
All’interno della nostra vita, la memoria è onnipresente. Senza la capacità di ricordare informazioni ed effettuare operazioni su quelle non potremmo comunicare – l’utilizzo del linguaggio presuppone la sua conoscenza –, comprendere cosa avviene intorno a noi – la comprensione di un evento presuppone la conoscenza del significato di oggetti e persone –, e paradossalmente nemmeno muoverci – effettuare un movimento finalizzato e coordinato richiede di conoscere lo stato del corpo e dell’ambiente, di tenerlo a mente e di ricordarlo volta per volta quando cambia –. Se vogliamo poi spingerci ulteriormente più in là, la capacità di ricordare il nostro nome, cosa è accaduto nella nostra vita e chi sono i nostri cari, è ciò che ci rende umani; come ha scritto Eduardo Galeano: “Ricordare: dal latino re-cordis, ripassare dalle parti del cuore.”
Quali sono le principali teorie sulla psicologia della memoria?
Molti autori hanno sviluppato teorie sulla memoria nell’ultimo secolo ed è veramente molto difficile rispondere a questa domanda.
Quando pensiamo alle teorie principali, la prima che viene in mente è senza dubbio il modello modale di Atkinson e Shiffrin del 1968. Una teoria semplice, ma che ha il merito di formalizzare chiaramente due ambiti di memoria che da lì in poi diventeranno tematiche quasi separate: si parla di memoria a breve termine e di memoria a lungo termine. La prima si riferisce alla ritenzione di una quantità limitata di informazioni per un breve periodo – il numero dell’ambulatorio in cui verrò visitato comunicatomi alla fine dell’accettazione –; mentre la seconda ha a che fare con contenuti più complessi e duraturi, come gli eventi principali della nostra vita o il significato della parola sedia.
Un’altra teoria molto influente in relazione alla memoria a breve termine è quella della memoria di lavoro di Baddeley e Hitch, che la descrive come un magazzino che conserva per breve tempo informazioni e che effettua su di essere operazioni. Ad esempio, se ci viene mostrata una lista di numeri e richiesto di sommarli uno per volta, si sta utilizzando la memoria di lavoro. Volta per volta si conserva l’ultima cifra a cui si somma quella nuova e si ripete il processo finché necessario.
Se vogliamo guardare anche a concezioni più complesse sulla memoria a lungo termine, poi, troviamo la distinzione tra processi espliciti e impliciti; i primi riguardano i processi di memoria per tutti quei ricordi che siamo in grado di raccontare a parole, mentre gli altri l’utilizzo di informazioni contenute in memoria senza esserne del tutto consapevoli.
A queste e altre teorie abbiamo dedicato un capitolo nel nostro libro.
Come funziona realmente la nostra memoria?
Anche questa è una domanda difficile. Siamo così abituati a pensare alla nostra memoria da un punto di vista soggettivo che diamo per scontato tutto ciò che fa. Nell’atto di memorizzare informazioni dobbiamo necessariamente fare un’esperienza sensoriale di ciò che vogliamo poi ricordare – fase detta codifica –, quindi immagazzinarlo e, poi, quando è necessario accedere alla conoscenza conservata, ovvero ricordare l’informazione. Detta così può sembrare semplice, ma in realtà tutto ciò che accade tra la codifica e il ricordo di un evento non è sotto il nostro controllo consapevole. In altre parole, nel processo di memoria intervengono numerosi fattori, come l’orientamento dell’attenzione, la stanchezza, la familiarità con l’argomento, o il tono emotivo, che vanno a modulare la nostra prestazione.
Vi sono numerosi casi in cui l’accuratezza della nostra memoria è limitata – si parla di falsi ricordi – e ne parliamo in molte occasioni nel nostro libro, ma, a prescindere da questi, ciò che accade tra codifica e ricordo segue un percorso “fisso”. In senso generale, possiamo affermare che la nostra memoria – e nel dire ciò ci riferiamo alla memoria a lungo termine – tende a tenere traccia degli eventi che ci accadono con un moderato livello di qualità per un breve periodo di tempo, salvo poi trasformarli mantenendo solo l’essenziale. Il mantenimento limitato di poche informazioni, ma sempre accessibili – la chiamiamo memoria semantica – è un po’ lo scopo della nostra memoria e l’intero processo cognitivo ruota intorno a questo concetto. In altre parole, non ricordiamo la prima volta che abbiamo visto una bicicletta, o quello in cui ci hanno spiegato cos’è e come funziona, ma siamo in grado di riconoscerne una quando la vediamo in maniera estremamente rapida.
