretta del pontefice massimo indica che la loro nomina non può e non deve dipendere dalla volontà del popolo.
Come avveniva la scelta del pontifex maximus?
Le modalità di scelta dei sacerdoti cambiano a partire dalla metà del III secolo a.C., quando emerge nelle fonti l’esistenza di comizi che provvedono alla elezione del pontefice massimo. Successivamente, nel 103 a.C. il tribuno della plebe Domizio Enobarbo fece approvare un plebiscito in virtù del quale la competenza sulla scelta di sacerdoti organizzati in collegi (pontefici, auguri, epuloni e custodi dei Libri Sibillini) fu attribuita ai comizi dei sacerdoti. Con l’introduzione del principio elettorale nelle modalità di scelta dei sacerdoti, la distinzione tra sacerdoti e magistrati sembra meno netta. Dall’esame delle fonti, però, è evidente che questa distinzione non cade.
Un testo di Cicerone costituisce la migliore testimonianza su come erano strutturati i comizi del pontefice massimo e i successivi comizi dei sacerdoti organizzati in collegi. Da esso si ricava che: a) questi comizi sono organizzati per tribù (che costituisco, grosso modo, unità territoriali attraverso le quali è misurata l’efficienza del voto) e, pertanto, hanno la stessa struttura dei comizi che eleggono i magistrati minori; b) le tribù che compongono tali comizi sono diciassette e, quindi, essi non hanno la stessa composizione dei comizi tributi che eleggono i magistrati, che sono invece formati da trentacinque tribù (cioè la totalità del popolo); c) queste diciassette tribù sono qualificate come minor parte del popolo.
Qual era il funzionamento dei comitia pontificis maximi?
Nella vicenda dei comizi del pontefice massimo (e, poi, dei comizi dei sacerdoti) il termine popolo indica generalmente l’insieme dei cittadini organizzati nei comizi. Nel citato testo di Cicerone, però, i concetti e le definizioni sono puntualizzati; infatti, la particolare composizione dei comizi sacerdotali è specificata sul piano concettuale e terminologico con l’ausilio delle parole ‘minor parte del popolo’.
Cicerone, utilizzando categorie elaborate dai giuristi del suo secolo, chiarisce la particolare relazione tra il popolo e le parti di cui esso si compone, evidenziando che gli effetti prodotti dalla minor parte non possono essere gli stessi cagionati dall’intero popolo. Pertanto, la scelta del pontefice massimo (e dei sacerdoti) da parte della minor parte del popolo non ha le stesse caratteristiche della elezione dei magistrati ad opera dell’intero popolo. Del resto, anche in altre fattispecie è riscontrabile la distinzione tra le caratteristiche dell’intero popolo Romano e quelle delle sue parti: a titolo di esempio, la plebe, parte del popolo, approva plebisciti che, dal 286 a.C. in poi, hanno lo stesso valore delle leggi approvate dall’intero popolo.
Che relazione esisteva tra comitia pontificis maximi e comitia sacerdotum?
I comizi del pontefice massimo costituiscono, quindi, il primo effetto dell’introduzione del principio elettorale nelle procedure volte alla scelta dei sacerdoti. Sorti nella metà del III secolo a.C. per la scelta del pontefice massimo, essi costituiscono il modello per i comizi istituiti alla fine del II secolo a.C. per la scelta di sacerdoti organizzati in collegi.
Nati in età diverse e per assolvere a funzioni diverse, questi comizi, sia quelli per l’elezione del pontefice massimo sia quelli per la scelta di sacerdoti, sarebbero stati successivamente assoggettati alla disciplina della medesima fonte normativa, condividendo così sorti e regolamentazione.
Importanti diversità sono però rilevabili tra questi comizi sotto il profilo procedurale.
Persone estranee ai collegi sacerdotali avanzano la loro candidatura ai sacerdozi, anche se dai comizi possono essere votati soltanto i candidati che siano anche stati ‘nominati’ dai componenti di questi collegi. Invece, solo i pontefici possono essere candidati al pontificato massimo.
I comizi del pontefice massimo sono riuniti da uno dei pontefici. I comizi dei sacerdoti sono convocati e presieduti dai magistrati.
A causa dell’incremento costante del numero dei componenti dei collegi dei sacerdoti, i comizi per l’elezione dei sacerdoti organizzati in collegi sono riuniti con una frequenza notevolmente maggiore rispetto a quelli riguardanti la scelta del pontefice massimo.
Questi due comizi, conservando le proprie fonti istitutive e le diversità procedurali, sono accomunati dalla disciplina giuridica, basata sulla puntualizzazione scientifica dei concetti fondanti.
Tuttavia, se la struttura dei comizi del pontefice massimo, basata sulla composizione straordinaria di diciassette tribù invece di trentacinque, costituisce il modello cui si ispirano i comizi dei sacerdoti, la funzione svolta dalla cooptazione giustifica, sotto il profilo giuridico, il ricorso al popolo, laddove la preminenza della religione comporta la carenza di potere del popolo stesso.
Che funzione svolgeva la cooptatio nell’elezione del pontifex maximus e nella creatio dei sacerdotes?
Il pontefice massimo, all’atto della scelta comiziale, è già cooptato dal collegio dei pontefici quale pontefice e con ogni probabilità è già inaugurato quale sacerdote; costui, quindi, non deriva il potere dai comizi che lo hanno scelto. Parimenti, il sacerdote sarà necessariamente cooptato dal collegio di appartenenza dopo l’elezione comiziale e, successivamente, anche inaugurato; neppure questi, pertanto, deriva i propri poteri dai comizi.
La cooptazione costituisce il fulcro intorno al quale si muove il sistema di scelta del pontefice massimo e dei sacerdoti organizzati in collegi, pur dopo l’introduzione del principio elettorale. Anzi, proprio la cooptazione fornisce la giustificazione, sotto il profilo giuridico, del ricorso al popolo, più precisamente alla minor parte di esso, in una materia, quale quella della scelta dei sacerdoti, fondata sui principi della religione.
L’introduzione dell’elezione comiziale nella scelta dei sacerdoti non produce il decadimento della cooptazione a mero atto formale, perché la centralità della funzione svolta dalla cooptazione non viene meno e, quindi, l’importanza del ruolo rivestito dai collegi sacerdotali è confermata.
L’introduzione del principio elettorale nella scelta dei sacerdoti, insomma, non altera il principio della distinzione tra i fondamenti dei poteri magistratuali e sacerdotali.
Franco Vallocchia è Professore Ordinario di Istituzioni di diritto romano, Storia del diritto romano, Fondamenti del diritto europeo, Diritto pubblico romano presso Sapienza-Università di Roma, Facoltà di Giurisprudenza di cui è Vicepreside Vicario. Associato al Consiglio Nazionale delle Ricerche, è autore di monografie e articoli in materia di Diritto romano e responsabile di progetti di ricerca, nazionali e internazionali.