“Cesare Pavese. Una vita tra Dioniso e Edipo” di Monica Lanzillotta

Prof.ssa Monica Lanzillotta, Lei è autrice del libro Cesare Pavese. Una vita tra Dioniso e Edipo, edito da Carocci, una figura dalla quale si dice “irretita”: che rilevanza assume, nel panorama della letteratura italiana del Novecento, l’opera dello scrittore piemontese?
Cesare Pavese. Una vita tra Dioniso e Edipo, Monica LanzillottaPavese sfugge a ogni collocazione nel territorio letterario del primo Novecento: è lontano sia dalle ideologie progressiste sia dall’esasperato soggettivismo delle avanguardie. Volendo impiegare una categoria storico-letteraria, può essere definito un modernista, in quanto dialoga con le letterature antiche e moderne, con le più contemporanee teorie filosofiche e scientifiche (psicoanalisi, etnologia, storia delle religioni), con i linguaggi universali del mito, del cinema, del teatro, dei vestiti e fiori, e fa confluire tutto in un sistema di pensiero rizomatico, che non prevede il rispetto per le appartenenze culturali. Per Pavese l’arte ha origini magiche e rituali e le sue opere sono caratterizzate da ambientazione sommaria, dettato essenziale e tagliente, ritmo e riprese simmetriche. Lo scrittore non è interessato a creare un ambiente socialmente determinato e nemmeno dei personaggi, non ha tesi da dimostrare: mette in scena il ritmo del “farsi” della vita interiore, attraverso due ingredienti strutturali: le immagini-racconto e il dialogo. Le immagini-racconto sono la ritualizzazione moderna degli epiteti esornanti di Omero, sono racconti dentro il racconto alludenti alla realtà interiore del personaggio. Il protagonista delle opere pavesiane è impegnato nel recupero memoriale dell’infanzia e nella presa di coscienza del destino: ignaro del destino, ne prende consapevolezza a brandelli, ripercorrendo le tappe fondamentali della sua infanzia e adolescenza, illuminando il presente attraverso il riemergere del passato. Il dialogo è considerato da Pavese, come scrive nel Mestiere di vivere, la sua «vera musa prosastica»: i suoi personaggi si realizzano nel rapporto creato dalla loro conversazione, che è secca e sentenziosa. Pavese considera i Dialoghi con Leucò il suo libro più significativo, proprio perché i testi sono basati su rapide battute dialogiche. Tutto questo mi ha irretita!

Come si sviluppa la sua formazione?
La formazione dello scrittore piemontese si compie a Torino: inizia nel 1914, alla scuola elementare privata “Trombetta”, e si conclude nel 1930 con la laurea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia. Centrale è la frequentazione del Regio Ginnasio D’Azeglio, dove stringe amicizia con formidabili compagni di classe e di scuola, legami che si consolideranno all’università. Tra i professori del liceo ad assumere un ruolo centrale nella formazione del giovane Pavese è Augusto Monti, sia per la statura culturale (ama la letteratura classica e ha uno spiccato interesse per i problemi della riforma della scuola), sia per la statura politica (è interventista democratico, fortemente anti-giolittiano): il professore diventa per il giovane allievo punto di riferimento culturale e affettivo (è una sorta di sostituto del padre perso in tenera età). L’amicizia tra i due si consolida pochi mesi prima dell’iscrizione di Pavese all’università, quando va a trovare Monti durante le vacanze estive, e continua poi a Torino dove l’allievo porta con sé i suoi più intimi amici del D’Azeglio. A questo nucleo iniziale si uniscono altri “maturati” del D’Azeglio, che non sono allievi diretti di Monti, tra cui Antonicelli, Argan, Bobbio, Chabod, Geymonat, Ginzburg, Mila, Pinelli e Ruata. Nasce in questo modo la cosiddetta “confraternita” di ex allievi del D’Azeglio i cui incontri, solitamente il sabato pomeriggio, avvengono nei caffè torinesi (il Sabaudo, il Nazionale, il Rattazzi). Poi eleggono come sede degli incontri lo studio di Mario Sturani, al n. 2 di via Mazzini, o le case dell’uno o dell’altro, e discutono di letteratura, arte, filosofia e politica. I giovani dazegliani vanno spesso al cinema, anche perché Torino è in questo periodo la capitale italiana dell’industria cinematografica. Pavese, in particolare, inizia a interessarsi del cinema americano all’età di diciassette anni: si reca spesso nei cinematografi di “barriera”, frequentati da operai, commesse e meridionali emigrati, perché i biglietti sono meno cari in quanto i film arrivano dopo le proiezioni nelle sale di “lusso”. I film americani sono amati da Pavese perché mettono in scena la vita moderna di uomini e donne (impiegati, operai, ecc.) che vivono i casi dell’esistenza d’ogni giorno e perché celebrano la dionisiaca “barriera” che viene assurta, già in questi anni giovanili, a poetica. Il giovane Pavese, contrapponendosi polemicamente a Strapaese e a Stracittà, i due movimenti letterari antitetici che hanno fortuna durante il periodo fascista, si fa aedo di Strabarriera: valorizza la zona liminare della città che è invasa dalla campagna, la “campagna in città”. L’interesse per il cinema è testimoniato anche da cinque saggi composti tra il 1926 e il 1930 e dal suo primo soggetto cinematografico, Un uomo da nulla, che risale al 1927. Alla scrittura professionale per il cinema tornerà nel 1950, quando comporrà ben otto soggetti per le sorelle Doris e Constance Dowling. Nel dopoguerra, ad incantare Pavese saranno i capolavori del neorealismo italiano di registi come De Sica, De Santis, Lattuada, Rossellini e Visconti. Lo scrittore affermerà, intervistato da Leone Piccioni alla radio nel 1950, che Ossessione, Roma città aperta e Ladri di biciclette «hanno stupito il mondo» e che considera Vittorio De Sica «il maggior narratore contemporaneo», assieme a Thomas Mann.

Che rapporto intrattenne lo scrittore con la casa editrice Einaudi?
Nel 1933 Giulio Einaudi dà vita all’omonima casa editrice, in via Arcivescovado 7, affiancato da altri formidabili ventenni, tra cui Cesare Pavese e Leone Ginzburg che, come lui, provengono dal liceo D’Azeglio e hanno un identico retroterra politico-culturale. Pavese, nel giro di pochi anni, diventa il fulcro del sistema organizzativo della casa editrice perché oltre a possedere un’elevata statura come “organizzatore” e “produttore” di cultura, dimostra di conoscere approfonditamente non solo la letteratura classica e anglo-americana, ma anche quella francese, tedesca, russa e orientale. Pavese è un lavoratore infaticabile: passa le sue giornate a casa o in ufficio a rivedere bozze e segue con grande pignoleria tutte le fasi di produzione del libro. Lavora come direttore e consulente editoriale alle collane “Saggi”, “Poeti”, “Narratori contemporanei”, “Universale”, “Millenni” e “Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici”. Quest’ultima, condiretta con Ernesto De Martino, rappresenta la più autentica novità del Dopoguerra: Pavese, in pieno neorealismo, di fronte a una letteratura decisamente orientata all’analisi e alla rappresentazione della realtà, vuole far conoscere testi di etnologia, antropologia, storia delle religioni, pressoché sconosciuti in Italia e farsi promotore di un nuovo umanesimo da rifondare sui testi di Otto, Frobenius, Kerényi, Eliade ecc., autori tutti bollati di irrazionalismo pseudoscientifico e considerati portatori di eresie decadenti. L’attività editoriale di Pavese è fatta pertanto di sfide coraggiose, che esprimono la sua concezione antidogmatica della cultura: cerca di promuovere la conoscenza di testi e ambiti di sapere sconosciuti alla cultura italiana ma di grande interesse, che contribuiscono a rendere il clima di quegli anni ricco di stimolanti controversie culturali.

Quali vicende accompagnano il suo esordio come scrittore?
Il suo esordio ufficiale come scrittore si realizza con la pubblicazione di Lavorare stanca nel 1936 ma, tra il 1922 e il 1931, tra i quattordici e i ventidue anni, tra gli anni del liceo e quelli dell’università, si era cimentato in quasi tutti i generi letterari. Nel corso del suo apprendistato come scrittore e traduttore, Pavese si rivela lettore dagli ampi interessi: oltre a studiare per il suo percorso scolastico, legge molte opere sia italiane che straniere, che costituiscono i modelli per comporre a sua volta poesie e racconti. Si immerge nella poesia latina, nella tradizione lirica italiana (dagli Stilnovisti ai Crepuscolari) e nella lettura dei maggiori esponenti moderni della letteratura italiana ed europea, soprattutto inglese, francese e tedesca. Legge con passione anche i romanzi d’avventura di Salgari, Jack London e Melville che gli consentono di evadere in spazi fantastici. La vocazione poetica di Pavese è molto precoce: tra il 1919 e il 1920 compone la sua prima poesia dedicata alla Rivoluzione russa intitolata Trotsky e Lenin van morti e, tra il 1922 e il 1926, scrive numerosi racconti e poesie imitando soprattutto Dante, Petrarca e gli scrittori romantici. Non raggiungendo risultati originali, inizia a trovare la sua strada senza rifare gli altri, nei canzonieri intitolati Rinascita, Le febbri della decadenza e il Blues della grande città, in cui si dà la posa di poeta decadente e sostituisce ai metri della tradizione i versi liberi senza schemi di riferimento. La svolta arriverà con l’immersione nelle Leaves of Grass di Walt Whitman (a cui dedicherà la tesi di laurea) e nella Spoon River Anthology di Edgar Lee Masters, poeti che inducono Pavese a fondere poesia e narrativa: approda così alla stesura delle splendide poesie di Lavorare stanca.

Che rapporto ebbe Pavese con i classici e con la letteratura europea e angloamericana?
Pavese, sin da giovanissimo, percepisce come angusti gli orizzonti dell’identità culturale nazionale fascista e si apre alle lingue e alle culture del mondo antico (studia greco e latino) e moderno (conosce francese, inglese e tedesco), cimentandosi anche nel mestiere di traduttore: ama dionisiacamente i territori di frontiera, opera un allargamento dei confini che non prevede gerarchie e distanziamenti tra culture. Tra i quattordici e i ventidue anni appronta numerosi lavori di traduzione dei classici latini (i più significativi sono i Carmina di Catullo, le Bucoliche e le Georgiche di Virgilio, le Odi di Orazio) e studia la lingua e la cultura greca nei mesi che precedono l’iscrizione all’università e tornerà a studiare il greco tra il 1935 e il 1936, approntando anche diverse traduzioni, tra cui versi dell’Iliade e dell’Odissea, l’Edipo re e il Filottete di Sofocle, il Fedone di Platone, tredici Dialoghi di Luciano, versi delle Coefore di Eschilo, liriche o passi di Anacreonte, Bacchiide, Ibico, Leonida, Lisia, Meleagro, Mimnermo, Pindaro, Solone, Simonide e Saffo; tra il 1942 e il 1944, tornerà a rileggere e a tradurre i classici greci, trovando anche appoggi alla sua poetica del mito (è particolarmente interessato al tema del destino tragico). La sostanziale importanza della letteratura classica viene rimarcata da Pavese nella celebre Intervista alla radio quando, parlando di sé in terza persona, dirà: «prima che italiane le sue letture sono classiche e poi sovente straniere». Sempre tra i quattordici e i ventidue anni, traduce autori inglesi, americani, tedeschi e francesi. L’interesse per la lingua e la cultura tedesca si riaccenderà nel 1935, durante il periodo del confino a Brancaleone Calabro, quando leggerà in particolare le opere di Nietzsche, e qualche anno dopo, quando si rifugerà, dopo l’8 settembre 1943, a Serralunga di Crea, dove tradurrà i primi 270 aforismi del Der Wille zur Macht. L’interesse per la letteratura anglo-americana si trasformerà in un mestiere, quello del traduttore, che renderà celebre Pavese e che ha inizio ufficialmente nel 1931, quando pubblica con Bemporad la traduzione di Il nostro signor Wrenn. Storia di un gentiluomo romantico di Sinclair Lewis. Nella conoscenza della cultura e della lingua americana si rivela molto rilevante il legame con Anthony Chiuminatto, un giovane italo-americano di Green Bay (Wisconsin) giunto a Torino nel 1925 per seguire il corso di violino al Liceo Musicale Giuseppe Verdi. Pavese frequenta il giovane italo-americano fino alla sua partenza da Torino nel 1929 e poi si tiene in contatto con lui attraverso un intenso rapporto epistolare, nel quale richiederà saggi e romanzi irreperibili in Italia e chiarimenti su questioni grammaticali e lessicali relativi allo slang usato da Lewis, Anderson e Faulkner. Pavese inaugura dunque, grazie a questo prezioso rapporto amicale, il suo mestiere di traduttore e critico di letteratura anglo-americana, attività che lo vedrà impegnato per un intero decennio. Dal carteggio con Chiuminatto emerge anche l’interesse per la musica e la letteratura afroamericana, in particolare per il jazz e il blues, musiche sovversive per l’esterofobo Regime fascista. L’interesse per il jazz è potenziato sia dalla relazione amicale con Massimo Mila, che ama in particolare Ellington, sia dal fatto che Torino sta diventando, in questi anni, la “capitale” italiana del jazz. La cultura americana contemporanea (letteraria, musicale, cinematografica) rappresenta, per il giovane Pavese, un modello a cui ispirarsi e la linfa vitale per rinnovare, a livello di contenuti e lingua, la satura civiltà letteraria occidentale: i romanzi di Lewis, Anderson, Lee Masters, Melville, O. Henry, Theodore Dreiser, ecc. sono espressione del Middle West, terra giovane, nata da un crogiolo di etnie (anglosassone, tedesca, svedese, boema e italiana), e non appesantiti da una tradizione letteraria: gli scrittori nordamericani sono infatti protesi a creare l’epopea della terra appena nata, popolata da uomini semplici, rudi e carnali, terrestri e pagani, intraprendenti e insoddisfatti che, sentendosi soffocati dall’ambiente di provincia, fuggono e si danno all’avventura, vivendo barbaramente e all’aria aperta, passando senza motivo di stato in stato, di lavoro in lavoro, in preda alla febbre della strada, allegri perdigiorno che per Pavese diventeranno i modelli per creare le figure dei suoi adolescenti “scappati di casa”. Lo slang e il volgare americano impiegato da Lewis, Whitman, Twain, O. Henry, Anderson e Dos Passos diventano inoltre un modello di lingua e di stile: Pavese impiegherà per tessere le sue trame poetiche e narrative il volgare letterario, che è un ibrido tra lingua e dialetto.

Dioniso ed Edipo rappresentano i due miti fondanti della poetica pavesiana e delle storie che racconta: cosa incarnano nell’universo pavesiano?
La poetica pavesiana si fonda su due poli: l’infanzia e la maturità. L’infanzia è spazio primordiale delle origini, dove si vive mescolati al mondo animale e vegetale senza “contrasto”. È l’età dell’istintivo-irrazionale in cui si impara a conoscere il mondo assorbendolo verginalmente, fissandolo in immagini (collina, casa, albero, ecc.) che costituiscono ciò che Pavese, in numerosi saggi di Feria d’agosto, libro in cui condensa la sua poetica, chiama «stampi» della conoscenza: ciò che viene esperito diventa “unico”, accade una volta per tutte e si fissa nella memoria come immobile giornata. Per Pavese tutto si modella su fatti accaduti una volta per sempre, che sono all’origine di ogni attività successiva, per cui la volontà dell’adulto è condizionata dalle decisioni prese dal bambino in stato di irresponsabilità: l’infanzia si pone dunque come periodo di predeterminazione del destino (la maturità). La “poetica del destino”, che è il sintagma in cui sintetizza la parabola dell’esistenza degli uomini, si consuma tra una “prima volta”, sepolta nell’infanzia, e una “seconda volta”, di ritrovamento dell’infanzia. Infanzia e maturità sono condensate in due figure del mito molto care a Pavese: Dioniso ed Edipo. Pavese valorizza la matrice preellenica di Dioniso, avvalendosi, per rievocarne le peculiarità, dei classici greci e latini e delle interpretazioni elaborate da Frazer, Otto, Kerenéy e Untersteiner. Nella solare religione olimpica immortalata da Omero è molto ridimensionata la figura di Dioniso perché considerato dio nefasto: l’irruzione del suo culto provoca un profondo sconvolgimento nella società greca, perché è una divinità che riconduce gli uomini nel vortice dello stato primordiale, determina il dissolvimento della coscienza, dei confini, degli ordinamenti, delle regole e delle convenzioni. Dioniso è figura del mito particolarmente complessa perché è in lui coesistono i contrari: vegetale e animale, umano e divino, maschile e femminile, giovinezza e vecchiaia, saggezza e follia, vita e morte, creazione e distruzione, fragore e silenzio, gioia e dolore, benevolenza e crudeltà, ecc. Dioniso è anche il dio che muore e rinasce (è connesso ai Misteri eleusini) ed è associato alla nascita del teatro greco (la tragedia sarebbe un’evoluzione del ditirambo satiresco, il canto corale in onore del dio). Tra gli eroi del mito condannati a vagare per le strade a causa di un tragico destino, Pavese tiene presente Edipo, quello sofocleo. Nell’Edipo re Pavese trova narrata una vicenda che ha i suoi tratti decisivi nella storia di un trovatello che diventa re, ma poi muovendo verso lo scopo che si è proposto (indagare sull’omicidio di Laio), scopre di essersi macchiato di parricidio e incesto, precipitando da re a mendico. Nell’Edipo re non si determina soltanto un mutamento di sorte (dalla fortuna alla disgrazia), ma esso ha luogo con il rovesciamento della situazione iniziale (per ironia tragica chi cerca un criminale si scopre autore del crimine su cui sta indagando): Edipo scopre di essere diventato, senza volerlo, parricida (o regicida) e incestuoso e che la sua volontà è stata pertanto annullata dal destino stabilito dall’oracolo di Apollo. Sembra che Pavese tragga dalla lettura di Sofocle una sorta di psicologia meccanicistica perché la concezione di destino, su cui è basata la sua poetica del mito, corrisponde al daímōn dei Greci. Edipo, come Dioniso, è nomade e selvaggio, perché è condannato a non diventare fino in fondo un cittadino della pòlis: è ascrivibile dunque alla barriera, ai margini, che sono eletti da Pavese a poetica.

Monica Lanzillotta insegna Letteratura italiana contemporanea presso l’Università della Calabria. Su Cesare Pavese ha pubblicato libri, articoli e recensioni, soffermandosi in particolare sul suo lavoro editoriale, la sua produzione poetica e i Dialoghi con Leucò. Gli interessi di studi di Lanzillotta sono rivolti ad alcuni esponenti di rilievo della letteratura moderna e contemporanea e a quattro settori d’indagine: la persistenza della tradizione classica nel Novecento, la letteratura fantastica, la letteratura teatrale e il rapporto tra medicina e narrativa. Tra le più recenti pubblicazioni si possono ricordare Giganti e cavalieri di strada. Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli (2011) e Il museo dell’innocenza. La narrativa di Edoardo Calandra (2017).

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