“Che cos’è la fiction” di Lorenzo Graziani

Dott. Lorenzo Graziani, Lei è autore del libro Che cos’è la fiction edito da Carocci: innanzitutto, quando c’è fiction?
Che cos'è la fiction, Lorenzo GrazianiPer rispondere a questa domanda è forse meglio introdurre subito una definizione molto generale del termine “fiction”: attraverso di esso si indicano solitamente tutte quelle rappresentazioni (letterarie, teatrali, cinematografiche, fumettistiche ecc.) che non hanno l’ambizione di riferirsi al mondo reale e che esistono in virtù di alcune concrete e specifiche attività umane. Una narrazione finzionale, dunque, è simile a una menzogna a livello referenziale poiché entrambe ricadono nel dominio delle “non-verità”, ma se ne distingue a livello intenzionale in quanto non è un’alterazione o una falsificazione della verità creata allo scopo di manipolare l’opinione del destinatario.

Per assegnare a una rappresentazione lo status di “fiction” è quindi necessario poterla distinguere da una menzogna. Se le cose stanno così, ci si deve allora chiedere se la capacità di distinguere tra falso e finzionale sia connaturata all’essere umano, oppure se rappresentazioni che rientrano nella nostra definizione di fiction vengano prodotte solamente in determinate condizioni storico-culturali. Esistono diverse teorie a sostegno di entrambe le posizioni: le prime vengono chiamate universaliste, mentre le seconde moderniste – in ossequio alla concezione più influente che associa la nascita della fiction all’avvento della modernità.

Come si struttura una teoria referenziale della fiction?
Quando descriviamo a qualcuno una persona, quella persona è il riferimento delle nostre espressioni. Lo stesso accade quando riassumiamo gli eventi narrati in un romanzo che ci è piaciuto particolarmente per consigliarlo a un nostro amico: le nostre espressioni si riferiscono proprio a quegli eventi. Sebbene le due situazioni appaiano in un certo senso simili, mentre nel primo caso vi sono delle persone reali a cui facciamo riferimento, nel secondo, visto che un romanzo è un’opera di fantasia, non vi è nulla: tutti sanno che i personaggi inventati non esistono. Apparentemente, dunque, le espressioni che compongono un’opera finzionale, non si riferiscono a niente.

Che gli esseri umani siano impegnati in pratiche mimetiche e traggano piacere e conoscenza dalla fiction sembra fuori di dubbio; maggiormente oscura è invece la natura dei correlati di tali attività, ovvero le entità finzionali: è chiaro che nel mondo dell’autore e dei lettori, i personaggi e le vicende narrate non possiedono una vera e propria dimensione spazio-temporale, condizione che a molti filosofi pare necessaria per figurare nell’inventario di tutto ciò che esiste. L’accordo, tuttavia, non è unanime poiché non manca chi sostiene che le entità finzionali non possano essere così facilmente eliminate, ma che, al contrario, sia maggiormente vantaggioso dal punto di vista teorico considerarle, in qualche modo, reali. L’alternativa è dunque tra una posizione antirealista – o eliminativista – e una realista nei confronti delle entità finzionali. È chiaro che solo in ambito realista si può davvero parlare di “teoria referenziale della fiction” poiché i sostenitori dell’eliminativismo sostengono che quando riteniamo che gli enunciati riguardanti personaggi ed eventi immaginari si riferiscano a qualcosa ci lasciamo ingannare dalla loro forma grammaticale superficiale, mentre in realtà essi sono privi di un vero e proprio riferimento.

Le più note concezioni realiste riguardanti le entità finzionali prendono le mosse dalla teoria dell’oggetto di Alexius Meinong, secondo cui gli oggetti vanno considerati come puri correlati di insiemi di proprietà, indipendentemente dal loro modo di darsi al soggetto: in altre parole, il fatto di esemplificare una proprietà è condizione necessaria e sufficiente per essere un oggetto, che poi questo oggetto esista è irrilevante per la sua struttura. Il motivo per cui le idee di Meinong hanno sempre esercitato grande attrazione su chi cerca di strutturare una teoria referenziale della fiction è palese: gli enunciati che riguardano personaggi inventati non sono privi di riferimento in quanto designano una particolare varietà di oggetti inesistenti che chiamiamo generalmente entità finzionali.

Per capire meglio di cosa si tratta, proviamo ora a descrivere l’arco di vita di un’entità finzionale. In un primo momento, c’è qualcuno che immagina un oggetto caratterizzandolo in un certo modo (aspetto, temperamento, nome ecc.); successivamente questo oggetto può essere rappresentato in diverse storie e le sue caratteristiche aumentano a mano a mano che le storie crescono di numero; una volta divulgate, queste storie diventano patrimonio comune e ci si potrà riferire a correlati di proprietà da esse mobilitati in modo non dissimile da come si fa nel caso di altri oggetti. È solo in quest’ultimo passaggio che si può parlare dell’oggetto immaginario come di un’entità finzionale in senso stretto: se l’autore, infatti, narra cose non vere, ovvero cose che non hanno alcun riscontro nella realtà, la comunità dei fruitori riconosce l’operato dell’autore non come una serie di menzogne, bensì come la creazione di una storia.

