
Il cinema e gli audiovisivi non hanno però solo una portata economica, ovviamente, ma soprattutto culturale. Il cinema hollywoodiano ha esportato l’American way of life ovunque, nel mondo, e il cinema contribuisce a forgiare l’immagine che all’estero si ha del nostro Paese. Si pensi al cosiddetto “cine-turismo”, ovvero a quel turismo in qualche modo costruito o stimolato anche grazie e attraverso un immaginario cinematografico o seriale. Da questo punto di vista la portata del cinema e degli audiovisivi è molto più grande di quanto non si immagini, sebbene difficilmente “misurabile” in modo scientifico. Per ripartire, col turismo post-Covid, penso che questo sia un elemento da tenere in considerazione. E poi ovviamente l’immaginario e la rappresentazione cinematografica è legata a tutto il resto dell’Italia, appunto alla moda, al design, alla gastronomia…
Quali dimensioni assume la circolazione internazionale del cinema italiano contemporaneo?
Se guardiamo al cinema italiano contemporaneo, ovvero agli anni Duemila e in particolare agli ultimi dieci anni, possiamo notare luci e ombre. Ci sono fenomeni e percorsi certamente interessanti, penso per esempio, in primo luogo, al caso di Luca Guadagnino, che oggi è forse il più capace a confezionare un’immagine dell’Italia che piace molto all’estero. SI pensi che il suo film “Io sono l’Amore” (che è in copertina del nostro libro) ha avuto un successo più ampio negli Stati Uniti che in Italia. Ma il quadro complessivo è anche ricco di problemi. L’Italia è il quarto Paese europeo, dopo Francia, Gran Bretagna e Germania, per numero di film esportati, ma se poi si considera il successo di questi film (ovvero quanto sono effettivamente visti dal pubblico) il risultato è un po’ deludente, e siamo sorpassati per esempio dalla Spagna. Senza confrontarci con la Gran Bretagna, che ha il vantaggio della lingua e un rapporto privilegiato, in termini di co-produzioni, con gli USA, la Francia ha molto più successo di noi, e l’identità del cinema francese all’estero è più a fuoco di quella italiana, che, fuori dall’Europa, tende a scolorire nel calderone del “cinema europeo” se non del “cinema arthouse”, di un certo cinema d’autore. Dunque c’è molto da fare dal punto di vista di una migliore promozione del cinema nazionale, e, più ampiamente, di una “messa a fuoco” dell’identità del cinema italiano contemporaneo.
Quali punti di forza e debolezze del cinema italiano ha contribuito a evidenziare la circolazione internazionale dei suoi film?
I punti di forza del cinema italiano contemporaneo, visti dall’estero, possono essere vari. Il primo è più importante è che siamo seduti sulle spalle di giganti, ovvero molto del grande cinema italiano del Dopoguerra (di cui abbiamo detto qualcosa poco fa) che ancora viene ricordato e riconosciuto. Questo fatto rappresenta una potenzialità ma anche un limite. Certamente quando all’estero guardano “Lazzaro Felice” di Alice Rohrwacher i critici ricordano un certo “realismo magico” che riportano a Fellini. Si tratta anche di un limite perché il rischio è che il cinema italiano venga pre-etichettato in un certo modo, e quel che sfugge venga poco compreso e valorizzato. I punti di debolezza veri e propri sono invece molti. A cominciare dal fatto che si producono mediamente troppi film, che i contributi, anche pubblici, ai film sono molto frammentati per questa ragione, che ci si cura della produzione ma molto meno degli step successivi, quali la promozione (anche all’estero) e il marketing. Insomma, i film non vanno solo realizzati, vanno fatti crescere, accompagnati a incontrare un pubblico, e questo vale anche per il contesto internazionale. Anche da questo punto di vista si può fare di più e meglio, sempre tenendo conto che non si tratta semplicemente di un ritorno economico diretto. Si tratta di veicolare all’estero un’idea di Italia attraverso una forma di narrazione che può raggiungere potenzialmente larghi pubblici.
Quali politiche sono state sviluppate a sostegno dell’export cinematografico?
Recentemente, in particolare nell’ultima legge voluta dal ministro Franceschini, si è iniziato a muovere un interesse nei confronti della distribuzione internazionale e della internazionalizzazione. Nel libro un capitolo (scritto da Marco Cucco) analizza in dettaglio tutte le politiche di sostegno all’esportazione. Se ne evince certamente un nuovo interesse, ma anche una certa frammentazione. Il rischio è ogni soggetto (dal Ministero a organismi come Istituto Luce Cinecittà) si muova da solo senza un vero coordinamento. Questo non aiuta a fare sempre le scelte migliori.
