“Che cos’è un proverbio” di Vincenzo Lambertini

Prof. Vincenzo Lambertini, Lei è autore del libro Che cos’è un proverbio edito da Carocci. Universalmente ritenuti espressione della saggezza popolare, i proverbi sollevano in realtà vari problemi: quale definizione è possibile dare di proverbio?
Che cos'è un proverbio, Vincenzo LambertiniLa definizione di proverbio è una questione spinosa che non è ancora stata risolta pienamente. Tutti noi conosciamo almeno qualche proverbio, ma quando ci interroghiamo su che cosa sia il proverbio fatichiamo a esprimere una definizione accurata che ci permetta di distinguere il proverbio da altri fenomeni fraseologici. E questo perché il proverbio è di per sé un oggetto complesso e dalle molteplici sfaccettature.

Studiosi di tutti i tempi hanno tentato di definire il proverbio, il che è dimostrato dall’elevato numero di definizioni esistenti sul proverbio. Le definizioni possono divergere notevolmente a seconda della prospettiva adottata per analizzare il proverbio e le sue caratteristiche: vi sono, infatti, definizioni più legate alla dimensione culturale e antropologica del proverbio che ne mettono in luce la funzione didattica e legata alle tradizioni della comunità di riferimento; ricordiamo, poi, definizioni maggiormente orientate all’estetica del proverbio e alla sua funzione poetica, che sottolineano la presenza, tra gli altri, di ritmo, rime e assonanze, necessari alla memorizzazione del proverbio stesso. Pertanto, prima di chiedersi quale sia la definizione di proverbio, è bene individuare la prospettiva più indicata per giungere a tale obiettivo.

In questo libro, ho deciso di adottare una prospettiva linguistica e questo per diverse ragioni. Anzitutto, perché il mio interesse verso i proverbi nasce da mie esigenze (inter)linguistiche: i miei studi, prima, e le mie esperienze professionali, poi, in traduzione e interpretazione di conferenza mi hanno posto di fronte alla difficoltà di tradurre i proverbi, specialmente quelli più connotati culturalmente. Spiego meglio questo passaggio. Molti proverbi derivano dal latino oppure dalla Bibbia, il che giustifica la ragione per cui si trovino gli stessi proverbi in lingue diverse. Prendiamo il proverbio Una rondine non fa primavera, che deriva dal latino Una hirundo non facit ver: esso è presente in francese (Une hirondelle ne fait pas le printemps), in inglese (One swallow does not make a summer), in portoghese (Uma andorinha não faz primavera), in spagnolo (Una golondrina no hace verano, dove la parola verano, che in spagnolo moderno significa estate, indicava nello spagnolo antico la primavera, per derivazione dal latino ver: come si nota, i proverbi, essendo frasi cristallizzate nel tempo, portano l’eredità della lingua in cui si sono sviluppati, il che ne giustifica alcune stravaganze lessicali, le quali non possono essere ignorate al momento dell’enunciazione dei proverbi). Questo proverbio, se vogliamo, non pone molti problemi a livello interlinguistico: esso esiste in diverse lingue, mantenendo lo stesso significato. Il problema sorge quando esistono proverbi aventi lo stesso significato ma composti da parole diverse. Prendiamo Gallina vecchia fa buon brodo che in francese diventa C’est dans les vieux pots qu’on fait les meilleures soupes (ossia È nelle pentole vecchie che si fanno le migliori zuppe) o ancora Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca che corrisponde al francese On ne peut pas avoir le beurre et l’argent du beurre (vale a dire Non si può avere il burro e i soldi del burro). In questi casi, il traduttore o l’interprete devono essere anzitutto consapevoli del funzionamento linguistico del proverbio, che possiede almeno due significati (quello dato dalle parole e quello globale, che non corrisponde per forza al piano lessicale), e avere una profonda conoscenza della lingua e della cultura straniera. Pensiamo a un interprete di simultanea che deve trovare all’istante un equivalente di un proverbio che possa essere adeguato al contesto del discorso che sta traducendo, senza perdere troppo tempo nel ricordare la corretta formulazione del proverbio stesso. Nel libro cito, non a caso, episodi in cui individui che parlano spontaneamente la propria lingua enunciano in maniera errata i proverbi. Pensiamo a quanto possa essere difficoltoso, per un interprete di simultanea, formulare correttamente un proverbio in una lingua mentre continua ad ascoltare un discorso in un’altra lingua!

