“Cesare Pavese controcorrente” di Riccardo Gasperina Geroni

Riccardo Gasperina Geroni, Lei è autore del libro Cesare Pavese controcorrente edito da Quodlibet: a distanza di settant’anni dalla sua scomparsa, qual è l’attualità di Cesare Pavese?
Cesare Pavese controcorrente, Riccardo Gasperina GeroniCesare Pavese è un autore entrato con molta facilità nel canone della letteratura italiana contemporanea. Le sue opere, pubblicate da Einaudi, che oggi festeggia i suoi 70 anni dalla morte con la ristampa quasi integrale dei volumi, sono state lette e amate da generazioni di studenti. Gli ultimi decenni hanno, tuttavia, messo in evidenza un calo non solo delle vendite, ma anche dell’interesse che la critica rivolge alle opere di Pavese. Poche sono state le monografie sull’argomento, quelle di valore si contano sulle dita di una mano: forse due o tre. Ma credo che sia ora il momento di scorgere in Pavese non tanto quell’autore su cui aleggia ancora lo spettro del suicidio, quanto un autore che ha sondato i misteri della coscienza umana, le vertigini dell’ignoto e ha voluto regalare anche a noi lettori del ventunesimo secolo il senso di un passato che non dimentica il percorso svolto e il valore delle origini da cui noi tutti proveniamo. Credo che in questo momento, usciti da poco da un’esperienza tragica, come quella della malattia e della restrizione delle inalienabili libertà dell’uomo, Pavese possa costituire un antidoto per ripensare il nostro modo di stare nel mondo.

Nel libro, Lei analizza alcune opere chiave della poetica e narrativa pavesiana, con particolare attenzione a Paesi tuoi e a Lavorare stanca: quale chiave di lettura ne propone?
La mia lettura vuole essere un po’ polemica, questo è uno dei modi in cui intendo “controcorrente”. Polemica nei confronti della critica e di Pavese stesso che ha relegato Lavorare stanca e Paesi tuoi a lavori marginali nel computo generale della sua produzione. In realtà, essi sono due punti imprescindibili della sua opera. Lavorare stanca è una raccolta di poesie densa e assolutamente innovativa rispetto al clima culturale e poetico degli anni Trenta, sulla china dell’ermetismo. In quell’opera dal ritmo singolare e da un respiro prosodico molto ampio e arioso entrano – su suggestione anche della letteratura americana, molto amata da Pavese – luoghi estranei alla poesia italiana: come le officine o le pompe di benzina. Ma quello che più mi interessa è che già in quella raccolta di poesia, che esce per la prima volta nel 1936, per i tipi di «Solaria», e poi nel 1943 in edizione definitiva, Pavese si confronti con un modo di interagire con il reale che mostra la sua propensione a indagare i fenomeni cercandone sempre il dato assoluto e originario. Faccio un esempio: come ho cercato di mostrare nel mio libro, i fenomeni non appaiono per profili, non sono descritti nella loro singolarità, ma sono sempre apparizione assolute: il dio, l’uomo, la morte, l’alba ecc. e sono descritti spesso senza aggettivi come fossero folgorazioni, attimi assoluti. E questa assolutezza è tesa non a cogliere il qui e ora dell’oggetto o dell’immagine raffigurata, quanto il suo senso latente, il suo oltre. In questo è racchiusa la contraddizione del lavoro di Pavese, ma anche il suo fascino. Tutta la sua opera è mossa dal desiderio di definire e ritrovare ciò che per definizione non può essere ritrovato e definito una volta per sempre.

È poi con Paesi tuoi del 1941 che Pavese, a mio avviso, trova la propria strada e il proprio talento. L’opera, pur precedendo gli scritti “teorici” dell’ultima sezione di Feria d’agosto (1946), presenta una costruzione tragica dell’intrigo che diverrà l’archetipo di tutti i romanzi successivi. In opere come La luna e i falò (1950) o la Casa in collina (1948) o la trilogia della Bella estate (1949) con cui Pavese vinse il Premio Strega ritorna una costruzione tutta protesa verso il punto finale in cui di solito il lettore assiste all’esito tragico della vicenda. In Paesi tuoi, ad esempio, il protagonista Berto diviene partecipe dell’uccisione di Gisella, una ragazza di cui era innamorato. Qui, seppur in modo più naïve e meno elaborato esteticamente, è già presente tutto il Pavese successivo: il suo modo di costruire la trama, la sua capacità di lavorare sulle lacune testuali, il suo talento per piegare lo stile a modo di pensare, e ovviamente il suo rapporto con il mito e con il mondo delle origini.

Come si esprime in Pavese il suo essere controcorrente?
Se il mio essere controcorrente è contro una parte della critica pavesiana, l’essere controcorrente di Pavese sta nell’originalità con cui ha affrontato il problema del mito e dell’irrazionalismo in un momento storico (parlo degli anni successivi alla seconda guerra mondiale) in cui il mito era divenuto un argomento imbarazzante. Si pensi al ruolo che ha avuto nella cultura italiana la «Collana Viola», quella grande invenzione editoriale che Einaudi affidò a Pavese e all’antropologo Ernesto De Martino, e che aveva il compito di tradurre in Italia alcuni testi che la cultura marxista avrebbe presto definito eretici. Si trattava, come ha avuto modo di ricordare De Martino, che sopportava di malavoglia le scelte del collega, di pubblicare testi di autori come Eliade, Kerényi, Frobenius e altri che erano considerati “pericolosi”. Infatti, l’accordo era di accompagnare i loro lavori con delle prefazioni che costituissero una profilassi, o comunque garantissero un distanziamento critico.

