
Qual è l’eredita del ’68?
Il 68 ha lasciato un’eredità complessa perché proprio per il suo carattere magmatico e per la sua natura di ribellione giovanile non ha veramente elaborato un progetto compiuto né in campo politico né in campo sociale. Ha disseminato stimoli e intuizioni, soprattutto ha testimoniato la debolezza del mondo a cui si opponeva, il quale è veramente crollato al primo assalto. Molti parlano di una restaurazione post-sessantottina, ma lo si può dire solo se ci si ferma a considerare che i “rivoluzionari” (si fa per dire) del 68 non sono riusciti a conquistare il potere e al massimo un po’ di loro esponenti si sono fatti assorbire da quel “sistema” contro cui avevano tuonato. Andrebbe invece preso in considerazione che dopo ben poco fu realmente come prima, perché quelli che si potrebbero considerare i restauratori si appropriarono, più o meno furbescamente, dei “costumi” che le rivolte giovanili avevano imposto: vale per il mondo dei consumi, della cultura, delle relazioni sociali. Da come ci vestiamo a come ragioniamo, da come consideriamo le relazioni di genere a come ci poniamo nel confronto del lavoro, siamo in vario modo dipendenti dalla spallata che i sessantottini diedero al mondo cosiddetto “borghese”, ma che era semplicemente ormai il mondo di ieri.
Quali ambiti, tra quelli da Lei analizzati, hanno maggiormente risentito dell’influsso del ’68?
Coerentemente con quanto ho detto sopra ribadisco che più o meno tutti gli ambiti hanno risentito di quel che successe intorno a quegli anni: ovviamente non solo al 68 come anno simbolo, ma anche a quel che l’aveva preparato prima e a quel che accadde dopo. Il sistema educativo, considerato in generale e non solo come curriculum scolastico fino all’università, è stato senz’altro tra quelli che hanno affrontato uno sconvolgimento da cui non ci si è più ripresi. Il rifiuto di una trasmissione del sapere basata sull’esibizione della “autorità” di chi metteva in circuito le informazioni è saltato, ma non si è stati capaci di chiedersi se quella autorità che si contestava era presunta più che reale, per cui in definitiva bisogno riconoscere che non c’è trasmissione della conoscenza senza un percorso di verifica della autorevolezza che non può essere propria di qualsiasi opinione passi per il cervello di qualcuno o di un auto-accreditamento di chi la propaga. Ovviamente i sessantottini non potevano pensare cosa sarebbe successo con l’allargamento incontrollato delle platee di ascolto che garantisce oggi internet, ma bisognerebbe ammettere che la questione di come si verifica la autorevolezza delle conoscenze che si trasmettono è centrale e che il principio secondo cui tutte le opinioni hanno diritto di eguale cittadinanza non serve a far progredire né la scienza, né la società.
Peraltro qualcosa di simile si potrebbe dire per ambiti come la religione, il mondo del lavoro, quello della politica.
Il Suo libro si conclude interrogandosi: «Non è stato che l’inizio?»: quali dei processi maturati in quegli anni sono ancora in corso e dove ci condurranno?
Tutti i processi che vennero evidenziati dalle inquietudini delle generazioni che diedero vita al 68 sono ancora oggi aperti. Si cominciò allora a intuire che un mondo era finito e che, per dirla banalmente, così non si poteva più andare avanti. L’illusione fu che bastasse buttare giù quelle sistemazioni culturali, politiche, sociali, religiose, perché automaticamente se ne affermassero di nuove e più valide. Non è stato così e lo si è verificato anche in maniera drammatica. Però resta il fatto che indietro è impossibile tornare e che dunque siamo ancora alla ricerca di ricostruire con modalità e materiali nuovi quel che non poteva più stare in piedi se rappresentato nei vecchi canoni. Perché di educare, far circolare informazioni, gestire i rapporti tra i sessi, confrontarci con la domanda di religione, governare in maniera equa le relazioni internazionali, le società hanno bisogno se non vogliono finire nell’anarchia, che, è ben ricordarlo, non ha mai prodotto società dove si vivesse veramente bene.
È impossibile dire dove ci condurrà questa ricerca di un nuovo equilibrio, né quanto ci vorrà perché si arrivi ad una sua sistemazione, ovviamente sempre in maniera relativa e imperfetta come è proprio delle cose umane. Gli storici già fanno fatica a capire cosa è veramente successo nel passato, si figuri se possono essere in grado di predire il futuro.