“Che cos’è la storia della scienza” di Paola Govoni

Che cos'è la storia della scienza, Paola GovoniProf.ssa Paola Govoni, Lei è autrice di una nuova edizione riveduta, aggiornata e ampliata, del libro Che cos’è la storia della scienza pubblicato da Carocci: un volume che, con le sue 12 ristampe, nel panorama editoriale italiano può dirsi un successo. Quali sono oggi, a distanza di 15 anni da quella prima edizione, l’importanza e l’attualità della storia della scienza?
Penso che la storia della scienza sia, non solo un ambito tra i più affascinanti per come si è evoluto negli ultimi anni, ma anche uno dei più utili per tracciare politiche della scienza sensate. Uno dei più affascinanti perché oggi la storia della scienza – grazie a un approccio interdisciplinare o, auspicabilmente, integrato – è in grado di attraversare tutte le pratiche e tutte le forme comunicative applicate allo studio della natura, inclusa l’arte. Utile perché, visto il ruolo giocato dalla scienza nelle nostre società, come avevano capito tra le due guerre mondiali alcuni studiosi di cui parlo nel libro – scienziati e umanisti con una forte vocazione politica –, la storia della scienza è uno strumento indispensabile per orientarci nel presente, ma soprattutto nel futuro: la storia ci aiuta a fare la nostra scommessa sul futuro che vogliamo o, almeno, quello che non vogliamo. Senza la storia rischiamo di rifare errori già fatti, inclusi alcuni spaventosi, come ci ricordano le voci di Primo Levi o Liliana Segre. Scienza e tecnologia hanno avuto un ruolo in vicende umane drammatiche. Ma sono allo stesso tempo all’origine del nostro benessere e della nostra vita così lunga. Sono le culture che informano ogni nostro gesto, personale e sociale. La storia delle innovazioni e delle scoperte intrecciata con quella delle società che hanno prodotto quelle pratiche e quelle forme di conoscenza ci è indispensabile per mettere a punto scelte sensate: scelte personali – per esempio che cura medica seguire –, oppure scelte collettive: per esempio, a quali ricerche piuttosto che ad altre dare la precedenza. Scienza e tecnica non sono, com’è ovvio, né buone né cattive, siamo noi a renderle tali con l’uso che ne facciamo. In quelle scelte, la storia della scienza può, a mio parere, dare un contributo importante, per come ha imparato a dialogare sia con la scienza di frontiera sia con le scienze sociali.

Che rapporto esiste tra scienza e storia?
Un rapporto che, più che stretto, direi simbiotico. La scienza è sempre in parte anche la propria storia. Qualsiasi esperta o esperto lavora in dialogo con una comunità vivente, ampia e sovranazionale, ma anche con quella del passato. Ogni volta che si produce un dato, ogni volta che si pubblicano i risultati di una nuova ricerca, quel dato e quella ricerca faranno inevitabilmente riferimento a quanto fatto da altri in precedenza. La prospettiva storica è indispensabile non solo per non ripercorrere strade già percorse che portano a vicoli ciechi, ma è spesso una fonte di ispirazione per nuove ricerche o per nuove risposte a vecchi quesiti, possibili grazie alle tecnologie e conoscenze sviluppate nel frattempo. Si pensi al successo recente dell’epigenetica, per esempio. Per non dire dei dati di lungo periodo di cui disponiamo, indispensabili alla ricerca in moltissimi ambiti: epidemiologici o ambientali. È straordinariamente complesso per chi fa ricerca oggi usare quei dati – per esempio le temperature – rilevati con strumentazioni e metodiche di cinquanta, cento o duecento anni fa. È evidente che in questi casi lavorare in team è indispensabile, così come per affrontare le sfide oggi più urgenti: il cambiamento climatico; le epidemie di demenza; un uso sostenibile delle tecniche genomiche e nanotecnologiche. Sono temi che per essere affrontati con qualche speranza di successo necessitano del lavoro di chi si occupa di scienza e tecnologia, ma anche di quello di chi si occupa di scienze sociali e politiche e di studi umanistici. La storia umana non è progressiva in ogni suo aspetto, un concetto controintuitivo che facciamo fatica a tenere in considerazione per ragioni anche evolutive. Per questo è importante la storia: ogni volta che dobbiamo affrontare una nuova sfida che comporta scelte difficili, perché insieme sociali e tecniche, la prospettiva storica può aiutarci a trovare soluzioni accettabili: soluzioni pragmatiche e di compromesso, non ideologiche o emotive.

