
All’interno degli ambiti di ricerca relativi alle scienze del testo ricordiamo per esempio la linguistica computazionale e la filologia digitale, due realtà che hanno in qualche modo inaugurato le ricerche di digital humanities. L’esperienza di Roberto Busa e del suo Index Tomisticus negli anni Cinquanta è stata in questo senso assolutamente pionieristica, evidenziando già allora come l’adozione di metodologie digitali non debba mai tradursi nell’equivoco di un automatismo strumentale. L’analisi quantitativa dei testi non sostituisce lo studioso, ma si mette a sua disposizione come uno strumento fra gli altri, utile per compiere una serie di operazioni altrimenti estremamente laboriose.
Anche le arti visive hanno col tempo incominciato ad utilizzare metodi digitali per lo studio delle fonti (si pensi alle analisi non invasive), la catalogazione e la diffusione del patrimonio audiovisivo. La creazione di ambienti virtuali per l’esplorazione di siti archeologici o la fruizione a distanza di reperti artistici sono oggi uno degli ambiti più fecondi in cui si esprimono le digital humanities, ma non va dimenticato neppure il ruolo che i sistemi di machine learning e riconoscimento automatico delle informazioni possono avere per problematizzare concetti teorici come quello di canone artistico (è esemplare in questo senso il caso del progetto X Degrees of Separation).
Quali presupposti teorici definiscono il profilo disciplinare delle digital humanities?
Il tema dell’identità disciplinare delle digital humanities è uno dei punti chiave del dibattito contemporaneo, al quale il volume cerca di rispondere operando una precisa scelta di campo che deriva dal mio non essere un informatico di formazione. Provenendo dagli studi sul cinema e la cultura visuale, ho tentato di applicarne alcuni strumenti critici a questo complesso oggetto di studio, costruendo una prospettiva che fosse al contempo archeologica nella ricerca dei presupposti metodologici e rilanciata verso il presente per quanto concerneva gli esempi e i casi di studio. Se la storia dell’informatica e del pensiero computazionale costituiscono dei riferimenti necessari per ricostruire il profilo delle digital humanities (a partire da figure chiave come quelle di Vannevar Bush e Norbert Wiener), il tentativo del volume è quello di attingere da un bacino più ampio di concetti e prospettive per mettere alla prova le possibilità che questo campo di studi può offrire a gruppi di ricerca dal profilo e dagli interessi eterogenei.
Così, facendo tesoro della prospettiva “indisciplinata” dei visual studies, mi sono rivolto in particolare alla prospettiva femminista e postcoloniale: ciò ha permesso di non assumere in modo acritico alcuni dei concetti chiave del discorso (p.e. quelli di algoritmo e archivio), arrivando a decostruirne sia l’origine culturale che i presupposti ideologici. Il caso dell’archivio è in questo senso assolutamente esemplare, perché anche nella sua forma digitale (il database, che per Manovich è non a caso la forma simbolica per eccellenza del contemporaneo) esso si presenta come uno strumento al contempo assolutamente fondamentale ma problematico. Il pensiero poststrutturalista ci ha lasciato in eredità l’idea che l’archivio sia il luogo (fisico ma anche simbolico) dove il potere si produce e si perpetua attraverso la documentalità (cosa viene preservato? Come? Per quale progetto ideologico?) e non è un caso che oggi alcuni fra i più interessanti progetti di digital humanities si preoccupino spesso di riattraversare questi spazi per individuare al loro interno storie minori e percorsi rimasti inesplorati nella geografia della memoria. Nuove narrazioni per archivi istituzionali, nuovi spazi di visibilità per fonti dimenticate significa anche creare archivi in modi nuovi, prestando maggiore sensibilità all’eterogeneità delle fonti (visive, cartacee, orali, digitali etc.) e alla specificità culturale del contesto in cui si opera: come hanno dimostrato numerosi casi di archiviazione di fonti orali dei nativi americani, è importante che il design del processo tenga conto a ogni livello delle categorie dei soggetti per i quali l’operazione viene compiuta, evitando così di incorrere in forme di imperialismo culturale.
Quali criticità presentano le pratiche di data visualization?
