
di Giuseppe Valditara
Giappichelli
«La storia del popolo romano affonda le sue radici in antiche leggende tramandate per secoli, già ben conosciute in specie nel mondo greco fin dal V secolo a.C., e scolpite in particolare nelle parole di storici e poeti di età augustea.
Roma nella realtà storica nasce da un nucleo latino situato sul Palatino, che denota peraltro una propensione alla integrazione attraverso strumenti destinati a federare realtà distinte. Esemplarmente significative appaiono le due leghe, quella dei Triginta populi Albenses, e quella del Septimontium, che inseriscono le capanne del Palatino in una più ampia dinamica di rapporti e di alleanze.
Se guardiamo alla leggenda, un tratto caratterizzante la originaria identità romana è certamente l’aspetto etnicamente misto della società. È ben nota la vicenda, che ripercorriamo qui attraverso le parole di Tito Livio e di Dionigi di Alicarnasso. Il popolo latino deriverebbe dalla fusione degli Aborigeni con i Troiani. Albalonga, la cui popolazione verrà deportata a Roma e ne costituirà parte integrante della cittadinanza, sarebbe stata fondata da Ascanio, figlio dell’eroe troiano Enea, insieme con espatriati da Lavinio, città la cui origine etnica sarebbe frutto della mescolanza fra Aborigeni e Troiani. E infine lo stesso Romolo discenderebbe per parte di madre da Ascanio o dal suo fratellastro Silvio e quindi dallo “straniero” (advena) Enea. […]
Come se non bastasse il ricordo di questa antica mescolanza di genti a fondamento di Roma, l’origine del popolo romano è ricondotta anche ad un’altra fusione fra diversi: uomini latini, sodali di Romolo, e donne sabine. La storia è troppo nota per necessitare di venire riassunta, è utile tuttavia ricordare come, stando a Livio, al ratto delle sabine sarebbe seguita una significativa immigrazione in Roma principalmente da parte dei “genitori” e dei “parenti” delle donne rapite. […]
L’immagine che un popolo ha di sé è certamente importante per definirne lo spirito e i tratti culturali. Roma appare e si sente quindi una comunità tendenzialmente aperta, etnicamente mista, nata dalla commistione di popoli diversi. Esemplarmente significativa di questo sentimento è la definizione che Quinto Cicerone dà di Roma nel suo Commentariolum petitionis, indirizzato al fratello Marco nel 64 a.C.: civitas ex nationum conventu constituta, ove peraltro il riferimento è con ogni probabilità alle nationes italiche. […]
Sotto questo aspetto appare subito netta la differenza rispetto al sentimento che altri popoli antichi avevano delle proprie origini, in primo luogo rispetto a ciò che i Greci pensavano di sé. […]
Ben nota è l’interrogazione che si chiedeva ai giovani ateniesi all’entrata nella maggiore età, prima di immetterli in un demos: “chi è tuo padre e di quale demos è? Chi è il padre di tuo padre? Chi è tua madre? E chi è il padre di tua madre e di quale demos è?.
Non casualmente il principio di trasmissione della cittadinanza era ereditario. […]
Il tema era ben chiaro anche all’imperatore Claudio e a Tacito: quid aliud exitio Lacedaemoniis et Atheniensibus fuit, quamquam armis pollerent, nisi quod victos pro alienigenis arcebant?, cos’altro fu di rovina a Spartani e Ateniesi se non il fatto che essi per quanto prevalessero militarmente trattavano i vinti come stranieri?
I Greci, a differenza dei Romani, si consideravano una etnia pura, senza mescolanze con altri popoli, autoctona, e tali volevano rimanere.»