
La traduzione appena stampata del codice civile cinese in lingua italiana è la prima realizzata fuori dalla Cina. Un evento che giudico di straordinaria importanza. Il ccc era stato approvato dall’Assemblea del Popolo (il Parlamento cinese) il 28 maggio del 2020 ed è entrato in vigore il 1 gennaio del 2021.
La traduzione dal cinese in italiano è di Huang Meiling, mia allieva, formatasi per molti anni presso l’Università di Roma ed attualmente docente ordinaria presso la Zhongnan University of Economics and Law (ZUEL) di Wuhan. L’edizione italiana è stata curata da tre docenti della Sapienza, Oliviero Diliberto, Domenico Dursi e Antonio Masi. L’Introduzione è del Preside della ZUEL, Xu Diyu.
Si tratta dell’ultimo frutto della collaborazione tra Sapienza Università di Roma e ZUEL, iniziata il 13 gennaio 2017 con la fondazione del Centro Studi Giuridici Italo-Cinese, alla presenza del Capo dello Stato, Sergio Mattarella. In questi anni, abbiamo costituito presso Sapienza la più ricca biblioteca giuridica cinese del mondo, fuori dalla Cina; attivato un corso di laurea magistrale (European Studies – Private Comparative Law, in lingua inglese) presso la ZUEL, che eroga titolo di studi Sapienza; ricevuto decine di giovani dottorandi cinesi; organizzato, ogni anno, due convegni internazionali (uno a Roma, l’altro a Wuhan), sino a che è stato possibile causa covid 19; organizzato lo scambio degli studenti e molto altro.
Si tratta del primo codice civile entrato in vigore in Cina.
La storia della codificazione in Cina è lunga e complessa. Diversi tentativi fallirono nei primi decenni del secolo scorso. Nel 1931 fu infine approvato un codice civile, che tuttavia non fu mai concretamente applicato, se non sporadicamente in qualche grande città, per via prima dell’invasione giapponese, poi della guerra civile e infine dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Con la nascita della Repubblica Popolare Cinese (1949), il codice del ’31 rimase in vigore nella sola Taiwan. L’attuale codificazione è dunque la prima realmente vigente in Cina e rappresenta la conclusione di una gestazione iniziata con l’approvazione della Legge sui principi generali del diritto civile (1986) e proseguita con la promulgazione di leggi speciali sui diversi aspetti del diritto privato. Nel codice civile la tradizione civilistica europea a base romanistica e la millenaria cultura cinese hanno trovato, come dirò meglio in seguito, una sintesi di grande fascino giuridico e culturale.
Che ruolo riveste il diritto romano tra le fonti del diritto civile cinese?
Alla fine dell’ ‘800, quando il Giappone inizia la fase della propria ‘mordernizzazione’, decide anche di dotarsi di una legislazione civilistica, ispirandosi direttamente all’esperienza giuridica tedesca, in virtù della grandezza della pandettistica (Savigny), allora il modello dottrinale europeo per eccellenza. Agli inizi del ‘900, per il tramite della contaminazione giapponese, il diritto romano giunge anche in Cina. Ma, come detto, passerà quasi un secolo prima della nascita di un codice civile in Cina.
Vediamo le tappe più recenti della ricezione del diritto romano nella Repubblica Popolare Cinese. Provo una periodizzazione.
È esistito sicuramente il periodo che definirei “sovietico” (dal ’49 alla fine degli anni ’50): periodo nel quale i giovani cinesi vanno a studiare giurisprudenza a Mosca e lì apprendono il diritto romano, che era materia obbligatoria nelle facoltà giuridiche sovietiche. Dopo la rottura del partito comunista cinese con l’Urss (anche con una contrapposizione ideologica violenta), il periodo sovietico finisce e inizia quello che Sandro Schipani giustamente definisce il periodo del “nichilismo giuridico”: quello che coincide con la Rivoluzione culturale (dal 1966), in cui si abbandonava il modello sovietico e il diritto in quanto tale era considerato una sovrastruttura borghese. Dopo la morte di Mao (1976), sono circostanze notissime, Deng Xiaoping ritorna prepotentemente sulla scena, conquista il potere e inizia l’epoca delle quattro modernizzazioni.
Poi, una serie di casualità. Nel 1988 il decano dei giuristi cinesi Jiang Ping, preside della facoltà giuridica di Pechino, viene a Roma per un convegno invitato un collega che insegna diritto romano, il già ricordato Sandro Schipani. Jiang ha studiato in Russia, quindi ha studiato il diritto romano. E i due hanno l’intuizione geniale. Siamo nell’88: il muro di Berlino non era ancora caduto e siamo prima di Tien Ammen. L’idea è: poiché la Cina è avviata sulla via delle riforme economiche, serve un codice civile. Dal 1978, infatti, con l’apertura della Cina al mondo e la guida politica di Deng Xiaoping, si erano registrate tappe significative di sviluppo del diritto civile: ad esempio, l’emanazione dei Principi generali del diritto civile (GPCL) del 1986.