Quanta verità c’è in quello che ricordiamo?
A dispetto di quello che siamo abituati a pensare, la nostra memoria è molto imprecisa. Non solo a livello di quantità di informazioni che può contenere o elaborare, ma proprio in termini di accuratezza del ricordo. A livello soggettivo è estremamente difficile riconoscere questo fatto perché l’atto di ricordare è legato alla sensazione di rivivere un momento del proprio passato. Il tema dei falsi ricordi è forse quello più affascinante all’interno della psicologia della memoria e migliaia di articoli hanno indagato questo aspetto in numerose direzioni. È sufficiente mostrare un filmato con due macchine che si urtano e chiedere “secondo lei, a che velocità andavano le due auto quando si sono schiantate?” perché ci si ricordi l’episodio come più cruento di quello che effettivamente è stato.
Il caso più eclatante è quello della retrospettiva rosea, ovvero la tendenza a ricordare con maggiore frequenza ricordi positivi rispetto a quelli negativi e, addirittura, a ricordare a tinte positive alcuni eventi parzialmente negativi. Alcuni ricercatori hanno chiesto ai partecipanti al loro studio prima, durante e dopo una vacanza quali fossero le loro sensazioni in merito e hanno notato che aspettative e ricordi tendevano a essere significativamente più positivi rispetto all’esperienza effettiva. È molto probabile che ciò accada per un grande numero di episodi della nostra vita senza che noi ce ne accorgiamo.
In quali situazioni ricordiamo “meglio” e in quali “peggio”?
La nostra memoria ha un fondamento associativo, ovvero attiva automaticamente / involontariamente un ricordo quando determinate condizioni rimandano all’evento memorizzato. Un esempio molto noto è contenuto nel mastodontico lavoro di Marcel Proust. Nel primo volume de Alla ricerca del tempo perduto, Proust descrive magistralmente il funzionamento associativo della memoria: dopo aver mangiato un pezzo di madeleine, un dolce tipico francese, inzuppato nel tè, le sensazioni che scaturiscono gli provocano un ricordo molto intenso. Il sapore della madeleine lo riporta mentalmente alla prima volta in cui l’ha provato e alle sensazioni che aveva provato allora:
“E tutt’a un tratto il ricordo è apparso davanti a me. Il sapore, era quello del pezzetto di madeleine che la domenica mattina a Combray […], quando andavo a dirle buongiorno nella sua camera da letto, zia Léonie mi offriva dopo averlo intinto nel suo infuso di tè o tiglio.”
La nostra memoria funziona in gran parte in questo modo, anche per quanto riguarda l’utilizzo “controllato” di essa, ovvero quando ci è richiesto di studiare volontariamente delle informazioni. Si è visto infatti che quando apprendimento e recupero di un’informazione avvengono nelle medesime condizioni (e.g., stesso livello di ansia, stessa stanza, stesse sensazioni) la prestazione mnestica migliora. È diventata famosa una ricerca che ha mostrato come questo avvenga anche per le informazioni apprese e richiamate sul fondo di una piscina, in cui quindi il contesto era identico, paragonate a quelle apprese sul fondo e richiamate al di fuori.
A tal proposito, però, è necessario effettuare una puntualizzazione. Una memoria che funziona “meglio”, non è necessariamente un sistema che ricorda tutto. Anzi, perché una memoria possa funzionare bene deve poter mantenere solo lo stretto necessario ed essere in grado di smaltire – e quindi dimenticare – gli scarti. I processi di trasformazione e dimenticanza per i quali un ricordo molto complesso viene modificato perché rimanga solo l’essenziale sono processi centrali nella memoria.
Cosa hanno rivelato riguardo alla memoria gli studi più recenti nell’ambito delle neuroscienze cognitive?
