“Ciàula scopre la luna”: riassunto

La novella di Luigi Pirandello, uscita per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 29 dicembre 1912, appartiene al gruppo delle novelle di ambientazione siciliana tipica della letteratura verghiana, ma la distanza dal metodo di scrittura verista è abissale. Nel confronto (il più immediato è con la novella di Verga Rosso Malpelo), infatti, il giudizio dell’autore si sovrappone a quello popolare, smontando dall’interno la vicenda e mostrandone il lato più profondo, esposto al dolore.

Ciàula, un giovane emarginato, lavora in una cava di zolfo come manovale dell’anziano Zi’ Scarda. Una sera entrambi vengono costretti dal sorvegliante a scavare fino a tardi. Ciàula è abituato al buio della miniera, ma non a quello infinito del cielo notturno. Così, quando esce all’aperto can il carico sulle spalle, scopre con stupore che in alto brilla la luna.

Da un’attenta lettura del testo e dall’individuazione dei passaggi chiave possiamo rilevare in Ciàula scopre la luna le seguenti sequenze narrative:
righe 1-24: la richiesta di Cacciagallina di trattenersi al lavoro nella miniera durante la notte e il rifiuto di tutti i picconieri tranne Zi’ Scarda;
righe 25-56: la storia drammatica di Zi’ Scarda;
righe 57-79:la descrizione di Ciàula, caruso di Zi’ Scarda;
righe 80-139: la paura di Ciàula del buio della notte;
righe 140-163: il pesante carico sulla schiena di Ciàula e la risalita;
righe 164-183: lo stupore di Ciàula alla vista della luna che rischiara la notte.

Il mondo delle zolfare era radicato nei ricordi di Pirandello, per le miniere che il padre dirigeva e per la sua breve esperienza diretta, nel 1886, di tre mesi di amministrazione. Le gallerie buie percorse dalle vite bestiali dei carusi erano penetrate nel suo immaginario, portandosi dietro i germi di storie future. La conoscenza diretta di questo mondo s’incrocia con il ricordo della narrativa d’ambientazione siciliana di Verga e degli altri scrittori d’area verista. E in effetti l’attacco della novella ha il sapore e il ritmo di quelle scritture, come dimostrano la prevalenza del dialogo dal vivace andamento mimetico, le espressioni popolari, il ricorso al discorso indiretto libero e l’adozione di un punto di vista interno al mondo rappresentato. Un mondo fatto di soprusi e violenze, che segue la legge spietata del più forte e prevede che ogni vittima sia carnefice di un prossimo a sua volta più debole: Cacciagallina cerca inutilmente di trattenere i lavoratori della zolfara, ma riesce ad avere la meglio solo sul vecchio zi’ Scarda, che accetta le angherie del soprastante sapendo già che potrà rifarsi sul suo caruso Ciàula. La sequenza si chiude sulla smorfia del vecchio, segnale di quel procedimento di scomposizione umoristica che caratterizza la scrittura pirandelliana. Come in un quadro espressionista, il primo piano sul volto di zi’ Scarda ingrandisce i particolari, li stacca dall’insieme, li deforma stravolgendoli: di questo personaggio il lettore porterà impressa l’immagine di un labbro inferiore stiracchiato in un ghigno contorto, in cui si fissa sospeso per sempre il dolore atavico del debole schiacciato dal più forte.

Il passaggio dalla prima (rr. 1-26) alla seconda sequenza (rr. 27-65) è marcato da una cesura narrativa, che lo spazio bianco visualizza a livello tipografico. Lo stacco segna anche un cambio di passo della narrazione: rispetto alla voce anonima popolare della prima parte, s’avverte ora l’entrata in scena della voce dell’autore («Era una smorfia a Cacciagallina? o si burlava della gioventù di quei compagni là?», r. 27). Il commento successivo sembra guidato dallo sguardo che osserva e scruta quei poveri corpi. Ma la corporeità in Pirandello non nasce da un intento realistico: i particolari somatici si caricano di una particolare spiritualità, come la lacrima di zi’ Scarda. Essa diventa l’elemento che collega corpo e anima, interno ed esterno: un umore prodotto da un difetto del dotto lacrimale, ma che finisce per confondersi con quello generato dal dolore inguaribile di una perdita (quella del figlio Calicchio morto in miniera). La vita di zi’ Scarda, il suo dramma è tutto nella lacrima «più salata delle altre» che incide il suo volto e va a raccogliersi nel labbro stirato.

La terza sequenza (rr. 66-153) introduce il protagonista Ciàula riprendendo il racconto dal punto esatto in cui era stato interrotto nella prima sequenza. L’entrata in scena di questo caruso, «che aveva più di trent’anni (e poteva averne anche sette o settanta, scemo com’era)» (rr. 70-71), è quella di un essere senza età, fuori dal tempo, per il suo ritardo mentale. In un’umanità bestiale, egli si distingue per il suo candore: creatura primitiva della natura, e per questo più vicina ai suoi misteri. Di lui risaltano alcuni particolari fisici dai tratti grotteschi e caricaturali: il «torace nudo, in cui si potevano contare a una a una tutte le costole», le «gambe nude, misere e sbilenche», le «orecchie ad ansa», la «bocca sdentata» (rr. 77-87). Dopo un breve inserto dialogico, la narrazione cede nuovamente il passo alla digressione: il narratore penetra nello stato d’animo di Ciàula, ne ricostruisce le abitudini, ripercorre il suo salire e scendere nelle viscere della terra, mettendo a fuoco attraverso la tecnica dell’analessi (cioè la ripresa tematica ripetuta) le cause della sua atavica paura della notte. La sequenza si chiude, riallacciando i fili della narrazione interrotta, su Ciàula che si appresta a portare in superficie il suo carico, e sul suo crescente sgomento al pensiero del buio notturno.

Per Ciàula esistono due tipi di buio. Quello notturno, che lo spaventa, e quello della caverna, che conosce e nel quale sa abitare. La caverna è, per lui, come un ventre materno: nelle gallerie senza luce egli si sente parte integrante del buio, quasi protetto dalle viscere della montagna entro uno spazio che, malgrado abbia le caratteristiche dell’inferno («ombre mostruose… riflesso rossastro… acqua sulfurea»), gli è ormai familiare. Perturbante è invece il buio della notte, perché vano, vuoto, illimitato: riflesso del nulla che tutto circonda. Quando nella quarta e ultima sequenza (rr. 153-207) Ciàula risale il ventre della montagna e viene raggiunto dal chiarore lunare, sono presenti molte espressioni connesse al campo semantico della luce («chiarità d’argento», «chiarìa», «luminoso oceano di silenzio», «ampio velo di luce») che rinviano al tema della “scoperta”. Attraverso la visione della luna (una luna leopardiana, ignara del dolore umano), Ciàula entra in contatto non solo con l’universo, ma per la prima volta anche con la sua bellezza segreta. Alla fine della novella le sue lacrime sono il segno di un riscatto della creatura primitiva che, vinta la paura dell’ignoto, avverte, seppur a uno stadio intuitivo, di far parte del tutto e vive così una seconda nascita.

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