
Tuttavia oggi è vivacissimo anche un altro di soprannominazione, quella che colpisce i personaggi dello sport e dello spettacolo. E qui le cose cambiano, perché i soprannomi perlopiù non solo “popolari”, bensì “elitari”, coniati in genere da giornalisti o esponenti di quello stesso ambiente. Penso alle centinaia di esempi appartenenti al mondo del calcio e che ho cercato di raccogliere in grande quantità nel mio libro. Sono soprannomi a volte semplici e banali e a volte sofisticati, come quelli coniati da Gianni Brera nel secolo scorso (Rombodituono, Abatino, Bonimba, Accacchino e Accaccone…) o al famoso Pinturicchio (Alex Del Piero) uscito dalla bocca di Gianni Agnelli. In ogni caso usato in contesti mediatici e non popolari. Potreste mai immaginarvi un coro di tifosi “rombodituono, rombodituono, rombodituono…” per esaltare il grande Gigi Riva? E penso alle cantanti degli anni 60-70: la Tigre di Cremona, la Pantera di Goro, l’Aquila di Ligonchio …
Quale funzione assolve il soprannome?
Ho indicato la funzione distintiva e identificativa, nonché quella ironica, beffarda, denigratoria. E quella “spettacolare”. Non c’è dubbio che la più importante, nella storia del soprannome, è stata la prima, che ha dato poi origine ai cognomi moderni e contemporanei.
Credo però che non si possa comprendere la funzione del soprannome, e il fenomeno in generale, se non si conosce la motivazione. Mi spiego: c’è chi si accontenta, nello studiare o anche nel semplice collezionare, delle voci raccolte. E, se ne è capace, di inviduare le etimologie (oltre che tradurle in italiano per chi non conoscesse i dialetti).
Ma prendiamo come esempio un uomo chiamato cavallo (senza riferimenti all’omonimo film del 1970 di Silverstein, protagonista Richard Harris). Ebbene, comprendiamo perfettamente il significato del nomignolo, abbiamo chiara in mente l’immagine dell’animale, e se siamo linguisti o persone che comunque hanno studiato, sappiamo che il termine deriva dal latino caballus, voce che a sua volta ha sostituito il più classico equus, che sopravvive in italiano negli aggettivi equino e equestre e nel sostantivo equitazione e concorre con i continuatori del greco ippos, come ippica, ippodromo, ippoterapia (e i nomi propri Ippocrate, Filippo, ecc.). E allora? Voglio dire: ma perché quel tale è soprannominato Cavallo? Se non facciamo parte della comunità che ha scelto e assegnato il soprannome – e ne ha tramandato la motivazione di generazione in generazione se si tratta di attribuzione lontana nel tempo – non abbiamo una risposta certa. Tutt’altro. Nel libro propongo una ventina di motivazioni differenti e certamente ne avrò dimenticata qualcuna. Lo stesso ho fatto con il soprannome greco e, in passato, con rospo, trovandone una trentina.
Ecco, senza le motivazioni un soprannome dice poco o niente. A me per esempio, come a un po’ tutti, sono stati dati vari nomignoli. Ne ricordo qui tre: Foca, Kafka e Doc. Perché? Il primo perché da ragazzo sapevo palleggiare anche con la testa (ma tre colpi al massimo…). Kafka al liceo come deformazione colta della prima parte del mio cognome Caffarelli. E Doc, il più recente, perché non occupandomi troppo dei miei capelli bianchi e spettinati, somiglierei allo scienziato bislacco del film Ritorno al futuro.
Quando e come nasce l’usanza di affibbiare dei soprannomi?
Difficile dirlo. Ma certo il cognomen latino era già un soprannome, che si accostava al praenomen individuale e al nomen della tribù, della famiglia. In Caio Giulio Cesare, Caius è il prenome, Iulius il nome familiare, molto simile al nostro cognome, e Caesar il soprannome. Come Cicero per Marco Tullio (‘porro, verruca’), Plauto per Tito Maccio (‘piedi piatti’) o Naso per Publio Ovidio.
Nel Medioevo, poi, l’onomastica personale era molto povera. A cavallo del Mille dominava l’uso del nome unico, e proprio in corrispondenza di una riduzione del repertorio. Insomma, uno su cinque si chiamava Giovanni e anche per gli altri i nomi erano pochi. In questa situazione si cominciò ad aggiungere un secondo elemento: poteva essere il nome paterno, oppure il luogo di provenienza, o ancora il mestiere esercitato, o infine un aggettivo o un sostantivo che indicavano una caratteristica o un comportamento dell’individuo: bianco, zoppo, grasso, forte, … anche strani come Pappalacerta, per qualcuno che era solito o anche una sola volta nella vita aveva mangiato una lucertola.