Quali sono i paesi maggiormente attratti dai nostri prodotti audiovisivi?
Il tema dei luoghi di destinazione del nostro cinema è cruciale, perché prodotti cinematografici diversi sono valorizzati in modo differente a seconda dei Paesi. Per esempio, la Francia è un territorio tradizionale di destinazione del nostro cinema, per varie ragioni, per un’ovvia vicinanza culturale, ma anche perché la Francia, con la sua rete di sale, è quella che valorizza di più il nostro cinema più esportato, quello d’autore. E poi, le coproduzioni – ancora troppo poche – sono fatte spesso con la Francia. La nostra capacità di penetrare nei Paesi anglosassoni è invece più limitata: in Gran Bretagna e ancor più negli USA il circuito delle sale cosiddette “arthouse” sono in crisi, e questo finisce per avere conseguenze anche sulla nostra capacità di esportazione. Però ci sono alcuni autori che funzionano molto bene: per esempio ancora Guadagnino, che si è fatto artefice di un’operazione di grande successo, un’importante co-produzione internazionale con un centro tematico e d’immaginario però molto italiano, e sto parlando di “Chiamami col tuo nome”. Poi ci sono Paesi che premiano il nostro cinema per vicinanza linguistico-culturale: ovviamente la Svizzera, coi cantoni “italiani”, ma anche la Spagna, la Grecia o il Portogallo, in somma i Paesi mediterranei. Qui anche un genere tipicamente “domestico” come la commedia riesce ad avere una discreta circolazione.
Quali strade inedite prende oggi l’audiovisivo italiano grazie al successo della serialità nazionale?
La serialità rappresenta la grande novità degli ultimi dieci anni. Il cinema percorre strade più tradizionali, riesce a “viaggiare” soprattutto se accede ai riflettori di Festival e Premi, grazie a una “economia del prestigio”. Per la serialità siamo di fronte a tutta un’altra filiera, nonostante la continuità produttivo-linguistica (in alcuni casi) col cinema. Da dieci anni una parte importante della serialità italiana si è data ambizioni internazionali. Si tratta del frutto di una evoluzione dell’industria televisiva: dal 2008 la pay tv (Sky per l’Italia) ha investito su prodotti dall’ambizione internazionale, proprio pensando a una circolazione più ampia, a pubblici più ricercati ma presenti in ogni paese. Poi è stata la volta delle grandi co-produzioni: si pensi a “The Young Pope” e poi “The New Pope”, o a “L’amica geniale”, solo per citare due titoli. Sono due co-produzioni con l’americana HBO. Siamo qui in una partita molto diversa, seppure in qualche modo collegata: Paolo Sorrentino diventa il catalizzatore di grandi risorse proprio a partire dalla fama internazionale raggiunta con l’Oscar a “La grande bellezza”. Il suo nome porta così ad accedere a star internazionali, come Jude Law. Si tratta di prodotti dalla fattura internazionale, con un “cuore” però molto italiano, sia nel caso di “L’Amica geniale” (lì il punto d’origine è stato il successo internazionale dei libri di Elena Ferrante), che nel caso del racconto che Sorrentino fa del Vaticano. Insomma, ci sono grandi potenzialità, resa ancora più centrale dall’affermazione delle piattaforme di streaming on-line. Prima della loro nascita, un film doveva guadagnarsi l’uscita internazionale mercato per mercato. Ora, almeno potenzialmente, un film o una serie italiana hanno accesso immediato a oltre un centinaio di Paesi (dove, per esempio, sono presenti Netflix o Amazon Video). Insomma, ci sono rischi, ma anche grandi opportunità di poter raccontare meglio e più ampiamente non solo delle storie, ma l’Italia. Io sono moderatamente ottimista, anche se l’industria – soprattutto quella del cinema – dovrebbe affrancarsi da un certo provincialismo – fatto di progetti poco ambiziosi, mirati solo a raccogliere finanziamenti pubblici – e darsi una struttura più industriale, attenta a tutte le fasi della filiera, dalla produzione alla distribuzione e alla promozione.
Massimo Scaglioni è Professore Ordinario di Storia ed Economia dei media presso il Dipartimento di Scienze della Comunicazione e dello Spettacolo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore