
Che cosa vide esattamente Darwin alle Galapagos?
Per decenni e fino agli anni 1970-1980, prevaleva una interpretazione della genesi della dottrina darwiniana incentrata sull’esperienza cruciale delle osservazioni effettuate nell’arcipelago delle Galapagos. Fringuelli e mimi, iguane di mare e tartarughe, diversi nelle diverse isole, si diceva, avevano aperto gli occhi di Darwin ai fenomeni della speciazione. Le isole erano geologicamente recenti, forme di vita provenienti dal continente americano vi si erano insediate, e diffondendosi nelle diverse isole si erano adattate dando origine a vere e proprie nuove specie. L’evoluzione era iscritta nella natura delle isole, e il genio di Darwin aveva saputo decifrarne il linguaggio. In realtà, ciò che aveva tenuto occupato Darwin nelle settimane passate sull’arcipelago era la geologia delle varie isole, tanto che prestò scarsa attenzione alla fauna e alla flora. La raccolta dei famosi fringuelli non fu sistematica, e solo al ritorno in patria Darwin si rese conto che la fauna dell’arcipelago poteva tornargli utile. Fu però costretto a consultare le collezioni del Capitano FitzRoy, depositate al British Museum, molto più complete delle sue. Infine, come ho cercato di argomentare nella mia introduzione, i naturalisti del tempo non avrebbero considerato la fauna delle Galapagos come un fenomeno talmente nuovo, da far loro abbandonare la convinzione della fissità delle specie. L’idea che le Galapagos aprirono gli occhi a Darwin parte dall’assunto del tutto ingiustificato che i naturalisti del tempo fossero men che abili, e che non avessero già considerato la questione della presenza di specie molto simili in località vicine ma isolate da barriere naturali, come appunto accadeva in molti arcipelaghi. Diversi eminenti naturalisti creazionisti consideravano come ovvio che specie appartenenti allo stesso genere subissero cambiamenti se esposte a nuove condizioni di vita, a volte persino se trasferite da un lato all’altro della stessa isola. Al ritorno in patria, dopo essere arrivato alla conclusione che le sorti delle sue teorie geologiche erano legate alla questione delle specie, Darwin optò per una interpretazione evoluzionistica dei fenomeni di distribuzione geografica dei viventi, incluse le specie delle Galapagos che altri interpretavano in tutt’altro modo. Le vicende della crosta terrestre erano il risultato dell’azione di cause naturali per tempi insondabili, e lo stesso valeva per le trasformazioni successive delle faune e delle flore alla superficie della Terra.
Charles Darwin fu davvero un audace pensatore circondato da fanatici creazionisti?
È questo un popolare, anacronistico assunto condiviso da molte ricostruzioni della vita e del pensiero di Darwin. Si è spesso caduti nella facile trappola di considerare che quel che Darwin non dice non sia mai esistito e non è in ogni caso interessante: in altre parole, si è letto il tempo di Darwin dall’interno delle sue opere, e non le sue opere nel contesto del suo tempo. Il ridurre i complessi dibattiti contemporanei a una manicheistica dicotomia evoluzione-creazionismo risponde solo allo scopo di esaltare il coraggio e l’originalità di Darwin, ma non ha fondamento storico. Certo, molti ammettono che prima di Darwin il naturalista francese Jean-Baptiste Lamarck aveva formulato una teoria della lenta trasformazione delle forme di vita nel corso delle ere geologiche. Nel tentativo di allontanare il sospetto che Darwin avesse qualcosa a che fare con un pensatore sbrigativamente accusato di essere dedito a gratuite elucubrazioni teoriche, si è insistito con forza sulle differenze radicali tra di due, che di certo erano importanti. In realtà, le loro concezioni del tempo geologico, della lentezza delle trasformazioni, della necessità di leggere gli alberi della vita nei termini di una teoria del cambiamento erano per molti versi simili. Ma non basta. Tra i due, era Darwin a credere fermamente nella trasmissione per via di generazione dei caratteri acquisiti nel corso della vita individuale, non Lamarck, per il quale il cambiamento era possibile solo nelle primissime fasi della vita dell’organismo. Solo gli infinitesimi tratti adattativi acquisti nelle prime fasi di vita potevano essere trasmessi dall’animale adulto tramite la riproduzione con individui anch’essi portatori degli stesso tratti, mai le modifiche casuali verificatesi nell’età adulta. Inoltre, Lamarck era solo uno dei tanti naturalisti europei a porsi domande sulla successione temporale e geografica delle forme di vita dovuta a meccanismi naturali. In Francia, ad esempio, tra 1800 e 1850 una serie di dizionari di scienze naturali, alcuni molto popolari, ospitavano lunghe discussioni su diversi modelli atti a dar ragione del frastagliato albero della vita e del suo divenire storico. In Inghilterra, come ho dettagliato nel mio libro L’ evoluzionismo prima di Darwin. Baden Powell e il dibattito anglicano (1800-1860) (Morcelliana, 2014), persino dei teologi della Chiesa anglicana erano arrivati alla conclusione, già alla fine degli anni 1830, che la formulazione di una spiegazione della storia della vita sulla terra in termini di leggi naturali era ormai solo questione di tempo: gli amici della fede dovevano attrezzarsi per trovare il modo di inglobare le nuove teorie nell’apologetica cristiana. Se è vero che ambienti della scienza istituzionale evitavano accuratamente di affrontare tematiche delicate come la questione di una spiegazione dei fenomeni vitali in termini di leggi naturali, è anche vero che larghi strati del pubblico colto si mostravano interessati a una possibile spiegazione del succedersi delle forme di vita sulla superficie del globo e attraverso le ere geologiche.
Cosa fece il naturalista inglese dopo L’origine delle specie e L’origine dell’uomo e la selezione sessuale?
Come ho già accennato, ci si sofferma solitamente sulle opere di Darwin direttamente consacrate alla sua teoria e alle applicazioni alla storia naturale dell’umanità. Si parla raramente del suo capolavoro sui Cirripedi, un’opera pubblicata tra il 1851 e il 1854 che gli valse unanimi riconoscimenti internazionali, e ancor meno di gran parte delle opere che fece seguito all’Origine delle Specie. Persino dell’Origine dell’uomo si ricorda di preferenza la discussione della discendenza da un progenitore comune a tutti i primati, e molto meno le pagine dedicate alla selezione sessuale, un complesso di teorie che stava molto a cuore a Darwin. L’opera sull’uomo costituiva in effetti il trattato più completo mai pubblicato sulle scelte sessuali operate dai viventi dotati di sessi distinti, dagli insetti al gentiluomo inglese. A partire dal 1859 Darwin moltiplicò i suoi sforzi nel settore della botanica, di cui parlerò nei paragrafi che seguono. Vorrei ricordare l’opera sull’espressione delle emozioni, inizialmente concepita come una appendice all’Origine dell’uomo, poi pubblicata come trattato a sé stante nel 1872. Come spesso accadeva per le sue ricerche, Darwin inviò un questionario a centinaia di corrispondenti e funzionari coloniali chiedendo di descrivere i modi in cui collera, dolore, gioia, stupore venivano espressi con posture del corpo e del viso. Il materiale raccolto permetteva di distinguere tratti espressivi comuni a tutti gli esseri umani sin dagli inizi dell’ominazione, da tratti sviluppatisi successivamente, specifici ai membri di diverse civiltà e popolazioni. L’opera conobbe più successo nel ventesimo secolo che nel diciannovesimo, ed è considerata a giusto titolo uno dei grandi classici di Darwin, anche se meno letta dell’Origine delle specie. È d’obbligo citare anche l’ultima opera di Darwin, il trattato sull’azione dei vermi di terra (1881). Le ricerche erano cominciate quasi per caso dopo il ritorno in Inghilterra, quando corteggiava Emma, ospite della proprietà dello zio Josiah Wedgwood, padre della futura sposa. Darwin aveva continuato a raccogliere informazioni e appunti di lettura, e aveva anche intrapreso esperimenti cui buona parte della famiglia aveva preso parte, per valutare le capacità sensoriali dei lombrichi. Solo a Darwin poteva venire in mente di chiudere la sua carriera dimostrando come esseri all’apparenza così insignificanti giocassero un ruolo fondamentale nell’erosione dei continenti e nel rendere fertile il suolo, permettendo lo sviluppo della vegetazione e della vita animale..
Quale ruolo ebbero le sue ricerche botaniche nella strategia di approfondimento e di diffusione della sua teoria dell’evoluzione?
Darwin venne eletto corrispondente straniero dell’Académie des sciences di Parigi solo nel 1878, nella sezione di botanica. Si continua a ripetere che si era trattato di una sorta di beffa, eleggerlo in botanica e non in zoologia. In realtà, le opere di botanica di Darwin convinsero più colleghi scettici che non l’Origine delle specie. Darwin scrisse ben sei libri e settantacinque articoli di argomento botanico, e tutti costituivano approfondimenti e applicazioni originali del suo corpo teorico in continua trasformazione. Solo per citare un singolo esempio, qualche autore aveva già osservato che l’impollinazione di molte piante, le orchidee in particolare, era affidata a insetti che mostravano un marcato adattamento allo scopo. Darwin estese le osservazioni e gli esperimenti a centinaia di orchidee, mostrando come non si possono affrontare temi botanici cruciali, come la riproduzione, senza allargare il campo d’indagine al mondo animale e alle interazioni piante-animali. I suoi studi sulle piante carnivore contestavano l’assunto che le piante non hanno capacità di movimento rapido e tantomeno capacità digestive – le carnivore, appunto, hanno sviluppato capacità che attribuiamo esclusivamente alla vita animale. Dunque, la divisione tra piante e animali è il risultato di un processo storico di lunghissima durata; la selezione naturale, Darwin concludeva, riesce a dotare organismi viventi di tratti che la nostra ignoranza considera come incompatibili col regno organico di appartenenza. Studiando i movimenti delle foglie, e poi delle radici, aveva dimostrato che le piante sono dotate di una sensibilità ben più raffinata di quella resa possibile da cellule o terminazioni nervose: la sensibilità era un tratto comune a tutta la materia vivente, anche se era molto più spiccata nelle piante che non negli animali. La scoperta apportava ulteriore supporto all’ipotesi che piante e animali discendessero da forme di vita comuni. Era questa una tesi forse tra le più radicali scaturite dalle ricerche del naturalista inglese.