
A ben guardare, però, nel sistema francese è possibile individuare retaggi del passato, mentre in quello austriaco emergono elementi avanzati che hanno indotto a riconsiderare giudizi un po’ affrettati. Certo, lo spirito del Code Napoléon (che vide addirittura la partecipazione del Primo Console Bonaparte alla redazione delle norme), aboliva i privilegi cetuali, esaltava la libertà individuale e fissava l’uguaglianza successoria tra figli maschie e femmine, ma organizzò la famiglia su base gerarchica e verticistica assegnando alla donna coniugata un ruolo subordinato.
Da questo punto di vista, alcuni articoli sono esemplari, come l’art. 213, che stabiliva il dovere di protezione del marito e l’obbedienza da parte della moglie, poi obbligata, in base all’art. 215, a seguire il coniuge ovunque egli avesse deciso di risiedere. Per quanto riguarda i figli minori l’esercizio della patria podestà spettava al solo capofamiglia (art. 373), in tema di adulterio della moglie il marito poteva chiedere il divorzio (art. 229), mentre la moglie poteva ricorrervi solo se il coniuge avesse introdotto nella casa comune una concubina (art. 230).
La disparità di trattamento era naturalmente evidente in materia patrimoniale: in virtù dell’art. 217 la moglie per poter donare, ipotecare e acquistare immobili aveva bisogno del consenso scritto del coniuge (la famosa autorizzazione maritale). Il marito, per il regime della comunione dei beni introdotto dal Code Napoléon che non produceva vantaggi per la donna, poteva vendere, alienare e ipotecare liberamente i beni familiari e ancora a lui spettava la gestione dei beni della sposa, il cui assenso era dovuto da questa solo per la vendita dei beni immobili. Va da sé che l’ampia libertà riconosciuta al capofamiglia significò in molti casi una gestione dissennata, uno sperpero di ingenti patrimoni da parte di mariti dissoluti e ovviamente la fine del matrimonio.
Questo impianto venne fatto proprio dal Codice civile italiano, il cosiddetto codice Pisanelli varato nel 1865 tra svariate difficoltà perché non tutti i giuristi furono concordi nel ridurre i diritti delle donne. Tuttavia, fu il Senato a vincere la partita e a peggiorare il progetto, che in termini pratici significò per le italiane appartenenti alla nascente nazione una limitazione della libertà nella gestione dei propri beni, ma anche nell’azione. Per esempio era necessaria l’autorizzazione maritale (o quella del padre se minorenne) per svolgere determinate attività filantropiche, per iscriversi a un corso di infermiera volontaria della Croce rossa italiana e naturalmente per frequentare le logge massoniche miste, che cominciavano ad apparire sulla spinta del Gran Maestro Giuseppe Garibaldi.
Il Regno d’Italia si avviò così a dar vita a un sistema patriarcale sulla scorta di norme giuridiche che, rifacendosi a un presunto ordine naturale, stabiliva una gerarchia tra i generi in grado di riflettersi nelle famiglie e in tutti gli ambiti della vita degli individui, uomini o donne che fossero. Furono lo sviluppo industriale, la diffusione dell’istruzione femminile, il maggiore accesso delle donne al mondo del lavoro e della cultura, le battaglie del femminismo e poi il primo conflitto mondiale a modificare il senso comune e ad accrescere la consapevolezza nell’immediato dopoguerra che le italiane meritassero un sostanziale cambiamento.
Come era regolato il lavoro femminile prima della legge Sacchi?
La cosiddetta legge Sacchi del 17 luglio 1919, n. 1176, intitolata Disposizioni sulla capacità giuridica della donna, più che al lavoro delle donne in generale guardava all’esercizio delle professioni e agli impieghi nel settore pubblico dove si indirizzavano, o cercavano di indirizzarsi, le donne appartenenti al ceto medio in possesso di un titolo di studio superiore o di una laurea. Restava fuori da questa normativa il lavoro femminile svolto nelle fabbriche e quello domestico, il lavoro a domicilio e quello artigianale tra cui le numerosissime sartorie, ovvero, tutti quei settori dove affluivano in modo determinante donne giovani e meno giovani, comprese le bambine (le cosiddette piscinine), senza istruzione, provenienti dal popolo e dalla campagna. Vale a dire, una manodopera non qualificata che di norma percepiva la metà del salario degli uomini e non usufruiva di tutele.
La legge varata il 19 giugno 1902, n. 242, aveva tentato di regolamentare il lavoro notturno per donne e bambini, ma tenne maggiormente conto degli interessi degli imprenditori, scontentò i socialisti che l’avevano voluta e fu criticata da femministe come Anna Maria Mozzoni, la quale rigettò l’idea di tutela implicita nella misura il cui scopo era quello di espellere la manodopera femminile dai settori considerati ormai non più trainanti. Accanto alle operaie vi erano poi decine di migliaia di maestre e di insegnanti, di telegrafiste e di telefoniste sulle cui vicende alcuni saggi contenuti nel volume si soffermano guardando al ruolo giocato dallo Stato in quanto datore di lavoro. Si è trattato di ambiti importanti che fra Otto e Novecento assorbirono una fetta importante di giovani formate alla scuola pubblica, caratterizzati da una normativa assai diversa per ciascun settore e comunque penalizzante l’offerta femminile nel mondo lavorativo.
In che modo la cosiddetta legge Sacchi intervenne sull’istituto dell’autorizzazione maritale?
