
Eppure, se si ha la pazienza di seguire gli intricati giochi delle corrispondenze, delle derivazioni e delle allegazioni restituiti dai testi del diritto comune (ius commune) dell’Europa premoderna, si scopre un antico e frastagliato paesaggio. Basta dare un’occhiata a uno dei tanti repertori che nel tardo Cinquecento si conservavano nelle biblioteche professionali dei giureconsulti. Le loro pagine segnalano come tradizionalmente nella civiltà occidentale il cibo sia stato uno dei campi più vivo e ricco di problematiche giuridiche. Dalle voci cibus e cibaria, insieme ad altre ad esse associabili, esce una messe straordinaria di informazioni da cui si ricava una precisa grammatica che ha regolato per secoli il discorso “pubblico” sull’alimentazione.
L’efficacia di un simile sfondo teorico e delle discussioni che suscita è naturalmente legata al quadro economico e sociale e alla “iconologia” religiosa di cui questa lunga cultura giuridica è espressione, tuttavia può essere “di servizio” se ci si voglia confrontare con i più recenti interrogativi. Questa ricerca delle origini nasce dal proposito di volere meglio comprendere “ingredienti” e nuovi fermenti del dibattito attuale attraverso il confronto con una testualità antica, con il suo ordine di priorità, i suoi criteri di pertinenza, i suoi temi dominanti.
Su quali basi e con quali costruzioni argomentative questa secolare cultura giuridica ha prodotto un suo discorso sul cibo e sull’alimentazione?
La letteratura giuridica dell’Europa premoderna si offre al lettore prevalentemente come una lunga concatenazione di casi, citazioni e interpretazioni che si intrecciano, si ripetono, si confermano e si contrastano. Come detto, seguendo questi antichi itinerari è possibile risalire anche in relazione al cibo a un insieme coerente di argomenti, metafore e valori. Una trama normativa, fittissima e avvolgente, che ha diretto per secoli la vita del singolo e delle comunità e che ha prestato i parametri per la soluzione dei tanti possibili conflitti.
È importante però tenere presente che ci troviamo di fronte a un immaginario disciplinare completamente diverso da quello che ci è oggi familiare. Occorre distaccarsi dalla dimensione prettamente legalistica, storicamente trionfante nella età moderna e contemporanea. Viene infatti in considerazione un’epoca in cui il diritto positivo, cioè la volontà del potere, non pretende di determinare tutto e in via esclusiva. Accostarsi a queste fonti significa perciò immergersi in un contesto in cui il “giuridico” ha avuto contorni molto più ampi e ha presupposto un va e vieni continuo e rigorosissimo tra foro interno e foro esterno. Inoltre, sulla base della condivisa convinzione circa l’esistenza di un Dio creatore, il razionale non è ancora identificato con il dimostrabile o il logico, ed etica e religione non vengono relegate, come accadrà più avanti, solo alla sfera privata, ovvero alla decisione del soggetto, né sono pensate completamente separate dal diritto.
Quello che ritroviamo è quindi un processo di argomentazione giuridica che in quanto religiosamente (cristianamente) vocato è “sensibile alla verità”, ma che al tempo stesso — sembra quasi un paradosso, ne costituisce invece l’immediato riflesso — non conduce a una risposta data una volta per tutte, anche se implica la tesaurizzazione di alcuni schemi collaudati. Induce, infatti, il singolo giurista, o meglio ogni generazione di giuristi, a un nuovo affaticarsi. Senza trascurare l’ascolto (obbedienza) delle autorità passate, si trattava di volta in volta di individuare una ragione adeguata al di là di ogni soluzione data nell’arco dei secoli, e, nella ricerca di un’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva e nella necessità di aderire alla realtà e di trarre da essa suggerimenti, di attribuire all’“esperienza” un ruolo decisivo.
Fin tanto che continuò il sodalizio tra teologia e diritto fu questa la metodologia (occidentale) con cui per lo più si guardò giuridicamente alla vastità del mondo e al rapporto tra l’uomo e il cibo.
Quali aspirazioni e istanze normative furono sviluppate da questo sapere tecnico?
In un orizzonte in cui la fede non è limitata solo all’“anima”, senza alcun interesse per la dimensione sociale, e in cui il diritto non celebra ancora l’autonomia del singolo e la sua mera autoconservazione terrena, la letteratura etico-giuridica adotta un linguaggio e affronta una serie complessa di questioni che appaiono come le vestigia di un’altra epoca.
Non stupisce così che nel tentativo di definire giuridicamente cosa sia il cibo, ci si affidi alle regole della sobrietà e della carità e non si manchi di definirlo come tutto ciò che è in grado di rifocillare e sostentare il corpo per porre in essere atti virtuosi o che, assumendo come giuridico l’assioma cristiano della sua neutralità etica (non “cosa” si mangia ma “come” si mangia), non si cessi di ripetere contro ogni interdizione assoluta che non è la sua qualità o specie a dovere essere considerata motivo di colpa ma la disordinata bramosia umana.
Tra le pagine dei giuristi, specie dei canonisti, si discute ad esempio dell’obbligo di digiuno, elemento portante di un’impalcatura attraverso cui la società cattolica si è autorappresentata e riconosciuta per secoli e la cui casistica, basata originariamente su antichissime tradizioni mediche e religioso-rituali, si allarga e ingarbuglia via via che i viaggi e le “scoperte” restituiscono piante e animali sconosciuti, ci si confronta con costumi minimi o minori, o si fronteggiano nuove resistenze. Il problema dell’astinenza dal cibo, sotto il profilo giuridico, diventa in tal senso un problema-chiave, terreno d’elezione per affrontare questioni di primaria importanza quale il rapporto tra diritto divino-naturale e legge umana, fra lex mondana e legge della Chiesa, fra diritto comune e diritti particolari o ancora per indagare i gradi di responsabilità individuale.
