
La prima ragione a motivare la ricerca è certamente la brama di ricchezza, senza altro fine che l’accrescimento della ricchezza stessa. È soprattutto nell’Egitto medioevale che si svolge la più intensa e sistematica attività di questo tipo ed è proprio in questo contesto che si fissano alcune caratteristiche tipiche dell’immaginario della caccia al tesoro, tramandate attraverso molteplici racconti di cui alcune novelle delle Mille e una Notte rappresentano forse l’esempio più famoso. La discesa, attraverso il giusto passaggio, in un mondo inaccessibile, quasi sempre sotterraneo, con botole che si aprono al di sotto di pavimenti, attraverso pozzi, o in nicchie di edifici cadenti e abbandonati, caverne popolate da idoli distrutti in cui si entra da spaccature nelle montagne, ipogei pieni di tombe, corrisponde al percorso degli innumerevoli razziatori di tombe e monumenti antichi che in Egitto erano particolarmente numerosi e organizzati in una vera e propria industria corporativa.
Il secondo filone riguarda un tipo di ricerca di natura apparentemente più immateriale, di tipo spirituale e mistico. A scorrere le fonti scritte, infatti, si osserva in effetti una notevole somiglianza fra la scoperta – spesso in circostanze eccezionali – dei resti di un santo, delle sue reliquie, e l’immaginario legato ai tesori. È in tombe, caverne, scrigni sotterrati con misteriosi cartigli che si trovano infatti le ossa di santi e martiri; altre volte sono segni particolari su pietre, muri o colonne che marcano il punto dove scavare per ritrovarli. I punti di contatto fra le ricchezze terrene e quelle celesti si alimentano quindi a vicenda in un discorso simbolico che ha forti ricadute anche economiche. Le reliquie (e i reliquiari), infatti, non portano con sé solo una fortissima carica mistica; soprattutto nel Medioevo, anche il valore spirituale più sublime trova un’eco nello splendore delle cose terrene che del cielo sono uno specchio, per quanto imperfetto.
C’è poi una terza possibile declinazione del desiderio. A partire soprattutto dalla metà del Trecento e per tutto il Rinascimento, artisti e letterati innamorati dell’Antico colgono, nei manufatti che emergono dalla terra, non solo il loro valore materiale ma anche e soprattutto un interesse dovuto alle tracce del passato. Questi uomini riconoscono il fascino dell’anacronismo, perché sanno che trovare un tesoro è come aprire una porta nel tempo e sbirciare all’indietro attraverso gli oggetti che sono sopravvissuti. Da queste prime esplorazioni, sospese fra lo studio e il sogno di un’epoca che non è più, nasce l’antiquaria, antenata della moderna ricerca archeologica.
Quali elementi caratterizzano e accomunano i racconti dei tesori?
Spesso posti a diretto contatto con i defunti, celati in una dimensione sotterranea e oscura, i tesori sono appartati rispetto alla realtà dei vivi, sigillati in un altrove che è fisico ma in fondo anche temporale. Finiscono quindi per acquisire, essi stessi, qualcosa di magico. Prova ne è che non basta scoprire dove si trovano, bisogna anche strapparli ai loro custodi e sopravvivere per tornare a raccontarlo. Uno dei tratti che maggiormente ricorre nelle storie di tesori è, infatti, la presenza di un’entità posta a guardia delle ricchezze: demoni, fantasmi, mummie, vampiri e statue semoventi, ma anche draghi e grifoni, folletti, fate e nani…Quello che è particolarmente interessante, a prescindere dalle specifiche peculiarità di ciascuna narrazione, è che i guardiani che popolano le storie dei tesori sono associati a luoghi che, per le loro caratteristiche, vengono da sempre percepiti come alieni e ostili. Abbiamo quindi il sottosuolo, dove stanno i morti, i diavoli, i nani; le zone boschive, popolate dalle fate; i deserti delle steppe abitati dai grifoni; le grotte – punti di accesso privilegiati al mondo sotterraneo – dove vivono i draghi, che spesso si trovano anche in relazione a zone paludose, mefitiche, inospitali per l’uomo, e così via.