Quando e come nasce la disciplina?
Direi che, se quello che ho detto prima è vero, la storia di quella cultura e pratica che chiamiamo scienza nasce con la scienza stessa, cioè con la rivoluzione di età neolitica. Quando 13.000 anni fa circa l’umanità inventò per la prima volta l’agricoltura (una classica invenzione multipla, avvenuta indipendentemente in luoghi e tempi diversi), alcuni piccoli gruppi di nostre antenate e antenati divennero stanziali e iniziarono a dividersi il lavoro a sostegno di una sopravvivenza meno drammatica e dolorosa di quella che li aveva spinti per alcuni milioni di anni, mentre evolvevano, a uscire dall’Africa e a vagare tra i continenti. Quegli umani iniziarono a osservare il mondo naturale in un modo nuovo. Un modo capace, per esempio, di seguire il ciclo di vita di una pianta che si era dimostrata commestibile e magari gradevole, per poi riuscire ad addomesticarla, coltivandola attorno al villaggio. Lo stesso avvenne nel caso di alcune specie animali. Contemporaneamente a quelle pratiche si deve essere sviluppata la capacità di tramandare di generazione in generazione quelle conoscenze naturalistiche, attraverso la memoria orale, ma anche con il disegno. Sulla rivista Nature, da quasi un secolo e mezzo uno dei luoghi di scambio tra chi si occupa di scienza, di politiche e di studi sulla scienza, è stato pubblicato qualche mese fa un articolo che descrive una roccia sulla quale è tracciato quello che – al momento – è ritenuto il disegno umano più antico mai trovato: pare risalga a 73.000 anni fa. Evidentemente molto prima dell’agricoltura qualche umano tentava già di lasciare traccia di sé e di ciò che osservava: gli inizi di ciò che chiamiamo storia. Oltre al fatto che se, come alcuni ripetono, furono le donne a inventare l’agricoltura, furono loro a osservare la natura per prime con un’attenzione, una sistematicità e anche un intento applicativo che abbiamo a lungo chiamato filosofia naturale e oggi chiamiamo scienza. Le donne sono state escluse dalla produzione di sapere, anche scientifico, a un certo punto della storia della cultura umana, ovunque. Ancora oggi, dopo che nel mondo cosiddetto occidentale ci sono rientrate e da un paio di secoli, faticano ad avere riconosciuti i loro meriti in modo adeguato: la storia ci aiuta a capire fenomeni complessi come questi, che hanno un andamento di medio lungo periodo non progressivo. In ogni caso, la disciplina denominata storia della scienza è evidentemente molto giovane. I primi corsi iniziano a diffondersi nelle università degli Stati Uniti verso la fine dell’Ottocento e in Italia le prime cattedre risalgono a un secolo dopo. Nel libro si racconta anche di quella storia istituzionale perché dice molto anche del ruolo della scienza nella società.

Come sta cambiando il ruolo della scienza nella nostra società?
Non so se sta cambiando ora più che in passato: scienza, tecnologia e medicina informano nel profondo le nostre società da molti secoli, se non millenni. Ciò che certamente sta cambiando, nel bene e nel male, è il potere dei nostri strumenti conoscitivi e tecnologici. Ma non saprei direi se stia davvero cambiando la percezione pubblica del ruolo della scienza nella società. Siamo nel pieno del guado di una rivoluzione analoga a quella che si verificò in età moderna con l’invenzione della stampa. La comunicazione digitale consente l’accesso alle informazioni, ma anche la partecipazione a una discussione pubblica da parte di voci a lungo escluse. Il mezzo che consente tutto ciò – internet – è così evidentemente denso di cultura scientifica: si pensi alla nuova mistica dell’algoritmo, che esalta alcuni e terrorizza altri. Oppure, pensiamo alle aspettative nei confronti di una medicina sempre più scientifica che ci dà l’illusione di poter curare tutte le malattie. Una medicina che allo stesso tempo in alcuni suscita paure che si manifestano con il rifiuto delle cure e il ricorso a palliativi inutili se non pericolosi. Tutto questo non è una novità: né la paura dei vaccini o il rifiuto delle cure contro il cancro, né l’entusiasmo per una scienza ritenuta capace di risolvere ogni problema umano. È già accaduto qualche cosa di analogo nella seconda metà dell’Ottocento, in un periodo di cambiamenti altrettanto rapidi: cambiamenti sociali e politici, oltre che tecnologici. La storia serve – o meglio, servirebbe – a fare tesoro delle esperienze passate. Per evitare le esaltazioni così come le paure irrazionali nei confronti delle novità della scienza.

Quale futuro per la scienza?
È già così difficile dare un senso narrativo logico e sostenuto da dati a ciò che è passato, le previsioni sono ancora più difficili: le variabili in gioco sono moltissime e la nostra mente fatica a gestirle tutte insieme, anche quando lavoriamo in team. Sono variabili che riguardano non solo il mondo naturale e i suoi cambiamenti, quello scientifico e le sue ambizioni conoscitive, ma anche quello sociale, che comprendiamo in modo infinitamente più approssimativo rispetto a quanto comprendiamo la natura non umana. Forse, la domanda che dobbiamo porci è: quale futuro vogliamo per l’umanità? La maggior parte delle scienziate e degli scienziati credono in una scienza che sia strumento di politiche che hanno come obiettivo – nel medio e lungo periodo – non solo gli abitanti umani della terra, ma anche le altre specie – animali e vegetali –, che sono indispensabili alla nostra sopravvivenza così come a quella della terra, con la sua aria e la sua acqua. La terra è un sistema chiuso, fuori dalla terra come specie non abbiamo speranze, ci converrebbe ricordarlo un po’ più spesso. Allo stesso tempo, il potere d’azione di alcuni strumenti che abbiamo inventato – strumenti tecnologici e sociali – è così grande che è quasi ridicolo, dal mio punto di vista, parlare ancora in termini di “nazioni”. Quello che propongo fin dalle prime pagine del libro è un approccio pragmatico a questi temi; un modo di procedere che tenga conto, insieme, dei dati scientifici, sociali e storiografici di cui disponiamo. Quei dati sembrano dirci che, vista la spaventosa crescita demografica mondiale dell’ultimo secolo, è giunto il momento di saper usare insieme le nostre conoscenze storiche e tecnico scientifiche, che sono veramente enormi, con quelle sociali e politiche, sulle quali invece siamo piuttosto carenti, a partire dalla nostra incapacità di gestire l’intolleranza nei confronti di chi ha idee, sesso e colore della pelle diversi dal nostro. Tratti tribali che dovrebbe ormai imbarazzare una specie che con Charles Darwin è stata capace di capire le proprie origini e poco più di un secolo dopo di inventare internet.

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