In che modo il soprannome si è trasformato in un cognome moderno?
Col passare dei secoli, alcuni dei nomi aggiunti, di cui ho appena detto, hanno cominciato a trasmettersi di padre in figlio e a perdere corrispondenza con la realtà: il figlio del Rosso – di capelli o carnagione – poteva essere biondo o bruno, il discendente del fabbro faceva il fornaio ecc. A quel punto veniva a formarsi un casato con il suo cognome.
Ma non bisogna pensare che sia stato un processo rapido e uniforme. È cambiato nel tempo secondo i luoghi. Ed è stato pieno di ripensamenti. Per esempio, anche le famiglie avevano dei soprannomi: e non di rado questi hanno spodestato i cognomi e ne hanno assunto la funzione. E talvolta venivano trasmessi i cognomi delle madri e non quelle dei padri.
Quale importanza ha il soprannome nella letteratura?
L’onomastica letteraria è una scienza interdisciplinare che attira sempre di più gli studiosi in Italia come in altri Paesi. In tale onomastica rientra anche i soprannomi. È interessante notare quali autori li usano e perché, se hanno una funzione solo ludica, quante informazioni in più ci danno del portatore. Ho dedicato un ampio capitolo del libro a questi soprannomi che popolano la nostra letteratura, da Dante (e prima di lui dai trovatori) fino ai personaggi delle storie di Montalbano. Si va da frate Cipolla, Calandrino e Chichibio del Decameron alle figure dell’epica cavalleresca e dei poemi eroicomici del Cinque-Seicento; dai bravi di don Rodrigo alle ngiurie, per dirla in siciliano, nei romanzi o nelle novelle di Verga e Pirandello, di Sciascia e di Vittorini, di Bufalino e di Camilleri; e come non pensare al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa? A Roma poi, si abbonda con la fantasia di Palazzeschi e i giochi linguistici di Gadda, con il sapore delle misere periferie di Moravia e soprattutto di Pasolini e molto prima di loro con le voci schiettamente romanesche del Belli. Ma poi torniamo a Mastro Ciliegia e a Geppetto Polendina, al Palle delle Sorelle Materassi, al cavalier Laonde del Demetrio Pianelli di Emilio De Marchi, al Muratorino di Cuore, alla Capinera degli Ossi di seppia di Montale…
Poi c’è la malavita: ampi cataloghi di soprannomi sono Romanzo criminale di Giancarlo De Cataldo e Gomorra di Roberto Saviano. Anzi, nella criminalità organizzata non si può non avere un soprannome. Ma sbaglierebbe chi pensasse che solo i mafiosi e i camorristi lo hanno.
Di quanti soprannomi si occupa il suo libro?
Non è un dizionario ed è difficile contarli. Ma sono tanti. Perché si spazia da repertori presi direttamente dalla viva voce delle persone ai soprannomi di personaggi storici di varie, alle invenzioni di romanzieri e poeti. Ho raccolto in tabelle quelli dei santi, dei pittori e degli scultori, quelli dei calciatori e delle squadre di calcio di tutto il mondo (club e nazionali), poi quelli dei modelli automobilistici (e nel testo si parla anche dei nomignoli delle moto). Già, perché i soprannomi non vengono attribuiti solo agli esseri umani, ma anche ai veicoli e ad altri oggetti, alle nazioni e alle città, agli edifici e alle strade. Poi si commentano i soprannomi dei politici – i potenti di turno sono sempre molto bersagliati dal popolo – dei cantanti, dei ciclisti, di militari, di eroi ecc. E ci sono i cosiddetti blasoni popolari, cioè i soprannomi collettivi che gli abitanti di un certo paese hanno imposto ai “rivali” dei paesi vicini. Sono divertentissimi e istruttivi su come si consideri il vicino e lo si voglia prendere in giro, basandosi anche su aneddoti relativi a tempi lontani. Naturalmente, quando lo spazio lo ha permesso, con le specifiche motivazioni.
Nel tempo sono cambiati i contenuti dei soprannomi, si colgono cioè aspetti differenti del soprannominato?
In gran parte sono sempre gli stessi, anche perché quelli dialettali, i più frequenti, sono eredi di una tradizione che parte da lontano. Mi pare però che almeno una tipologia sia fortemente cresciuta. Alludo ai “delocutivi” e cioè a quei nomignoli che nascono da ciò che una persona ha detto, anche una volta sola, magari sbagliando una parola, oppure a un intercalare che ripete continuamente. Nel libro gli esempi non mancano.
E una novità assoluta rispetto anche a un secolo fa sono i soprannomi derivanti da marchi commerciali. In un repertorio raccolto ai Castelli Romani si segnalano Er Ceres e Kimbo, perché forti bevitori rispettivamente di birra e di caffé; Er Findus perché, incapace di cucinare, ricorre regolarmente a cibi surgelati; Er Saila, per la somiglianza con l’omino nero animato che pubblicizzava il prodotto, una caramella alla menta; mentre Er Coccoina e Bostik segnalano persone particolarmente… appiccicose.