Che cos’è un mondo possibile?
Nonostante per molti filosofi – ma anche e soprattutto per chi di filosofia non si occupa – il concetto di mondo possibile appaia indissolubilmente legato al nome di Leibniz, la sua genealogia può essere tracciata all’indietro fino alle origini del pensiero occidentale. Come infatti apprendiamo da alcuni passi delle Vite e dottrine dei più celebri filosofi di Diogene Laerzio, Leucippo e Democrito ritenevano che, se tutto ciò che esiste è prodotto da urti di atomi incorruttibili che si aggregano e si disgregano muovendosi nel vuoto, i mondi altro non fossero che i risultati di queste azioni di raggruppamento: ne consegue non solo che i mondi sono soggetti a generazione e corruzione come ogni cosa creata dall’associazione atomica, ma che esistono in numero infinito, poiché eterni sono gli atomi e illimitato il vuoto che li ospita. L’antica idea secondo cui il nostro universo fa parte di un “multiverso” composto da una pluralità di universi tra loro più o meno isolati non ha smesso di affascinare, tanto che gode di un certo successo anche tra i fisici contemporanei.

Tralasciamo per ragioni di brevità le ipotesi formulate dagli scienziati e concentriamoci su quelle fornite dai filosofi. Possiamo quindi distinguere quattro principali risposte alla domanda “Che cos’è un mondo possibile?”:

  • I mondi possibili sono dei concetti che solo Dio intende compiutamente e a uno soltanto di questi concede diritto di esistere (si tratta della nota posizione di Leibniz).
  • I mondi possibili formano un’immensa pluralità di mondi concreti, abitati da individui altrettanto concreti, tra i quali si trova anche quello di cui facciamo parte.
  • I mondi possibili sono speculazioni compiute “contro i fatti” del mondo attuale, l’unico realmente esistente, e che riguardano i modi in cui quest’ultimo avrebbe potuto essere.
  • I mondi possibili sono modi diversi di organizzare e categorizzare l’esperienza. Secondo i sostenitori del relativismo e del costruttivismo radicale, infatti, la realtà è suscettibile di essere descritta in diversi modi e nessuna delle descrizioni risultanti può essere considerata “migliore” delle altre.

Che relazione esiste tra mondi possibili e mondi finzionali?
L’idea secondo cui ogni opera d’arte permette di affacciarsi su di un altro mondo possibile è un luogo comune molto diffuso di cui è difficile rintracciare l’origine. Mentre la relazione tra poíesis e possibilità era evidente già per Aristotele, limitandoci all’epoca moderna, possiamo ricordare che, se il potere demiurgico dell’artista che offre al suo pubblico un mondo alternativo in cui immergersi è già celebrato nella nota Defense of Poesy del poeta elisabettiano Sir Arthur Sidney, è Alexander Gottlieb Baumgarten a fondare la legittimità degli studi estetici su una concezione dell’invenzione artistica come produttrice di mondi possibili: per il suo fondatore, infatti, l’estetica filosofica si pone come scienza dell’accesso ai mondi possibili, poiché tende a segnare, modellare ed educare il passaggio dal possibile al reale e quello dal reale al possibile, contribuendo così a farci comprendere il mondo nella sua totalità. Non è un caso che Baumgarten abbia concepito l’estetica, sviluppando il pensiero leibniziano, come strumento d’indagine di ciò che l’anima esprime soltanto “confusamente”: per Leibniz, sebbene il moto di realizzazione porti all’emersione di un solo mondo, nel fondo oscuro delle monadi si agitano in continuazione virtualità non attualizzate, essenze non realizzate che, loro malgrado, presentano tutte “qualche inclinazione all’esistenza”. Già Leibniz aveva attribuito alla fiction narrativa la capacità di offrire, agli abitanti del mondo attuale, un’immagine – per quanto incompleta – degli altri mondi possibili che, anche se non esistono realmente, esistono nondimeno nell’infinito intelletto divino.

La relazione privilegiata tra fiction narrativa e possibilità non perde importanza all’interno di una visione del mondo più laica di quella leibniziana: è infatti nei personaggi romanzeschi – e il romanzo è la principale forma narrativa finzionale – che la rappresentazione fisica e psichica dell’essere umano continua a trovare piena realizzazione; è proprio grazie a questi individui inesistenti, abitanti di mondi possibili diversi dal nostro, che impariamo molte cose riguardo a ciò che esiste nel nostro mondo: l’accesso a queste vite possibili, permesso dalla natura finzionale delle narrazioni romanzesche, è l’unico modo che abbiamo di uscire da noi stessi e fare esperienza, per così dire, “in terza persona”.

Per quanto riguarda la relazione tra mondi possibili e mondi finzionali, uno dei primi a riaffermarla in termini moderni è stato il filosofo americano David K. Lewis. Egli, in un saggio del 1978, sostiene, come avevano fatto altri prima di lui, che un atto narrativo finzionale è compiuto da un narratore che finge o simula di raccontare fatti di cui è a conoscenza, senza farlo per davvero. La novità è che questa consueta definizione di discorso finzionale viene articolata sfruttando i mondi possibili. Se nel nostro mondo abbiamo un discorso fattuale quando qualcuno compie un atto narrativo che consiste nel dire la verità a proposito di qualcosa che conosce, un discorso finzionale coinvolgerà invece due atti narrativi che si svolgono in mondi diversi: un atto narrativo a, compiuto dall’autore nel mondo attuale, che corrisponde parola per parola a un atto narrativo a’ fatto in qualche altro mondo possibile – diverso da quello attuale – da qualcuno che ha l’intenzione di fare asserzioni a proposito del mondo in cui si trova.

Prendiamo il caso delle storie del più noto detective della storia della letteratura. Nel mondo attuale l’autore Arthur Conan Doyle narra le vicende di Sherlock Holmes senza aver l’intenzione di parlare di un suo compagno di mondo; ma l’atto narrativo compiuto da Doyle corrisponde parola per parola a quello fatto in qualche altro mondo possibile in cui vi sono Holmes e un narratore che ha l’intenzione di dire la verità a proposito di Holmes. Perciò, gli enunciati prodotti nel mondo attuale da Doyle, che creano il mondo finzionale in cui agisce Holmes, si riferiscono, per definizione, a un individuo che abita un mondo possibile differente da quello attuale.

In che modo la narratologia contemporanea ha associato i mondi di invenzione ai mondi possibili?
Con il termine “narratologia” si intende lo studio critico dei generi e delle strutture della narrativa. Questi aspetti hanno iniziato a essere analizzati sistematicamente tra il 1915 e il 1930 dai formalisti russi, influenzati dalle ricerche folcloristiche di Veselovskij e Propp. Per quanto riguarda i generi narrativi, lo scopo principale dei narratologi è quello di individuare strutture particolari e modelli generali secondo cui può essere disposto il materiale narrabile; infatti, al mutare del genere selezionato, cambiano gli effetti che la narrazione suscita nel pubblico. Per questo motivo, come già sapevano gli antichi oratori, dopo aver trovato il materiale narrabile, bisogna saperlo disporre in maniera adeguata a catturare l’attenzione del pubblico e a suscitare gli effetti desiderati. I due momenti, riconosciuti dalla tradizione retorica antica, dell’inventio – l’azione di trovare gli argomenti giusti – e della dispositio – l’atto di disporre suddetti argomenti nel modo più efficace – corrispondono grossomodo alla moderna distinzione narratologica, formulata dai formalisti russi, tra fabula (o storia) e intreccio.

La “narratologia classica” pone al centro la fabula, cioè l’ordine degli avvenimenti descritti nel racconto secondo la loro sequenza logica e cronologica, trattando l’intreccio come la dislocazione o inversione dell’ordine temporale per creare particolari effetti. Nel nuovo clima intellettuale del poststrutturalismo, il modello di Gérard Genette – in grado di distinguere solamente tra «tempo della storia» e «tempo del racconto», ossia la manipolazione della cronologia della fabula – è stato giudicato inadeguato a comprendere la complessità della temporalità narrativa. Le teorie narratologiche più recenti hanno infatti messo in luce come la percezione della divisione tra il tempo che scorre nel mondo finzionale e il tempo che scorre per il lettore tenda a essere soppressa dalle strategie narrative che creano uno stato di immersione; allo stesso tempo è stato rilevato come gli anacronismi – concepiti semplicemente come movimenti avanti e indietro lungo l’asse cronologico del mondo finzionale – non catturino l’intricata rete di sentieri temporali attivati dalla fiction narrativa. Basta pensare a effetti narrativi fondamentali come quelli legati alla suspense e alla curiosità: essi sono prodotti non solo grazie alla dislocazione degli eventi, ma anche a una serie di strategie volte a stimolare nel fruitore la produzione di ipotesi, ovvero di mondi possibili che possono essere, in seguito, confermati o meno nel mondo finzionale.

Questo spostamento dell’attenzione dalla fabula all’intreccio, ossia al concreto sviluppo del racconto, permette di approfondire maggiormente la valutazione degli effetti che le strutture narrative hanno sul lettore, e per farlo i teorici della letteratura hanno sfruttato, combinandole, le potenzialità offerte dalla semantica dei mondi possibili e dalle moderne scienze cognitive. Facendo perno, in particolare, sulla nozione di controfattualità, la “nuova narratologia” – così chiamata per distinguerla da quella “classica” degli anni Sessanta e Settanta – è riuscita a far luce sulla vasta gamma di mondi generati durante la narrazione.

Lorenzo Graziani è dottore di ricerca in Teoria della letteratura e docente nella scuola secondaria di secondo grado

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