
Ne emerge un ritratto niente affatto agiografico che sa tuttavia cogliere l’unicità del suo sguardo, uno sguardo che «non ha subito oltraggi dal tempo. Non si è appannato, nulla lo oscura.» Perennemente squattrinato (tanto da scandire il tempo «da una scadenza di cambiali a un insperato afflusso di denaro») e votato alla malasorte, il guignon; un uomo posto all’acme di una liturgia nascente, il culto dell’arte, che pretendeva lo scrittore «capro espiatorio dell’umanità» (secondo le parole di Kafka): «Il ciclo dello scrittore come capro espiatorio si era aperto con Hölderlin, culminava con Baudelaire-Poe e si sarebbe chiuso con Artaud.» Oggi, «gli ultimi maledetti non sono più scrittori ma astri del rock».
La sua opera più nota, le Fleurs du mal fu subito condannata «per oscenità dal Tribunale» mentre Flaubert, portato in tribunale negli stessi mesi per Madame Bovary, veniva assolto. Eppure Baudelaire rivendicava «come imprescindibile «il diritto di andarsene». Anche se quel diritto non è stato mai inserito nella lunga lista dei diritti umani, sarebbe l’unica via d’uscita dalla coazione a subire la sorte della vittima espiatoria.»
Uno scrittore refrattario ad «ogni sistematicità», capace anche di avventurarsi nella definizione del Bello, sulla scorta di Stendhal che vi vide una «promessa della felicità». «L’unica dottrina che riaffiora costantemente in tutta la sua opera […] è quella dell’analogia universale.» Un Baudelaire che ci sfida sin dalla citazione posta in esergo al pamphlet: «Io chiedo a ogni uomo che pensa di mostrarmi ciò che sussiste della vita.»