Schipani e Jiang, dunque, si accordano per tradurre in cinese i testi del diritto romano e in particolare il Corpus Iuris di Giustiniano, la fonte di tutto. Per tutti gli anni Novanta vengono tradotte le fonti giuridiche romane. Per cui, alla fine degli anni Novanta, quando il gruppo dirigente cinese decide quale modello giuridico adottare, se Common Law o Civil Law, ha la possibilità di accedere linguisticamente al diritto romano, perché è in cinese.
Alla fine, dopo lunga e non facile discussione, scelgono di adottare il diritto romano. C’è, poi, in questa vicenda, un ‘caso’ che mi riguarda e che fu favorevole allo sviluppo della “lunga marcia” del diritto romano in Cina. Nel 1998 ero, infatti, diventato Ministro della Giustizia in Italia, i cinesi erano impegnanti nel ragionare su quale fosse il modello migliore per la propria legislazione civilistica ed io, oltre ad essere un politico e Ministro comunista, ero anche docente di diritto romano. Nel 1999, dunque, insieme a Schipani, ci rechiamo in Cina anche con l’allora Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione italiana e da quel momento la vicenda assume anche un aspetto ‘istituzionale’, non solo accademico: in quell’incontro era infatti presente anche il Ministro della Giustizia cinese. Da quel momento in poi, i dirigenti del Partito e poi dell’Assemblea del Popolo iniziano a legiferare prendendo come modello il diritto privato romano, mediato anche attraverso alcune esperienze codicistiche contemporanee, ad iniziare dal BGB.
Infine, dopo il 2014, con la Presidenza lungimirante di Xi Jinping, la costruzione di un codice rientra a pieno titolo nell’agenda politica cinese: la costruzione della legge con caratteristiche cinesi, senza imitare altri sistemi giuridici, ma con uno spirito di confronto con i modelli stranieri.
Nel frattempo, noi abbiamo contribuito, a Roma, alla formazione di decine di giovani giuristi cinesi, che poi, tornando in Patria, diventano classe dirigente e molti sono stati impegnati proprio nella costruzione dell’attuale codice civile cinese.
In tre anni di dottorato, imparano l’italiano, il latino e il diritto romano. E pensare che alcuni sprovveduti vorrebbero abolire il latino nelle nostre scuole!
Quali peculiarità presenta il Codice civile cinese?
Vi sono due particolarità intellettualmente affascinanti. La prima: tutti i codici del mondo hanno preso a modello il diritto romano, passando attraverso la mediazione del Codice napoleonico (1804). Quindi la scansione logico-temporale è: diritto romano, mediazione napoleonica e codice moderno. I cinesi hanno viceversa “saltato” la mediazione napoleonica. Quindi paradossalmente il codice cinese è più simile al diritto romano originario, rispetto al nostro.
La seconda è che in tutto il mondo prima nascono i codici, poi arrivano le Costituzioni, che sono un fenomeno tipicamente novecentesco, anche in Italia. In Cina accade il contrario. Questo significa che mentre da noi il codice civile italiano non risente dei diritti costituzionali, in Cina è il contrario, nasce proprio dai principi costituzionali.
La fascinazione intellettuale del ccc è enorme.
Infatti, la Cina ha una cultura millenaria più antica di quella occidentale, fondata sul confucianesimo, che è una cultura di regole morali. Il primato della morale sulla politica è il contrario di Machiavelli, per intenderci. Quindi, l’incontro tra la millenaria tradizione etica e culturale cinese con la tradizione giuridica occidentale rappresenta per un giurista, docente di diritto romano come me, un’avventura intellettuale straordinaria. Unica.
D’altro canto, quando il presidente Xi Jinping è venuto in Italia nel 2019, in visita di Stato per siglare l’accordo della Nuova Via della Seta (durante il governo Conte I), scrisse un articolo apparso sul Corriere della Sera. In esso, il Presidente cinese ha descritto l’amicizia tra Italia e Cina come un fenomeno radicato in una prestigiosa eredità storica. Nel mondo ci sarebbero stati due imperi, quello cinese per l’Oriente e quello romano per l’Occidente e l’Italia è l’erede di quest’ultimo. L’Italia gode ancora, immeritatamente forse, dell’onda lunga dell’impero romano, che è ritenuto nell’immaginario dei cinesi l’unico riconosciuto allo stesso livello di quello cinese.
Siamo dinanzi al riconoscimento di una eredità giuridica, di cui l’Italia è espressione. Dobbiamo (dovremmo) esserne orgogliosi.
Oliviero Diliberto (Cagliari, 1956) è Preside della Facoltà di Giurisprudenza della “Sapienza” di Roma. Dopo la laurea a Cagliari, si è formato tra Roma e Frankfurt am Mein. Ordinario dal 1994, dal 2000 insegna Istituzioni di Diritto Romano presso la Facoltà giuridica romana e dal 2016 ha anche la cattedra di Diritto romano presso la Zhongnan University of Economics and Law (Wuhan, China). È attualmente Preside dell’Istituto Italo-Cinese. È stato Ministro della Giustizia nei due governi D’Alema e parlamentare dal 1994 al 2008.