
Come interpretò Pavese la crisi della cultura classica e umanistica in Italia?
A noi oggi sembra che la crisi della cultura classica sia un fenomeno relativamente recente, se non addirittura un prodotto della contemporaneità. Ho letto pochi giorni fa un intervento di Piergiorgio Odifreddi nel quale il matematico attribuisce alla cultura umanistica la responsabilità di un atteggiamento antiscientifico e oscurantista rispetto ai problemi suscitati dal covid e contrappone la perfetta conoscenza che si pretenderebbe nella scuola – ancor oggi di matrice gentiliana – delle guerre puniche all’ignoranza orgogliosamente esibita circa i meccanismi di replicazione dei virus. In realtà, la cultura umanistica non si esaurisce con Cacciari e Agamben, e la percentuale di medici e infermieri no vax o addirittura negazionisti dovrebbe suscitare qualche dubbio nei cantori delle «magnifiche sorti e progressive» della scienza, della quale peraltro non mi sognerei neppure lontanamente di mettere in discussione l’utilità: segno che siamo di fronte a una semplificazione banalizzante della questione, che nasconde evidenti interessi di parte. La lettura degli interventi pavesiani sul tema condotta da Antonio Catalfamo può offrire in questo senso significativi spunti di riflessione. Se da un lato il fascismo ha offerto con la riforma Gentile una solida base alla predominanza dell’umanesimo, lo ha anche ingabbiato in un’interpretazione fortemente riduttiva, banalizzante e guerrafondaia, della cultura classica, di fatto svuotandola della sua vera funzione. D’altro canto, già negli anni Quaranta Pavese metteva in guardia dai rischi di una società dominata dalla tecnologia e sempre più meccanizzata, nella quale si assiste ad una «proletarizzazione dell’anima»: ma lo faceva non in nome dell’irrazionalismo, bensì richiamando l’intellettuale allo sforzo di «ficcare lo sguardo e le mani nell’infinito caos mitico dell’amorfo e del risoluto, e impastarlo, travagliarlo, illuminarlo finché non lo si possieda nella sua vera oggettività». Catalfamo ci ricorda che per Pavese la cultura umanistica non è ‒ al contrario di quanto lasciano intendere gli «accademici fascisti» «nell’imperiale provincia italica» ‒ «una poltrona» su cui adagiarsi, «nella conservazione caparbia di superati istituti e valori», quali quelli della presunta «romanità», ma continua ricerca, per «ridurre a chiarezza» la realtà. In quest’ottica, il conflitto tra le due culture non ha più ragion d’essere, e la cultura umanistica mantiene un ruolo fondamentale.
Quale innovativa lettura e interpretazione dei Dialoghi con Leucò emergono dalle relazioni dei partecipanti al convegno?
Gli interventi che, sotto specifici aspetti, apportano significativi elementi di novità alla nostra lettura di Pavese, e in particolare dei Dialoghi con Leucò, sono numerosi. Penso, ad esempio, all’analisi di Alessio Trevisan delle traduzioni omeriche, fino ad ora pochissimo studiate, che sottolinea la primazia data da Pavese al motivo dell’ira, della violenza, il titanismo proprio delle figure di Achille e Agamennone, il passaggio nell’epos omerico da una religione prerazionale ad una mediata dalla ragione, incarnate rispettivamente da Briareo ed Egeone. Penso al riconoscimento dell’archetipo mitico di Elena «dalle bianche braccia» alle spalle di tante figure femminili pavesiane da parte di Eleonora Cavallini, che segnala anche – all’origine del motivo ricorrente del sacrificio umano femminile – il mito classico di Ifigenia. Penso alla puntuale ricostruzione di Giovanni Barberi Squarotti del modo pavesiano di lavorare sul mito greco, in particolare sull’onomastica, che attesta il ricorso a fonti molteplici ed eterogenee, dirette e indirette, antiche e moderne, e il gusto per la loro contaminazione. Tra l’altro, Barberi corregge il suo maestro, Eugenio Corsini, circa la fonte principale degli Argonauti, che è sì Le figlie del sole di Kerényi, ma non il capitolo su Medea, bensì quello su Circe, con tutte le conseguenze a livello di interpretazione che ciò comporta. Il saggio di commento che la giovane Claudia Valsania offre delle Muse, primo capitolo di un lavoro ben più ampio e che punta alla totalità dei Dialoghi, è in qualche modo l’applicazione concreta e la conferma dei principi espressi da Barberi, e ci dimostra quanto sia grande il bisogno di un simile strumento per l’interpretazione dell’opera. Ma se debbo richiamare una linea di lettura complessiva dei Dialoghi, non posso non far riferimento all’intervento di Giulio Guidorizzi, che sottolinea come, se il mito è essenzialmente racconto, in realtà nei Dialoghi non accada nulla, perché tutto ciò che è racconto deve ancora accadere, o è già accaduto, Edipo deve ancora diventare cieco mentre Selene si è già innamorata di Endimione. I Dialoghi parlano sempre di un prima o di un poi, non della storia in sé: e questo perché il mito è per Pavese innanzi tutto un dialogo con sé stessi.
