
Nel libro li definisco due fratelli gemelli. Sono nati entrambi sotto lo stesso tetto, quello della società di massa, e nella stessa epoca, la civiltà industriale. Tra loro la somiglianza è evidente: cinema e pubblicità sono, allo stesso tempo, sia merce sia linguaggio espressivo. Il che del resto riguarda tutta quella, diciamo così, nidiata linguistica: dal fumetto alla radio, dal giornalismo alla tv, giusto per citare i primi che vengono alla mente. Nessuno tra questi linguaggi esiste come atto espressivo puro, tutti sono legati a una fruizione di massa oltre che a un mercato. Non a caso il critico cinematografico francese André Bazin scrisse che il cinema è un’arte “funzionale”: proprio perché il film non può prescindere da un pubblico, anche futuro, anche solo potenziale, e lo stesso può essere detto di tutti gli altri “fratelli”. Tanto più per la pubblicità. Ma mi permetto di estendere la vostra domanda anche al sottotitolo: perché è possibile definire sorprendente questa relazione? Per dare un’idea, e ricorrendo a un’altra metafora, è come per i tipici lavori in corso nel centro di Roma. Si dice che a ogni buco nella città eterna arriva un ritrovamento archeologico. Ecco, esplorando la relazione tra cinema e pubblicità si resta sopraffatti dalla facilità con cui emerge una grande quantità d’intrecci reciproci, e a stupire è anche quanto tutto questo, di norma, rimanga sommerso, nel silenzio e privo di analisi. Del resto, come cerco di spiegare nell’introduzione, il motivo per cui questo legame è rimosso dalla cultura ufficiale è proprio uno degli aspetti che più mi ha attirato. Il fatto è che nel nostro modo di guardare al moderno ci sono molti riflessi di epoche passate. Spesso per esempio collochiamo il cinema nella categoria dell’arte pura e intangibile, consacrandolo in un’aura romantico-letteraria che non ha riscontro nella realtà, come se il grande schermo non avesse niente a che fare con il volgare mondo del mercato, figuriamoci con quello della pubblicità. Mi sembra invece che portare alla luce e raccontare gli intrecci tra questi due linguaggi faccia emergere una rappresentazione molto più veritiera e appassionante di un universo di storie e di simboli che riguarda l’esperienza comune di ciascuno di noi. Il che non priva d’incanto, stupore ed emozione le invenzioni del cinema o della pubblicità. Capire non guasta la festa: semmai, ci restituisce in modo più fedele l’ambiente che ha originato quelle creazioni, ed esalta le capacità che gli autori hanno avuto di rispondere agli stimoli.
Quando nasce il rapporto tra cinema e pubblicità?
Con il primo fotogramma! L’atto di nascita è già contenuto in quello che è considerato il film iniziale della storia del cinema, che si chiama L’uscita dalle Fabbriche Lumière, del 1895. Come vedete, il titolo contiene un cognome, anzi un marchio. Spesso lo dimentichiamo ma Auguste e Louis non erano certo, né volevano esserlo, due registi, così per come li intendiamo oggi. I fratelli Lumière erano piuttosto due imprenditori, proprietari a Lione della più importante fabbrica di lastre fotografiche in Europa. E, come uomini d’azienda, erano anche dediti all’innovazione, alla creazione di nuovo valore. Il cinematografo del resto è stato una creazione tecnologica collettiva, alla quale contribuirono molti scienziati imprenditori che, nello stesso momento e in diversi punti del mondo, competevano per realizzare quella che allora era evocata come la “fotografia in movimento”. Perciò, quando i due francesi completano la loro invenzione, e organizzano la prima