In questo volume, non ho prediletto una prospettiva linguistica solo per ragioni legate alla traduzione e all’interpretazione, ma anche perché trovo che la linguistica metta a nostra disposizione una serie di strumenti teorici e metodologici, chiari e pratici, che ci consentono di portare alla luce le caratteristiche definitorie dei proverbi. Uno dei rischi riscontrati nelle definizioni esistenti, infatti, è che esse si concentrino sulle caratteristiche frequentemente riscontrabili in seno ai proverbi ma non strettamente necessarie. Le faccio un esempio. Dire che i proverbi hanno una rima e sono brevi è un’osservazione di buon senso basata sull’osservazione di molti proverbi (es.: Rosso di sera, bel tempo si spera, Una mela al giorno toglie il medico di torno), che viene tuttavia confutata da alcuni controesempi. Il proverbio Al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere presenta una rima interna (saperepere), ma non è certo breve (in fondo, che cosa si intende per brevità? Come quantificare questa nozione e quale soglia individuare?), mentre L’unione fa la forza o Il silenzio è d’oro sono sicuramente più brevi ma non contengono alcuna rima. Individuare condizioni sicure, facilmente determinabili e necessariamente presenti in un proverbio fa giungere, al contrario, a un modello definitorio in grado di chiarire la natura del proverbio, di per sé complessa, multisfaccettata e tuttavia riassumibile nelle seguenti condizioni necessarie: il proverbio è necessariamente una frase il cui autore primo non è (più) noto, che si riferisce all’uomo (sebbene possa riguardare in prima battuta altri ambiti non prettamente umani) e che ha almeno due significati. Il primo significato, come si diceva, è quello più superficiale e immediato del proverbio, quello che risulta dalle sue parole (ad es.: L’abito non fa il monaco mantiene il significato dell’abito che non rende monaco il soggetto che lo indossa); il secondo è più generico del primo e può descrivere, come una sorta di regola generale, una serie disparata di situazioni (ad es.: L’abito non fa il monaco significa che le apparenze ingannano). L’esistenza e co-esistenza di questi significati non può essere ignorata. Ma soprattutto, questi due piani del significato non possono essere confusi, cosa che invece si è verificata in alcuni studi sui proverbi, e specialmente in quelli che non seguivano un approccio linguistico.

Nascono ancora nuovi proverbi?
Questa è una domanda da un milione di dollari. Capire se nascono ancora nuovi proverbi significa scommettere sul futuro.

Prima di fornire una risposta, è necessario fare una premessa. Il proverbio è di per sé il frutto della sedimentazione linguistica: molti proverbi sono in realtà frasi celebri del cui autore si è persa traccia. Come si intuisce, un proverbio, prima di diventare tale, deve affermarsi nell’uso e deve essere conosciuto a un numero considerevole di persone. In altre parole, non posso svegliarmi oggi e inventare un proverbio. Quello che posso fare, semmai, è tentare di inventare una frase che, se funziona bene, può diventare celebre (condizione indispensabile per essere proverbio), ma che rimarrebbe legata alla mia identità. Il proverbio, invece, è slegato dall’identità dell’autore che lo ha coniato. Il proverbio è, dunque, un oggetto puramente diacronico: possiamo condurre analisi sincroniche sui proverbi usati oggi, pur sapendo che stiamo analizzando il patrimonio linguistico e culturale delle epoche passate che si è conservato fino ai nostri giorni.

Dopo questa doverosa premessa, torno al quesito che mi ha posto. Per fornire una risposta scientifica, è anzitutto necessario analizzare dati linguistici autentici e sincronici. Un’analisi di questo tipo segnala che non vi è incompatibilità tra i proverbi e le innovazioni dei nostri tempi. Nel libro si possono leggere numerosi esempi a supporto di questa tesi. Gliene faccio uno: non vi è incompatibilità tra Chi di spada ferisce di spada perisce e un concetto così moderno con quello del selfie. Basta, infatti, sostituire al sostantivo spada l’anglicismo selfie e si ottiene il proverbio parodiato Chi di selfie ferisce di selfie perisce che può essere adatto a descrivere gli effetti collaterali della sovraesposizione mediatica tramite i nuovi social media. Non mi sono permesso di modificare io (artificiosamente) questo proverbio, ma l’ho ripreso da uno sketch di Maurizio Crozza (lo spezzone è disponibile a questo link).