Quali modalità di interpretazione delle figure mitiche caratterizzano i Dialoghi e come si sviluppa la struttura narrativa dell’opera?
Proprio in conseguenza di ciò che ho appena detto, nei Dialoghi quello che conta non è mai direttamente fatto oggetto del racconto: i fatti restano fuori della scena, e il lettore ne è messo al corrente soltanto attraverso il processo interpretativo offerto dai personaggi, che spesso sono reticenti e non esplicitano i nessi logici tra le diverse situazioni ed azioni. La dialettica centrale che oppone tra loro le figure del mito e gli uomini è proprio quella tra eterno e tempo. Tutto ciò che gli uomini toccano diventa tempo: per questo non possono neppure annoiarsi, per questo credono che la loro esperienza individuale sia unica e irripetibile, mentre non fanno altro che ripetere archetipi preesistenti, per questo devono dare un senso alla morte. Nella sua lettura del dialogo conclusivo, Gli dèi, che proietta la propria ombra sull’intera raccolta, Antonio Sichera chiarisce come a spingere gli eroi del mito verso le alture e la palude, verso i luoghi isolati e selvaggi, fosse soltanto apparentemente il desiderio del cibo (la fame) o del sesso (il piacere) o l’istinto di autoconservazione (la salute): era innanzi tutto il desiderio di incontrare gli dèi, il desiderio dell’incontro (e della conoscenza) con l’Altro, con gli Altri. Ed è questo che – leopardianamente ancora – rende diverso e svantaggiato l’uomo moderno, ormai incapace dell’incontro, rispetto agli antichi. Anche Daniela Vitagliano propone una lettura dell’opera come storia del genere umano, sulla scorta delle Operette morali, con il passaggio da uno stadio iniziale incentrato esclusivamente sull’uomo, schiacciato dall’eterno ritorno dell’uguale e dal ciclo inesorabile del tempo, a momento dialettico tra gli dei irraggiungibili e gli uomini, che vivono tra la vita e la morte, l’apollineo e il dionisiaco. Secondo Vitagliano, tuttavia, una risposta allo scacco c’è, ed è quella offerta dall’arte: nelle Muse, attraverso la figura di Esiodo, la memoria permette alla monotonia del tempo di arrestarsi e di cristallizzare in uno spazio temporale altro un momento di felicità; l’incontro con l’Altro resta impossibile, ma non il confronto con lui.
Lei ha anche curato la nuova edizione di Paesi tuoi, in uscita per i tipi di Rizzoli: quale rilevanza assume, per il percorso narrativo di Cesare Pavese, la sua “opera prima” editoriale?
In Paesi tuoi c’è già tutto l’universo di Pavese. Pavese è uno scrittore che procede in profondità, non in estensione: si riscrive continuamente, nello sforzo di portare a chiarezza il proprio mito personale. Si pensi a quanto dichiara nella lettera a Ponina Tallone del 23 dicembre 1929: «Poiché tutto quanto ho fatto finora è da ricominciare e così sarà per tutta la mia vita. E scriverei soltanto cose che un mese dopo dovrei mutare». Del resto, è Pavese stesso ad accomunare il romanzo primo e il romanzo ultimo sotto la definizione di una personale Divina Commedia: in altri termini, di un’interpretazione complessiva ed esemplare, carica di religiosa perplessità, dell’intera vicenda dell’esistenza umana. Anche Paesi tuoi ha al centro la luna e i falò, come simboli di quella visione ciclica e immutabile della vita all’insegna di un’antropologia della violenza originaria: la luna associata a Gisella, della quale è detta sorella e che ne fa una creatura ambigua, doppia, sospesa tra cielo e inferi; e il falò con cui Talino, associato al sole (ma in una dimensione di distruzione e accecamento, simile in questo all’Apollo omerico), brucia la Grangia. La differenza è che il cittadino Berto pensa di poter controllare con la ragione le forze irrazionali della campagna ed entra con esse in una dinamica conflittuale, finendone sconfitto; Anguilla, come l’animale di cui porta il nome, sfugge alla dinamica della lotta che è la vita. Il suo atteggiamento di pietà per i vinti, nel riconoscimento di una sconfitta che prima o poi tocca a tutti, è l’eredità matura dell’orrore di Berto.
Valter Boggione è professore ordinario di Letteratura italiana all’Università di Torino. Tra le sue pubblicazioni: l’edizione delle Poesie e tragedie di Manzoni (UTET 2002) e dell’Ecce homo di Vallini (Olschki 2016); La sfortuna in favore (Marsilio 2011), su Fenoglio; Il tempo della “Tirannide” (FrancoAngeli 2012), su Alfieri; Le parole amorose (Marsilio 2016), su Machiavelli e sul Morgante. Si è occupato anche di storia della lingua, con un Dizionario letterario del lessico amoroso più volte ristampato (Longanesi, UTET, Garzanti, TEA) e un Dizionario dei proverbi (UTET).