Del resto tra i soprannomi della camorra napoletana, detti anche contranomi, in Gomorra di Roberto Saviano sono menzionati Antonio Di Biasi Pavesino, «perché quando usciva a fare operazioni militari si portava sempre dietro i biscotti pavesini da sgranocchiare»; Tonino Kit Kat «perché divorava quintali di snack»; Nicola Luongo O’ Wrangler «fissato con i fuoristrada Wrangler, divenuti veri e propri modelli prediletti degli uomini del Sistema».
Cosa rivela l’analisi dei soprannomi collettivi dei tifosi sportivi e dei fan della musica?
Si tratta di due tipologie differenti. Ai calciofili i nomignoli sono imposti dai rivali. Spicca la capacità di cogliere i punti deboli nell’aspetto, nel mestiere esercitato in prevalenza dagli avversari in determinate città… Curioso il fatto che spesso non si sa neppure come e perché sia nato quel soprannome.
In Italia porto il caso dei tifosi della Juventus, detti “i gobbi” (anche se fuori Torino non tutti ne sono al corrente). Una versione accreditata è che il nomignolo sia nato per via di una divisa adottata dalla Juventus a partire dal 1956. La maglia somigliava per tessuto e forma più a una larga camicia con un’ampia scollatura a V e quando i calciatori correvano, da questa scollatura entrava aria che formava un rigonfiamento sulla schiena, una specie di gobba appunto, dietro la nuca. C’è chi, invece, associa i gobbi all’immagine della fortuna o li collega all’altro e più popolare soprannome della Juventus, che in quanto “vecchia Signora” sarebbe anche gobba. La rivalità con i granata del Torino ha poi fatto nascere ulteriori spiegazioni: che la gobba appartenga ai bianconeri perché “costretti” a guardare sempre le altre squadre dall’alto al basso, o che sia spuntata per il continuo inchinarsi di fronte alla superiorità del “Grande Torino”, quello dei cinque scudetti tra il 1942 e il 1949.
Quanto ai fans musicali, rivelano due aspetti. Il primo è l’affetto per il cantante o la band al punto da coniare il proprio soprannome utilizzando, con suffissi, i nomi degli artisti: le Cartine di Marco Carta, i Fedeziani di Fedez, le Scanine di Valerio Scanu, gli Elisanti di Elisa… E l’altro è la voglia di aggregazione, di sentirsi parte di un gruppo: l’Esercito di Mauro Mengoni, la Big Family di Alessandra Amoroso, la Tribù di Giovanotti, i Sorcini di Renato Zero…
Quali sono i soprannomi più noti e rilevanti?
Beh, non si può stilare una classifica… I più noti sono quelli dei personaggi pubblici, ovviamente. Ma la notorietà è … notoriamente un fatto passeggero. Quanto alla rilevanza, direi che occorre avere alcune qualità: la condivisione (se il soprannome è usato grosso modo da tutti), la frequenza (quando e quante volte, su quali supporti mediatici ecc.), la fantasia unita a processi linguistici originali e piacevoli. Per quest’ultima caratteristica vorrei lodare i tifosi del Napoli che hanno ideato per due calciatori altrettanti soprannomi bellissimi: Hamsik divenuto, a partire dal suo nome Marek (Marco in slovacco) Marekiaro, combinando il pallone con una delle zone più belle i Napoli; e Funikulì Funikulà, dalla celebre canzone, per assonanza, etichetta appiccicata a Kalidou Koulibaly, chiamato anche K2, come dire: una montagna da scalare per gli attaccanti avversari.
A quale pubblico si rivolge Che cos’è un soprannome?
Per chi ha avuto la fortuna di lavorare sia come giornalista sia come docente universitario è difficile scrivere per un pubblico molto specifico. Nel redigere questa analisi dei soprannomi mi sono idealmente posto davanti sia il normale pubblico che si reca in libreria per trovare qualcosa di interessante e originale, sia gli studenti universitari (e i loro docenti). Nello studio soprattutto della storia della lingua italiana, ma anche della letteratura, delle scienze della comunicazione, di sociologia e antropologia culturale, spero che le vicende dei soprannomi, a noi così vicine, possano risultare un piccolo complemento utile.
Enzo Caffarelli dirige la Rivista Italiana di Onomastica e ha insegnato Onomastica all’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. È autore di numerosi libri, come L’onomastica personale nella città di Roma dalla fine del secolo XIX ad oggi (Niemeyer, 1996) e Dimmi come ti chiami e ti dirò perché (Laterza, 2013).