“Classici alla gogna. I Romani, il razzismo e la cancel culture” di Mario Lentano

Prof. Mario Lentano, Lei è autore del libro Classici alla gogna. I Romani, il razzismo e la cancel culture, edito da Salerno. «L’accusa di razzismo, rivolta un po’ sbrigativamente e all’ingrosso alle culture antiche nel loro insieme, costituisce uno dei puntelli di quel fenomeno nato negli Stati Uniti, prepotentemente esploso negli anni più vicini a noi e conosciuto perlopiù sotto l’etichetta di cancel culture»: i Romani erano razzisti?
Classici alla gogna. I Romani, il razzismo e la cancel culture, Mario LentanoPer rispondere a questa domanda occorre naturalmente accordarsi sulla definizione del termine “razzismo” e su quella di “razza” che ne è alla base. In età contemporanea, quest’ultima nozione è stata declinata perlopiù in senso biologico: la discriminazione o la vera e propria persecuzione di determinati gruppi umani sono avvenute sul presupposto che i membri di tali gruppi possedessero caratteristiche derivanti loro da null’altro se non dall’appartenenza al gruppo stesso. Caratteristiche innate, insomma, e come tali immutabili. In questo senso, la cultura romana non può definirsi “razzista”, nel senso che in quella cultura le differenze tra popoli ed etnie sono spiegate perlopiù a partire da paradigmi diversi da quello biologico o genetico. Nei testi della letteratura antica giunti sino a noi affiorano ovviamente pregiudizi sulle altre etnie (ad esempio sui Cartaginesi) oppure stereotipi stigmatizzanti verso alcuni popoli (e penso soprattutto agli Ebrei), ma tutto questo non è mai approdato a una nozione di “razza” affine a quella dei razzismi contemporanei né ha mai dato luogo a fenomeni di sistematica marginalizzazione delle comunità oggetto di stigma.

I Romani si definirono mai a partire dal colore della loro pelle?
Questo è un punto di grande rilievo. Il grande storico ateniese Tucidide, che ricostruisce la guerra combattuta fra Atene e Sparta nell’ultimo trentennio del V secolo a.C., premette al suo racconto un’osservazione molto interessante: egli nota non senza sorpresa come nei poemi omerici non compaia mai il termine “barbaro”, che all’epoca di Tucidide era normalmente utilizzato per riferirsi ai popoli non greci. Di questa circostanza Tucidide dà una spiegazione particolarmente acuta: se all’epoca di Omero non esisteva la parola “barbaro”, questo accade perché anche i Greci non disponevano ancora di un unico termine con il quale definirsi nel loro insieme. “Greco” e “barbaro” sono insomma due categorie che nascono insieme, ognuna delle quali ha senso in quanto si oppone all’altra. Ora, alla dialettica tra “bianco” e “nero”, in riferimento al colore della pelle, si può applicare la stessa osservazione di Tucidide: dai testi giunti sino a noi non risulta che i Romani abbiano mai utilizzato il termine “bianchi” per riferirsi a sé stessi né che siano ricorsi a suo opposto “neri” per individuare una specifica categoria di esseri umani come gruppo separato e magari farne oggetto di discriminazione. In latino, la parola normalmente usata per riferirsi agli individui dalla pelle scura è Aethiops, propriamente “Etiope”, ma si tratta di una parola che ha perso presto ogni connotazione etnica per diventare un termine generico. Per non parlare del fatto che gli Etiopi, da Omero in avanti, erano considerati dagli antichi un popolo longevo, pacifico e benedetto dagli dèi, che presso di loro usavano recarsi a banchettare perché li ritenevano i più devoti fra gli uomini.

In che modo i Romani spiegavano le differenze del colore della pelle?
Nella cultura antica, almeno a partire dalla fine del V secolo a.C., il modello dominante di spiegazione delle differenze fra le etnie – differenze di cui naturalmente gli antichi erano consapevoli, specie quando investivano un elemento macroscopico come la pigmentazione cutanea – è il cosiddetto “determinismo geo-climatico”, secondo il quale le caratteristiche fisiche dei diversi gruppi umani sono il prodotto dell’ambiente e del clima, e in particolare dell’esposizione agli effetti del calore solare. I popoli del sud, come gli antichi li definivano, sono maggiormente esposti a quel calore e di conseguenza hanno pelle scura, capelli crespi, bassa statura e scarsa dotazione di sangue, per via dell’assorbimento legato a sua volta alla vicinanza del sole. Al contrario, nei popoli del nord, più lontani dalla luce solare, prevalgono i colori chiari (capelli, carnagione, occhi) e le corporature massicce, e il sangue è abbondante in coerenza con la più generale prevalenza dell’elemento umido in quelle latitudini. A questi tratti somatici si legavano poi specifiche caratteristiche psicologiche, come la fiacchezza bellica dei meridionali contrapposta all’audacia sconsiderata dei settentrionali o la finezza intellettuale dei primi rispetto all’ottusità dei secondi. I Romani invece, come già i Greci prima di loro, erano persuasi di abitare in una fascia temperata del mondo, nella quale le caratteristiche delle altre due zone climatiche si mescolavano in un equilibrio ottimale.