Dimostrare che le innovazioni possono rientrare anche nei proverbi più tradizionali significa provare che non vi sono impedimenti alla creazione di nuovi proverbi. Si dice spesso, infatti, che i proverbi esistenti oggi sono nati in società preindustriali, ma questo non è completamente esatto. Esistono proverbi come Donne e motori, gioie e dolori oppure Chi ha voluto la bicicletta, pedali che includono innovazioni di società pienamente industriali. Allo stesso modo, possiamo ipotizzare che vengano creati proverbi moderni relativi a computer, smartphone, tablet, ecc.

Per poter capire se inventiamo ancora proverbi, dobbiamo trovare candidati proverbi, ossia forme embrionali di proverbi che potrebbero diventare tali. Analizzando dati linguistici autentici, troviamo frasi che vengono definite proverbi dagli enunciatori, sebbene non siano ancora note alla comunità linguistica (ecco perché non possiamo ancora considerarli veri e propri proverbi). Uno di questi è: Su Internet nessuno sa che sei un cane. Non sappiamo se diventerà un vero e proprio proverbio, ma quello che è certo è che, contrariamente a una vulgata abbastanza diffusa, non abbiamo ancora perso il gusto di inventare nuovi proverbi. Da questo punto di vista, i proverbi sono come le parole: essi nascono, vengono dimenticati, possono tornare in auge, subiscono modifiche, ma non smettono di essere coniati.

Come si raccolgono i proverbi?
Dipende da quali proverbi vogliamo raccogliere. Un conto è fare incetta di proverbi già inseriti in opere a essi dedicate (compendi, liste o dizionari di proverbi). Un conto è raccogliere sul campo proverbi effettivamente in uso. Cercare proverbi in raccolte è tutto sommato semplice, ma può presentare due inconvenienti: da un lato, non è detto che esistano pubblicazioni di questo tipo in tutte le lingue o in tutti i dialetti (pensiamo a quelli aventi una mera tradizione orale); dall’altro, è altamente probabile che molti proverbi presenti in opere di questo tipo non siano più in uso oppure che non lo siano nelle varianti presentate dagli stessi dizionari.

Raccogliere proverbi dalla lingua orale (che è sicuramente il luogo migliore dove si possa effettuare tale operazione, data la natura prioritariamente orale dei proverbi stessi) è più difficile di quanto si possa credere ed esistono diverse metodologie che variano in funzione degli obiettivi. Se lo scopo è raccogliere il maggior numero di proverbi da una lingua o da un dialetto che stanno scomparendo, è necessario interrogare gli individui che conoscono quella lingua e cultura, cercando di raccogliere il maggior numero di proverbi nel minor tempo possibile. Nella pratica, si può chiedere loro di elencare i proverbi che conoscono, sebbene non sia detto che questo procedimento sia il più indicato. Il proverbio va a braccetto con la spontaneità: è la situazione che vive il parlante che lo porta a pronunciare un proverbio. Si può allora aiutare l’intervistato a ricordare i proverbi che conosce facendogli pensare a situazioni o personaggi concreti. Tuttavia, si tratta pur sempre di procedimenti artificiosi che potrebbero portare il soggetto a ricordare non i proverbi da lui più usati ma quelli più aneddotici, più particolari, più coloriti o maggiormente legati a suoi ricordi. Il che non è di per sé un male, ma è lungi dal consentire una raccolta di proverbi in uso e rappresentativi di una data comunità in una data epoca. L’ideale sarebbe registrare ore e ore di conversazioni spontanee ed analizzarle, ma questo non è sempre possibile per ragioni di tempo: a seconda delle culture, ci potrebbero volere molte ore di conversazione per raccogliere una manciata di proverbi. Inoltre, per favorire la spontaneità dei parlanti, tali registrazioni dovrebbero essere effettuate senza che i soggetti ne siano consapevoli, il che non è sempre possibile per ragioni di privacy. È pertanto necessario trovare un compromesso tra le necessità del ricercatore e la realtà delle cose.