Furono sostanzialmente due gli aspetti della legge Sacchi che andarono a regolare e per certi versi a cambiare la vita delle donne: abolendo gli artt. 134, 135, 136 e 137 del Codice civile italiano si cancellava l’istituto dell’autorizzazione maritale migliorando la condizione delle donne maritate; introducendo l’art. 7 si ammettevano le donne “a pari titolo degli uomini a esercitare tutte le professioni e a coprire tutti gli impieghi pubblici”.
Ripeto, questa legge fu il frutto delle battaglie delle donne e frutto dei tempi, cioè, del prendere atto che durante la guerra anche le donne avevano fatto la loro parte dimostrando di non essere soggetti da proteggere, come le norme avevano fin lì stabilito. La loro partecipazione al cosiddetto fronte interno scavalcò nei fatti gli articoli che limitavano l’azione femminile, un’azione che doveva tener conto anche dei 650 mila soldati caduti, i quali lasciarono orfane e vedove nella necessità di provvedere a se stesse. Fu calcolato, tra l’altro, che molte giovani non avrebbero potuto costruirsi una famiglia per la strage di uomini e anche a loro il legislatore guardò. Tuttavia, la legge Sacchi fu anche l’unico provvedimento che le donne riuscirono ad ottenere tra le tante richieste avanzate fin dal 1861. Dunque, venne riconosciuto loro un po’ poco, diciamolo pure.
In che modo il successivo regolamento attuativo restrinse la portata innovativa della norma?
Per quanto detto finora, si può immaginare il fervore e le aspettative che la legge Sacchi produsse tra le donne, le quali vedevano finalmente riconosciuto il loro essere cittadine attraverso il pieno accesso al mondo del lavoro: professioni, università, dirigenza nella scuola, nei musei e nelle biblioteche, nei ruoli importanti dello Stato e via dicendo. Certo, mancava il diritto di voto ma in Parlamento vi erano progetti in discussione e anche quest’altra annosa richiesta sembrava dover giungere in porto. Bastarono però 6 mesi, il tempo di varare il regolamento attuativo che stabiliva alcune limitazioni all’art. 7 della legge Sacchi, per procurare un’ondata di delusione e di rabbia femminile. L’elenco delle esclusioni previste dal regolamento andava oltre ogni immaginazione e l’indignazione fu enorme. Nel frattempo, nelle amministrazioni pubbliche si continuava a indire concorsi per facilitare, a parità di punteggio tra candidate e candidati, l’ingresso dei reduci di guerra….
In quale contesto internazionale si inserì l’intervento normativo italiano?
Intanto c’è da dire che il Regno Unito si era mostrato più aperto e caratterizzato dalla presenza di un movimento delle donne più forte e ascoltato. Fin dagli anni Cinquanta dell’Ottocento, infatti, c’era stata una mobilitazione contro la legge che limitava alle coniugate la disponibilità dei propri guadagni, delle finanze e delle proprietà. Una mobilitazione che nel 1870 vide per le salariate il riconoscimento di disporre liberamente quanto percepito col proprio lavoro. Successivamente, nel 1882, il Married Women’s Property Act stabilì l’autonomia della donna sposata in tema di gestione del proprio patrimonio e la stessa responsabilità del padre e della madre verso i figli.
Per quanto riguarda la Germania, l’eliminazione dell’autorizzazione maritale dal Bürgerliches Gesetzbuch (BGB) avvenne nel 1900, mentre in Francia le cose furono complicate al pari dell’Italia, nonostante la presenza di un movimento femminista assai vivace e articolato. Piccoli correttivi al Codice francese vennero nel frattempo introdotti, ma solo nel 1938 fu abolito l’art. 213, che come si è visto fissava l’obbligo di obbedienza al marito, e fu riformato l’art. 215 sancendo la piena capacità della moglie, anche se il marito continuava a gestire i beni comuni e restava il capo della famiglia. Solo con la legge del luglio 1965 fu stabilita la piena capacità della donna sposata e il principio dell’uguaglianza tra i coniugi.
Vale la pena di rilevare, che sia in Italia che in Francia il suffragio femminile venne concesso alla fine della seconda guerra mondiale; l’accesso alla magistratura, altro baluardo del potere patriarcale, le francesi l’ottennero nel 1946, invece le italiane dovettero aspettare il 1963. Comunque, a passi da gigante ci si avvicinava verso una fase di cambiamenti epocali: sotto la spinta di un movimento femminista impegnato a migliorare la condizione delle donne furono poco alla volta rimossi costrizioni e divieti e introdotte norme per l’uguaglianza, per il divorzio, la parità in materia di lavoro e nella famiglia, per l’ammissione nella Polizia di Stato, oltre alle leggi sull’aborto, sull’abolizione del delitto d’onore e sulla violenza contro le donne. Ma come si usa dire, questa è un’altra storia, un po’ più esaltante seppure non priva di ombre e di contraddizioni.
Stefania Bartoloni insegna Storia contemporanea e Storia delle donne e di genere in età contemporanea presso l’Università degli Studi Roma Tre. Tra le sue recenti pubblicazioni Donne di fronte alla guerra. Pace, diritti e democrazia, 1878-1918 (Laterza, 2017) e la curatela di Attraversando il tempo. Centoventi anni dell’Unione femminile nazionale, 1899-2019 (Viella, 2019); più volte premiato il suo Italiane alla guerra. L’assistenza ai feriti 1915-1918 (Marsilio 2003). Socia fondatrice della Società italiane delle storiche, è nella redazione delle riviste Genesis e Mondo contemporaneo.