Ma la stessa originalità Pavese l’aveva avuta all’inizio degli anni Trenta, quando giovane laureato in letteratura inglese, aveva iniziato a tradurre alcune grandi opere americane che il nazionalismo fascista non poteva non osservare con sospetto. Faulkner, Steinbeck, Stein, Melville, Dos Passos sono solo alcuni tra i tanti autori in cui Pavese scorge una elaborazione originale del problema del mito.

L’intera produzione di Pavese è ammantata di pessimismo, un pessimismo che potremmo definire totalizzante come solo quello di un uomo che si considera prigioniero della sua stessa esistenza può essere: dove ne va ricercata l’origine?
Su questo punto, la critica le ha provate un po’ tutte. C’è chi riteneva che Pavese fosse depresso, chi invece che soffrisse di impotenza, chi invece che si sentisse responsabile per non aver preso parte alla Resistenza. C’è probabilmente del vero in tutte queste posizioni, ma il pessimismo di Pavese è un mito esso stesso se rapportato alle sue opere. Il mito è in lui una componente energica, forte, salvifica, tale che gli ha permesso di teorizzare, sulla scorta di Luporini, il momento estatico, cioè quella pienezza improvvisa che rigenera e restituisce una partecipazione mistica all’essere. Quindi il suo pessimismo non può essere isolato dal suo opposto, come tutte le opposizioni di Pavese non possono mai essere colte nella loro singolarità: la campagna si spiega solo con la città, l’infanzia solo con l’età adulta, il logos solo con il mito, e così via. Se proprio dobbiamo identificare un’origine più che nel pessimismo la ritroverei nella sua sfiducia nella forza collettiva e storica delle sue opere. In fondo, è lui insieme a pochi altri ad avere veramente rappresentato in modo pieno la guerra civile italiana.

Pavese incentra un’ampia parte della propria dimensione estetica sul problema dell’originario: come si declina nei suoi scritti?
Soprattutto nella sua prima produzione teorica, cioè nel primo Mestiere di vivere, Pavese è ossessionato dal problema dell’origine. Il tema ha una doppia valenza e presuppone una doppia indagine. Da una parte, infatti, Pavese si interroga sul problema dell’origine dell’umano (questa vena è già presente nella traduzione di Moby Dick del 1932), in altre parole sul modo in cui l’uomo elabora il proprio stare nel mondo. Ma questa speculazione sulle origini si affianca a una analisi del gesto tecnico, stilistico con cui è possibile circoscrivere una fetta della realtà e iniziare appunto a dare vita a un’opera letteraria. In fondo, per Pavese costruire nella vita coincideva a costruire nell’arte.

Quale ruolo svolge la prospettiva psicoanalitica nella lettura e nell’interpretazione delle opere dello scrittore piemontese?
Più che nel modo con cui io guardo Pavese, la prospettiva psicoanalitica riguarda il modo con cui Pavese ripensa il mito. Egli abbraccia una prospettiva platonica, propria della psicoanalisi primo novecentesca, secondo la quale il centro del soggetto è dislocato. Ovvero preesiste al soggetto una realtà arcaica che rimanda all’infanzia stessa del mondo, in cui l’uomo primitivo si è trovato costretto a gestire il suo rapporto con il reale. L’impostazione di fondo è dunque legata a una precisa condizione del soggetto che è decentrato rispetto a se stesso, cioè il senso del suo esserci è da riscoprire nel suo passato: ecco perché l’attenzione per le origini è per lui una condizione essenziale nella sua indagine. La psicoanalisi è quella disciplina che ancora oggi ci permette di dare un senso ad alcuni eventi della nostra vita, alla nostra identità narrativa alla riscoperta del passato da cui proveniamo. In particolare, il passato in Pavese è la condizione che ci predetermina, per questo la struttura delle sue opere è costruita secondo una struttura tragica perché nell’infanzia l’uomo determina le proprie scelte, ma l’infanzia non è solo ciò che noi abbiamo vissuto nella nostra infanzia personale, ma anche ciò che più in generale l’uomo ha vissuto all’inizio del suo percorso umano sulla terra. C’è nell’opera di Pavese un destino che ci determina, e con cui è bene venire a patti, presto.

Riecheggia spesso, nell’opera di Pavese, il sentore di una tragica fine: come matura nei suoi scritti l’idea del suicidio?
Il problema del suicidio in Pavese è presente qua e là sin dall’inizio della sua produzione. Già nel Mestiere di vivere egli ragiona sulla possibilità o meno di compiere quel gesto estremo; e soprattutto si chiede se mai avrebbe avuto il coraggio di farlo. Noi sappiamo che il coraggio alla fine lo ha avuto, si è ucciso per una overdose di sonniferi in una stanza d’albergo a Torino, nell’agosto del 1950. Tuttavia, credo che sia giunto il momento di superare questo pettegolezzo biografico, perché – e lo capisco bene – la ricezione delle sue opere è stata interamente catalizzata dal suicidio. Questo ha inizialmente dato una maggiore attrazione anche alle sue opere: si cercavano i segni di quel gesto futuro che molti commentatori hanno intravisto nel gesto estremo di Rosetta, la ragazza che in Tra donne sole si uccide seduta su una poltrona, in una stanza d’albergo. Tuttavia, ora, il suicidio non sta facendo altro che spostare l’attenzione su una questione che per me è secondaria. Preferisco concentrare l’attenzione dei miei lavori sul lato più propriamente costruttivo del pensiero di Pavese, cercando così di drenare dalla sua immagine quell’alone di morte, cui lui ha condannato se stesso e i suoi scritti.

Riccardo Gasperina Geroni è ricercatore presso l’Università di Bologna. È autore di Il custode della soglia. Il sacro e le forme nell’opera di Carlo Levi (Mimesis, 2018). Sempre di Levi ha curato la nuova edizione di Quaderno a cancelli, pubblicata per Einaudi nel 2020.

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link