proiezione, sulle pareti del caffè parigino non portano una scenetta buffa o un balletto elegante. Per prima cosa parlano della loro attività, e mettono il loro marchio davanti a tutto, fin dal titolo: la fabbrica Lumière. In quel momento è come dire Apple o Ford. È il nome di una grande azienda. Insomma, firmano pubblicamente la loro invenzione. Perciò la scena proiettata da questo primissimo film è quotidiana, quasi un documento aziendale: ciò che si vede è semplicemente l’apertura dei cancelli e l’uscita delle maestranze. L’intenzione pubblicitaria è dichiarata: legare l’invenzione del cinema alla loro marca. Non a caso uno dei più grandi storici del cinema, George Sadoul, definisce L’uscita dalle Fabbriche Lumière proprio “una forma di pubblicità”. Qui siamo davvero nel cuore della modernità, in un’epoca che unisce industria e spettacolo. A conferma di tutto questo c’è l’influsso cruciale del padre dei due, Antoine Lumière, il quale – come ricostruisco nel libro – da giovane fu pittore d’insegne, come dire la versione primordiale delle affissioni pubblicitarie che ai giorni nostri sono stampate in grandi formati. Un vero “creativo” moderno, un proto-pubblicitario orientato al linguaggio pubblico e al mercato, il quale determinò la formazione e l’attitudine dei figli verso l’intrattenimento di massa. Subito dopo verranno i veri e propri filmati pubblicitari realizzati dai due fratelli per le aziende come quello per il sapone Sunlight, quelle filmate da Thomas Edison come Admiral Cigarettes o le scenette pubblicitarie realizzate da Méliès… ma la lista è lunga.
Quali forme ha assunto nel corso del tempo il rapporto tra cinema e pubblicità?
Tantissime. Mi pare invece che finora la critica abbia parlato di questo rapporto minimizzandone l’entità, e utilizzando quello che ho definito una sorta di pendolo. Per esempio parlando di una “pubblicità per il cinema”, quella cioè che riguarda le campagne di lancio dei film o i suoi manifesti, ma anche di un “cinema per la pubblicità”, quello dei cineasti che firmano spot, oppure ancora di una “pubblicità nel cinema”, come nel caso del product placement, e via dicendo. Tutte queste oscillazioni, però, non sono che rappresentazioni di due mondi separati, e corrispondono proprio allo schema di cui parlavamo prima, che mantiene da un lato l’arte, e dunque il cinema, e dall’altro l’universo commerciale delle merci, cioè la pubblicità. Una visione scissa. È la manifestazione tipica di una cultura che purtroppo, invece di favorire la comprensione del mondo e farsi strumento di cambiamento, tende spesso a difenderci dalle sue verità, demonizzando gli aspetti materiali del moderno e cullandoci in narrazioni consolatorie. Se però si riflette sulla centralità del linguaggio pubblico nella nostra esperienza quotidiana – e basti pensare all’importanza assunta dal mondo della comunicazione – si capisce quanto sia importante conoscerlo per quello che è, anche per meglio comprendere anche la natura del nostro coinvolgimento. È questo il motivo per cui ho cercato di scrivere il libro con un linguaggio accessibile – molto più di quello che uso in questa mia intervista! – proprio per corrispondere all’esperienza di tutti noi, nessuno escluso, davanti a tv, cinema, radio, pubblicità, insomma davanti al linguaggio pubblico, che è quotidiana. Ciò che insomma mi sono proposto con il mio libro è di fare a meno di quel pendolo e di portare a ogni lettore una storia integra e autentica che, di fatto, gli appartiene ogni giorno.
Quali considera gli esempi più riusciti del connubio tra i due linguaggi?