Che rilevanza assumeva, nella cultura romana, il tema dell’integrazione?
«Il nostro padre Romolo», ebbe a dire una volta l’imperatore Claudio, «spesso ha considerato i medesimi popoli, nell’arco della stessa giornata, prima nemici e poi concittadini»: una frase che dimostra come i Romani, o almeno una parte di loro, si percepissero alla stregua di una società aperta all’incorporazione di altri gruppi e come ritenessero che tale atteggiamento li avesse caratterizzati sin dai primissimi momenti della loro storia, addirittura dall’epoca del fondatore Romolo. Ed è vero che la progressiva estensione della cittadinanza si rivelò in prosieguo di tempo uno strumento formidabile per cooptare dapprima le élite locali, cointeressandole alle fortune dell’impero, e poi le popolazioni dei territori conquistati: un processo iniziato assai precocemente e sfociato all’inizio del III secolo d.C. nel celebre editto con cui l’imperatore Caracalla concesse la cittadinanza a tutti gli abitanti liberi dell’impero, in quella che possiamo tranquillamente considerare la prima globalizzazione della storia. Tutto questo, beninteso, non significa dipingere i Romani come benefattori animati da un afflato ecumenico e inclusivo: anzitutto la cittadinanza è una concessione affidata alla discrezionalità del vincitore e non un diritto del vinto; in secondo luogo, essa ha come presupposto necessario la sottomissione del nemico, spesso al termine di guerre sanguinose, saccheggi indiscriminati, talora veri e propri genocidi. Fatte queste precisazioni, resta il fatto che i Romani hanno scelto di governare il loro impero attraverso il coinvolgimento dei governati, scelta nella quale il già citato imperatore Claudio, che nel 47 d.C. aveva celebrato i primi ottocento anni dell’Urbe, vedeva uno dei segreti del loro successo storico.

Quale giudizio si può dunque offrire della “cultura della cancellazione”?
La cosiddetta cancel culture è un fenomeno nato negli Stati Uniti e strettamente legato alla storia di quel grande paese, e in particolare alla lunga discriminazione cui è stata soggetta la popolazione di colore: una ferita tuttora aperta e sanguinante, i cui effetti si prolungano ben dentro il presente. È dunque palmare che qualsiasi passo vada nella direzione di un superamento di questa lunghissima e dolorosa fase storica vada accolto con favore. Il problema insorge quando si pretende di imporre retroattivamente i valori e le convinzioni del presente facendone il metro di paragone per valutare la letteratura o l’arte del passato, con la conseguente richiesta di rimuovere tutto ciò che a tali valori e convinzioni non si conforma: una rimozione che in alcuni casi prende la forma della scomparsa di testi e autori “sgraditi” dai curricula di scuole superiori e università, in altri ha una sua concretezza fisica e consiste nel demolire o nel dislocare in sedi meno vistose ed esposte manufatti, busti o monumenti di varia natura. Molti antichisti statunitensi sono coinvolti in prima persona in questo fenomeno, quando non sono direttamente i promotori di una sorta di chiamata in correità della cultura greco-romana, accusata in blocco di aver legittimato, grazie anche allo straordinario prestigio di cui ha goduto sino ad oggi, fenomeni come il colonialismo, il suprematismo bianco, la marginalizzazione delle donne e delle minoranze, la schiavitù. Nel mio libro cerco di dimostrare che almeno nel caso del razzismo tale chiamata in correità non ha ragion d’essere e che anzi quella romana è una società nella quale il colore della pelle non è mai stato invocato come criterio di discriminazione; ma anche quando non è così, è lo stesso presupposto della cancel culture ad apparire intellettualmente rozzo e persino pericoloso, nella misura in cui rischia di sfociare in un nuovo conformismo e di promuovere un canone non meno arbitrario di quello che intendeva combattere.

Mario Lentano è Professore di Lingua e letteratura latina all’Università di Siena

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