In un mondo il cui principio ispiratore non era nemmeno idealmente quello dell’uomo senza aggettivi e dell’uguaglianza degli individui, i modelli alimentari sono poi, senza alcun imbarazzo, giuridicamente discussi e pensati all’interno di un ordine gerarchizzato e differenziato. Ciò che è bastante ed adeguato — si era soliti sostenere — poteva essere affermato solo in dipendenza dalle circostanze e dalle situazioni soggettive, avendo riguardo quindi anche dello status sociale. Trattandosi di cibo, così come di altre fondamentali questioni antropologiche, bisognava ragionare non solo sulla congruenza con i luoghi e i tempi, ma anche sulle persone coinvolte.
Anche per l’uomo di legge il contadino si distingueva dunque dall’aristocratico per ciò che mangiava. Della necessità di salvaguardare il diverso regime alimentare si sarebbe dovuto tenere conto ad esempio in una procedura esecutiva. Del resto, più in generale, imporre ad un nobile di alimentarsi come se fosse un plebeo non avrebbe significato solo forzare le irrinunciabili griglie sociali, ma anche attentare a una certa ideologia della “solidarietà civica” che contraddistingue in qualche misura la secolare società di ceto. La provvidenza divina non era infatti immaginata come cieca e capricciosa: le asimmetrie da essa voluta dovevano essere concepite come un mezzo con cui assicurare una precisa dinamica comunitaria e sollecitare in particolari circostanze opere di giustizie e di carità.
Quali sono le “domande di giustizia” che intese riconoscere e promuovere?
La storia del diritto dell’Occidente medievale e proto-moderno cristiano ci illustra alcuni modi con cui gli esseri umani, fuori dalla moderna prospettiva individualistica, hanno cercato un legame o al contrario rimarcato le distanze attraverso il cibo. Ci mostra infatti fino a che punto l’alimentazione è stato un collante culturale e sociale e fino a che punto la necessità di sfamarsi sia stato motivo sia di legittimazione di paure e rivalità antiche quanto di prescrizione della cooperazione e della condivisione anche con chi è più estraneo.
L’Europa premoderna non è certo un’Europa pacificata, in cui i rapporti di convivenza sono improntati a un cordiale e perfetto accordo. Con il suo mosaico di diversità e con il suo elevatissimo tasso di conflittualità, appare però, almeno sotto il profilo dell’imponente interazione tra ragione, morale e fede religiosa, molto più “integrata” rispetto alle società complesse contemporanee. Diritto e teologia promuovono ed esercitano con le loro valenze retoriche e comunicative e con il loro modello di conoscenza un effetto modellatore e stabilizzatore del suo immaginario, anche se rimangono naturalmente ampissimi gli scarti con le situazioni reali e le applicazioni pratiche possono essere anche estreme o opposte.
Rispetto al problema alimentare, la comunità interpretativa dei doctores, così raffinata e altamente tecnicizzata, si confronta con tematiche che sono sentite vive e presenti anche nella contemporaneità. A suo modo, è abituata a riconoscere che la soluzione delle singole dispute possa dipendere anche dalla incidenza e dalla significatività delle molteplici variabili spazio-temporali e dalle differenziazioni personali-cetuali: sensibilità da non sottovalutare in chi non ha ancora una precisa coscienza storicistica. Allo stesso tempo, non trascura di considerare quanto l’esperienza tragica della mancanza prolungata di cibo sia da intendersi universale e legittimante interventi e rimedi straordinari. Dicevo che lo fa ovviamente a suo modo, ovvero accettando la trama metafisica di una ben specifica visione del mondo e garantendo che sia evitato ogni arbitrario capovolgimento di valori, o che siano incluse istanze vane o stonate.
Il principio della caritas, nella sua estesa applicabilità, fornisce in tal senso un’esemplificazione assai nitida del funzionamento di questo “sistema” argomentativo. Esso viene fatto operare come un elemento motore di un insieme di relazioni e di composizione tra l’istanza del singolo e quella del gruppo. I vincoli da esso imposti come soffocano sul nascere alcune domande di giustizia, ne rendono possibile la formulazione di altre e indicano la migliore o più efficiente risposta. Di fronte all’estrema necessità di cibarsi, ad esempio, la prestazione caritatevole, in accordo con una percezione specificamente religiosa, serve a scandire necessarie precedenze. È concepita come dovuta (giuridicamente) in primo luogo a se stessi, in vista non già della strenua conservazione della vita fisica, ma di quella della propria salus animae. In secondo luogo, dà ragione di un sistema di scambi con coloro che appartengono alla propria più prossima comunità. Infine, in considerazione del livello di vicinanza di ciascuno a Dio, si estende anche agli estranei e persino a coloro che sono più ostili. Non affiorano ancora nei rapporti sociali dei vincoli ben definiti in riferimento a inoppugnabili diritti — diritto al cibo è ovviamente un sintagma completamente ignoto — tuttavia l’intreccio tra i due ordini di carità e necessità spinge a immaginare e organizzare l’adempimento di precisi doveri nei confronti di se stessi e degli altri quando si pone l’emergenza della sussistenza.
Riflessioni vicine dunque, ma anche lontane.