Tramite le tecniche di neuroimmagine e di neurostimolazione sviluppate negli ultimi decenni, gli scienziati hanno indagato il funzionamento mnestico nell’uomo (e non solo) producendo un numero sterminato di lavori. Nell’ultimo capitolo del nostro libro ci concentriamo sulle ricerche che hanno studiato il cervelletto e il suo ruolo nella cognizione umana. Il cervelletto è una piccola struttura posizionata nella parte posteriore del cranio che contiene più della metà dei neuroni del sistema nervoso centrale ed è densamente connessa all’intero cervello. Tradizionalmente, il cervelletto è stato ritenuto coinvolto nella previsione motoria; persone con lesioni cerebellari ad esempio mostrano incapacità a coordinare i movimenti in risposta a variazioni dell’ambiente, come se fossero incapaci di aggiornare il movimento che stavano compiendo. Recentemente, però numerosi studi hanno mostrato anche che il cervelletto è coinvolto sostanzialmente in tutte le funzioni cognitive tramite la medesima capacità di base, la previsione appunto. Date queste evidenze scientifiche, la nostra argomentazione è semplice: se la memoria – sia essa legata al linguaggio, al movimento, alle emozioni, … – è un sistema di previsione e il cervelletto è coinvolto nella previsione, allora il cervelletto è un’area centrale nel processo di memoria.
Un cambio di paradigma sulle finalità della memoria, considerandola quindi come un sistema di previsione, ci riconcilia con la frustrazione che talvolta ci genera dimenticare un evento o non riuscire a ricordare tutto ciò che vorremmo. In ultima istanza, lo scopo principale di questo libro è mostrare che ricordare, dimenticare e distorcere interagiscono attivamente nel processo di memoria e lo rendono funzionale sul piano evolutivo. Se ricordassimo ogni cosa che ci accade e mantenessimo traccia di tutto, come i computer ad esempio, probabilmente ci saremmo estinti da tempo, perché non saremmo stati in grado di affrontare le sfide del futuro.
La memoria serve davvero a ricordare?
Per rispondere a questa domanda abbiamo impiegato un capitolo intero, anche se lungo tutta la nostra trattazione abbiamo affrontato temi utili a rispondere a questa domanda. Abbiamo anche scritto un libro pubblicato nel 2019, edito sempre da Carocci, dedicato interamente a questo tema.
Considerate le numerose evidenze scientifiche circa la trasformazione del ricordo, le distorsioni mnestiche e la dimenticanza, la risposta è no, la memoria non serve a ricordare. O meglio, la memoria non è un contenitore passivo di informazioni. È indubbio che tramite essa siamo in grado di rievocare eventi passati della nostra vita – con tutti i limiti di accuratezza di cui abbiamo parlato –, ma il fatto che ci renda capaci di ricordare non significa che questo sia il suo scopo evolutivo.. Questo passaggio rende coerenti tutte le evidenze in merito ai limiti della nostra memoria: mantiene poche informazioni ma essenziali perché si possano usare rapidamente in caso di necessità, trasforma ciò che contiene per avere una traccia sempre aggiornata su cui basarsi. Non ricordiamo dove abbiamo posteggiato l’auto dieci giorni fa, ricordiamo solo dove l’abbiamo lasciata l’ultima volta. Abbiamo scordato informazioni che volta per volta diventavano inutili, aggiornando ogni giorno il ricordo con l’informazione che serviva.
La memoria si è evoluta per consentire un migliore adattamento all’ambiente, funzionalità garantita non tanto dalla rievocazione del passato, quanto dall’adattamento di ciò che si ricorda in relazione al futuro. In altre parole, la memoria non serve a ricordare il passato ma a prevedere il futuro.
Tomaso Vecchi è direttore del Dipartimento di Scienze del Sistema Nervoso e del Comportamento dell’Università di Pavia e coordinatore dell’unità di neurostimolazione cognitiva dell’IRCCS Istituto Neurologico Nazionale Fondazione Mondino.
Daniele Gatti, dottorando di ricerca presso l’Università di Pavia, si occupa di temi legati alla psicologia della memoria