Se pensiamo alle lingue maggiormente diffuse e studiate nel mondo, possiamo ovviare a queste difficoltà utilizzando risorse elettroniche volte a raccogliere campioni rappresentativi di lingua in uso. Queste risorse vengono chiamate corpora linguistici e la loro analisi può essere velocizzata e ampliata grazie a strumenti elettronici. L’ideale sarebbe disporre di corpora scritti, che presentano testi autentici e spontanei (sebbene la spontaneità dell’orale non possa essere replicata fedelmente allo scritto). Pensiamo, ad esempio, a blog e forum, dove gli autori dei testi si esprimono in maniera naturale come se stessero conversando con gli altri utenti della rete. Anche in questo caso, tuttavia, si potrebbe presentare un problema aggiuntivo: la soggettività del ricercatore che rischierebbe di influire sulla raccolta dei proverbi, dando la priorità a proverbi che conosce o escludendone altri (anche involontariamente) a lui ignoti. Nel mio libro, illustro una metodologia di raccolta di proverbi che ho messo a punto sulla base delle mie ricerche e che permette di ovviare a questi problemi, dando la possibilità agli stessi dati linguistici di far emergere un campione rappresentativo di proverbi. Come si vede, le nuove tecnologie e le metodologie di studio più all’avanguardia in ambito linguistico possono essere di grande utilità per (ri)scoprire una materia all’apparenza così “polverosa” come quella dei proverbi, cercando di osservarne l’evoluzione presente.

Quali difficoltà presenta la traduzione dei proverbi?
Chi lavora con le lingue (penso ai traduttori, agli interpreti, ma anche a tutti coloro che per necessità o per diletto conoscono in maniera approfondita almeno una lingua e cultura straniera), sa bene che oggetti così culturalmente connotati come i proverbi sono molto difficili da gestire, ossia da capire, da imparare e da utilizzare in maniera appropriata. E questo perché ciò che i proverbi esprimono all’apparenza non corrisponde a quanto in realtà intendono (è il caso di dire che l’apparenza dei proverbi molto spesso inganna!). Tutte queste difficoltà si ripresentano in traduzione, assieme a ulteriori ostacoli. Uno di questi riguarda la natura stessa dei proverbi. A seconda del testo in cui figurano, essi possono creare giochi di parole oppure rimandi (più o meno espliciti) a qualcosa di già citato, grazie alla loro capacità di attivare almeno due significati (come ricordato poc’anzi, il primo è dato dalle parole e il secondo corrisponde al senso inteso). Si è visto che ci possono essere proverbi equivalenti in due lingue rispetto al senso inteso, ma aventi parole diverse. Se però quelle parole erano utili per scopi poetici o ironici, il traduttore dovrà trovare un compromesso tra il piano formale e quello semantico.

L’altra grande difficoltà della traduzione dei proverbi è che non sempre le risorse multilingue aiutano a reperire proverbi equivalenti: ho notato, infatti, che ci sono casi in cui proverbi frequenti non sono presenti in dizionari o raccolte oppure che, qualora lo siano, non vengono associati correttamente a proverbi in altre lingue. Ricordo, infine, la sfida della traduzione di proverbi che non dispongono di equivalenti interlinguistici. In questo caso, l’abilità del traduttore consisterà nel trovare un compromesso tra i bisogni linguistico-testuali dettati dal testo di partenza e le esigenze semantiche, pragmatiche e funzionali imposte non solo dal testo di partenza, ma anche da quello di arrivo.

Che funzione svolge, ai nostri giorni, il proverbio?
Anzitutto, sfatiamo un mito: il proverbio è ancora molto usato e non sembra destinato a scomparire, sebbene la sua funzione e il suo uso siano effettivamente variati in seguito ai cambiamenti che si sono verificati nelle nostre società. Se, nel passato, svolgeva un’importante funzione didattica (pensiamo ai proverbi legati alle stagioni e ai lavori nei campi, che costituivano una sorta di calendario e prontuario per la realizzazione di tali attività), oggi giorno sembra essersi affrancato da questa funzione per prediligere scopi ironici e al contempo persuasivi, in virtù della propria autorevolezza documentaria. In altre parole, si usa il proverbio per dare un tocco di colore ai propri discorsi e per dare più valore a quanto si dice, al fine di convincere l’interlocutore (il che, a dire il vero, accadeva già nel passato: non a caso, presso i Greci e i Latini il proverbio svolgeva un’importante funzione retorica).