Come molte delle procedure più utilizzate nel contesto delle digital humanities, la data visualization è una risorsa molto flessibile e utile, che deve però essere opportunamente decostruita. Da questo punto di vista il volume la interpreta come un dispositivo, nel senso indicato sia da Foucault che – più recentemente – da Agamben (e in qualche modo anticipato da Baudry): come una struttura che “dà forma” ai dati, che quindi non esistono aprioristicamente ma dipendono sempre strettamente dal modo in cui intendiamo presentarli. Johanna Drucker, uno dei nomi più autorevoli in questo campo, ha spiegato molto bene che i data sono sempre prima di tutto dei capta, cioè delle entità che esistono solo nel momento in cui vengono messe in forma e rilevate. In questo senso, la visualizzazione dei datti è un’operazione che sottintende una certa politica, che diventa più o meno rilevabile nel momento della sua visualizzazione. Scegliere un linguaggio grafico piuttosto che un altro è già influenzare la lettura del dato, preformare un’interpretazione alla quale l’utente finale dovrà decidere di aderire o meno.
C’è poi da riconoscere che anche il linguaggio grafico che utilizziamo per dare consistenza visiva alle nostre rilevazioni ha una storia e riflette un certo clima culturale: l’uso del piano cartesiano, per esempio, ci parla di un’idea di geometrizzazione del mondo, di una calcolabilità integrale che è di per sé problematica e che oggi è ancora uno dei presupposti fondanti dei processi algoritmici. In questo senso, il ruolo delle digital humanities è sì quello di mettere a disposizione una serie di strumenti di lavoro, ma anche di offrire prospettive critiche per un uso che sia il più possibile attivo e consapevole.
Che rapporto esiste fra discipline del testo e digital humanities?
Le discipline letterarie sono state storicamente il vero e proprio campo di prova degli approcci digitali e sono ancora oggi uno dei luoghi privilegiati in cui questo campo di ricerca si applica. L’esperienza fondativa di Roberto Busa, promotore della lemmatizzazione dell’Index Tomisticus, è da questo punto di vista soltanto il primo e più noto esempio possibile, a cui si sommano casi ben noti come quello del Electronic Beowful. Se dunque dal punto di vista dei progetti e delle pratiche il testo letterario ha ricevuto da sempre grande attenzione (anche nella sua dimensione documentaria: non vanno infatti dimenticati i discorsi relativi alla filologia e alle edizioni digitali), anche la teoria e la critica hanno saputo recepire le spinte provenienti da questa nuova contaminazione fra i saperi. Basti pensare alla fortuna (e anche alle critiche) dell’approccio quantitativo allo studio della letteratura proposto da Franco Moretti, che per primo ha sistematizzato l’idea di uno studio delle forme e delle strutture narrative condotto appoggiandosi alle possibilità offerte dal digitale. Senza rinunciare ai vantaggi del cosiddetto close reading, la visione “a distanza” proposta da Moretti permette di trarre dati interessanti da ampi canoni testuali, studiando l’evoluzione di alcuni parametri (p.e. la preminenza di un certo genere all’interno di un determinato periodo storico). È importante sottolineare come non si tratti di escludere un approccio per favorire l’altro, ma di realizzare una vera e propria sinergia fra strumenti diversi, in grado di rispondere a specifiche domande di ricerca.
In che modo le ricerche nel campo delle digital humanities possono essere comunicate e rese accessibili a un pubblico non solo specialistico?
La progettazione è, nell’ambito delle digital humanities, un’operazione sistemica, che deve essere condotta avendo in mente sin dal principio gli output che si intendono produrre. Il design dell’esperienza è dunque un momento fondamentale per le digital humanities e costituisce una competenza chiave per chi si approccia a questo ambito di studi. La definizione dell’identità progettuale e l’implementazione di soluzioni che favoriscano l’accessibilità sono alcuni degli aspetti che rendono un progetto efficace nella comunicazione. Che si tratti della creazione di un portale per la diffusione dei risultati o di un archivio continuamente aggiornabile mettendo in comunicazione diversi dataset, gli output dei progetti di digital humanities sono uno dei loro aspetti chiave, e devono essere progettati in una prospettiva ecologica e sostenibile in termini di obsolescenza dei supporti e dei linguaggi, prevedendo quindi modalità di mantenimento di lungo corso.
Giuseppe Previtali insegna Storia del cinema e Paesaggio e cultura visuale presso l’Università degli Studi di Bergamo. I suoi principali interessi di ricerca riguardano le forme estreme della visualità contemporanea, il tema della visual literacy e l’epistemologia critica delle digital humanities. È autore dei volumi Pikadon. Sopravvivenze di Hiroshima nella cultura visuale giapponese (2017), L’ultimo tabù. Filmare la morte fra spettacolarizzazione e politica dello sguardo (2020), Educazione visuale (2021) e Che cosa sono le digital humanities (2022).