Ci sarebbe molto da raccontare. Trovo straordinario per esempio il modo in cui l’olimpo professionale del cinema si è composto proprio attraverso la pubblicità. Il primo grande regista della storia, Griffith, stabilì la sua supremazia innovativa con una campagna pubblicitaria realizzata da lui stesso. Oggi sappiamo che diverse idee tecniche erano state realizzate anche da altri registi, ma i critici del tempo presero per buoni i suoi proclami e lo incoronarono come unico e incontrastato creatore del linguaggio cinematografico. E dire questo, precisiamolo, non nega il valore dei suoi capolavori, ma restituisce una visione più fedele di quell’Hollywood oltre che, aggiungo, anche di quella attuale. Anche i divi però nascono grazie alla pubblicità. All’inizio erano solo volti. La prima diva del cinema, Florence Lawrence, nasce nel 1910 con una campagna creata dal proprio produttore, il quale inventò la notizia della morte dell’attrice dal volto noto al solo fine di smentirla pubblicamente con un annuncio, dichiarandone il nome e annunciando il nuovo film che la vedeva protagonista. Ma gli intrecci come dicevo sono infiniti, arrivano fino all’esplosione del franchise Star Wars o Marvel. E comprendono naturalmente anche film sulla pubblicità. Mi limito qui a citare un film di grande importanza storica, uscito nel 2012 e firmato dal cileno Pablo Larrain: “No-I giorni dell’arcobaleno”. Si tratta della prima pellicola in assoluto nella quale il pubblicitario è un eroe democratico. È la storia vera della campagna referendaria che nel 1988 restituì il Cile alla democrazia moderna, sconfiggendo il fronte del generale Pinochet e convincendo la maggioranza degli elettori a scegliere il cambiamento. Nel corso del film assistiamo, si potrebbe dire, a un vero e proprio backstage di quella campagna, al racconto di tutte le esitazioni e delle decisioni che la originarono. Il protagonista è il pubblicitario René Saavedra, il quale convinse il comitato promotore a sposare una campagna positiva, allegra, che per logo aveva un arcobaleno e si rivolgeva all’elettorato parlando come farebbe “la Coca-Cola”. Dal punto di vista strategico, la vitalità di quella campagna rispondeva agli spettri agitati dal regime, che paventava, in caso di vittoria del fronte democratico, l’avvento di un pauperismo di sinistra grigio e privo di benessere. Dal punto di vista culturale, però, siamo di fronte a un oggetto perfettamente straniante: la democrazia vince e si afferma proprio grazie a quel linguaggio che spesso è considerato un suo nemico. Il film di Larrain è un evento fondamentale proprio per questa sua capacità di sollecitare una presa di posizione davanti al senso del linguaggio pubblico. Né va dimenticato, giusto per dare un’idea dell’intreccio, che l’autore del film è a sua volta un produttore di spot pubblicitari e conosce molto bene la materia.
Quali registi e autori si sono scagliati contro la pubblicità nel cinema?
Ci sono stati diversi passaggi storici. Dopo la seconda guerra mondiale, per esempio, le preoccupate analisi sul ruolo dell’industria culturale concepite dalla Scuola di Francoforte sono state tradotte in chiave narrativa da firme come Billy Wilder o in Fritz Lang. Il sessantotto invece si è tradotto in prese di posizione radicali con Bertolucci o Godard, ma anche in Aldrich, mentre il movimento “No Logo”, che si è contrapposto negli anni novanta agli eccessi della globalizzazione, può essere rintracciato in documentari come Supersize me, il cui autore decide di nutrirsi solo da Mc Donald, e più in filigrana in film usciti sulla soglia del nuovo millennio come Ed Tv oppure The Truman Show, che raccontano la pervasività del mercato e dei suoi simboli. Trovo esemplare il caso di Lars Von Trier, il quale ha sempre esibito un’avversione viscerale nei confronti della pubblicità incorrendo però in uno degli errori più gravi e tipici: la sottovalutazione del nemico. Curiosamente, infatti, l’avversione del cinema contro la pubblicità ha sofferto spesso di analisi piuttosto superficiali, e anche questa è in fondo una spia di quella distanza dalla cultura materiale di cui parlavo. È un’altra vicenda che mi è piaciuto molto ricostruire.
Giuseppe Mazza ha lavorato in Saatchi & Saatchi e in Lowe Pirella. Nel 2008 ha fondato Tita, la sua agenzia, e nel 2011 Bill, il magazine che ragiona di pubblicità. Collaboratore del Venerdì di Repubblica, insegna alla Scuola Holden e all’Università IULM. Prima di Cinema e Pubblicità (2019), ha curato la pubblicazione di Bernbach pubblicitario umanista (2014) e Cose vere scritte bene (2016). Ha vinto premi nazionali e internazionali. Premio Pirella 2019 – comunicatore dell’anno.