Per queste ragioni, il proverbio è molto impiegato nel discorso politico e nella pubblicità, ambiti in cui si evidenziano due aspetti principali. Il primo riguarda la modifica dei proverbi: essi vengono spesso alterati per ragioni ludiche, ironiche oppure per accrescerne l’incisività. Il secondo riguarda la creazione di slogan pubblicitari sulla base di proverbi. Si punta, infatti, a giungere al maggior numero di consumatori possibili: per questa ragione, si usano oggetti linguistici conosciuti da tutti e che fungono da cassa di risonanza nei confronti del messaggio pubblicitario stesso. Il che, se ci pensiamo, è un’ulteriore dimostrazione di quanto il proverbio sia ancora vivo presso la nostra società: se i pubblicitari si servono dei proverbi per creare i loro slogan è perché sono certi di usare una frase abbastanza nota da attirare l’attenzione del pubblico.

L’uso frequente di proverbi nella pubblicità potrebbe sembrare uno schiaffo alla storia e alla cultura che stanno alla base dei proverbi stessi, le quali sarebbero utilizzate per mere questioni commerciali. Non è mia intenzione formulare giudizi su questo punto: non sarebbe né rilevante né tantomeno pertinente. Vorrei però guardare l’altra faccia della medaglia per mostrare ancora meglio la sinergia tra proverbi e pubblicità, tipica della nostra epoca. La pubblicità non si avvale solo di proverbi esistenti, ma si sta rivelando anche una fonte di nuovi potenziali proverbi. Gli slogan pubblicitari puntano a essere brevi, accattivanti e facilmente memorizzabili, in linea con alcune caratteristiche (che non possiamo considerare definitorie, ma che sono frequenti) dei proverbi. Ma soprattutto, come dicevamo, sanno diffondersi rapidamente tra le masse. Certi slogan sono entrati nell’uso comune: pensiamo a O così o pomì, che dalla pubblicità è arrivato a essere utilizzato anche nella conversazione spontanea per indicare la mancanza di alternative.

Lo slogan può diventare un proverbio solo se si generalizza e si stacca dal marchio o dal prodotto per il quale era stato creato. Per tale ragione, esistono slogan pubblicitari candidati a diventare proverbi ma che non lo sono ancora pienamente, a causa di un processo di generalizzazione non ancora compiuto. Esempi possono essere: La potenza è nulla senza il controllo e Ci sono cose che non si possono comprare, per tutto il resto c’è Mastercard. Nel primo caso, una ricerca basata su corpora linguistici sincronici mostra che i parlanti tendono a usare quella frase per descrivere realtà non solo legate al mondo dei mezzi di locomozione su gomma (come si ricorderà, lo slogan era volto a pubblicizzare un marchio di pneumatici), ma anche altre realtà (ad esempio, la potenza incontrollata e dannosa di Internet). Per il secondo slogan, invece, una mia ricerca in Rete ha evidenziato che sono più frequenti le sue versioni modificate rispetto a quella standard: in particolare, il celebre nome del circuito di carte di credito viene sostituito con altri nomi comuni. Tali considerazioni sono molto importanti per formulare ipotesi circa l’uso di questi slogan da parte dei parlanti comuni, i quali comincerebbero ad appropriarsi della frase e a generalizzarla. Se il trend continuasse, questi slogan avrebbero buone probabilità di trasformarsi in nuovi proverbi, e il discorso pubblicitario si confermerebbe come una fucina di nuovi proverbi.

Vincenzo Lambertini è ricercatore di Lingua e traduzione francese presso l’Università degli Studi di Torino. I suoi interessi di ricerca vanno dall’analisi linguistica dei proverbi (tema su cui ha svolto la propria tesi di Dottorato presso l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna) alla traduzione e all’interpretazione di conferenza e dialogica tra il francese e l’italiano. È, inoltre, membro del Consiglio consultivo dell’International Association of Paremiology (AIP-IAP), ha partecipato come relatore a diversi convegni internazionali ed è autore di saggi sul proverbio.

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