Non si può quindi parlare dei custodi prescindendo dal contesto spaziale in cui si muovono. Raccontare la loro storia significa di fatto mettere in luce le dinamiche fra l’uomo e un ambiente che incute timore, la millenaria lotta condotta dalla specie verso il controllo e l’addomesticamento di aree remote, incolte, pericolose. I siti in cui il cercatore si muove per trovare tesori sono in realtà sempre degli ‘altrove’ rispetto alle sue certezze geografiche, spaziali e culturali. La selva contro la città, l’incolto contro l’urbanizzato, il passato misterioso contro il presente conosciuto, ciò che viene da fuori (o da lontano) contro ciò che è noto e vicino, il paganesimo rispetto all’ortodossia religiosa, fino all’estremo più irriducibile di tutti: il mondo dei morti contro quello dei vivi.
Cosa muoveva i cercatori di tesori fra Medioevo ed Età Moderna?
La risposta varia, in realtà, a seconda del periodo ma, generalizzando, si può dire che il ritrovamento, inteso come risultato di un’attività pianificata e strutturata e non come rinvenimento fortuito, è un fenomeno che, per quanto riguarda l’Occidente latino, è
strettamente legato all’applicazione di tecniche di magia colta. Era concezione comune, infatti, che il tesoro – un’entità dai tratti sovrannaturali, come già accennato – potesse essere rivelato da intelligenze astrali, attraverso complicati rituali di interrogazione o captazione, o con metodi divinatori che spesso dipendevano da calcoli astrologici. Era quindi necessario ricorrere ad un patrimonio di conoscenza che, nel corso del medioevo, arrivò in Europa attraverso la traduzione di testi originariamente in arabo. Inizialmente, quindi, la ricerca dei tesori fu soprattutto un esperimento erudito, praticato da persone colte. Nel Trecento, il nome del cercatore più famoso è forse quello di Cecco d’Ascoli, che fu, fra le altre cose, medico, alchimista e poeta.
In Età Moderna, cercare tesori diventa un’ossessione sociale condivisa, praticata più spesso di quanto forse si possa immaginare, anche se per ragioni molto diverse, grazie alla relativa facilità con cui si poteva accedere a certi trattati. Dai documenti che ci sono pervenuti si capisce che molti cercatori sono mossi dalla curiosità intellettuale nei confronti della magia dotta e di quanto essa promette; altri sono attirati dal fascino del proibito o dal desiderio di veder riconosciuta una certa, specifica competenza; tra piccoli funzionari e artigiani cresce la voglia di migliorare il proprio stato sociale; ma c’è anche la fame vera, la necessità di approfittare di qualunque occasione di sopravvivenza, unita al sogno di diventare ricchi che spinge molti a tentare.
Quali sono gli oggetti che hanno alimentato i racconti più favolosi?
Le narrazioni medievali più famose che parlano di tesori – penso, ad esempio, alle saghe nordiche, a certi passi di Beowulf, alla descrizione delle ricchezze sotterranee di Roma che emergono dalle cronache, ad alcuni esempi tratti della novellistica araba – evocano in realtà oggetti molto diversi fra loro: armi e corredi funebri, statue pregiate, tavole incrostate di pietre preziose, oro…
Esistono però elementi che, nonostante la distanza geografica e culturale, accomunano tali racconti. Tutte queste storie, pur venendo messe per iscritto in pieno Medioevo, spesso nel Duecento, parlano infatti di vicende ambientate fra V e VI secolo, o poco più tardi, fra VII e VIII, sullo sfondo delle grandi ondate di conquista che scuotono l’Europa, prima con le tribù germaniche del nord, che disgregano poco alla volta i territori che erano stati di Roma, e poi con gli Arabi, che compiono l’opera muovendo dall’altra sponda del Mediterraneo. È infatti soprattutto fra l’epoca tardo-antica e l’alto Medioevo che prende forma nell’immaginario collettivo l’idea di certi tesori favolosi, proiezione favorita da una congiuntura storico-politica drammatica. Nella realtà, infatti, di oro in giro non ce n’è quasi più. Con il progressivo crollo delle strutture amministrative dell’impero romano d’Occidente in quasi tutti i territori si cessa persino di battere moneta. Chi ha denaro o cose di valore le interra in attesa di tempi migliori. Nel momento in cui oro e ricchezze spariscono, letteralmente, dalla circolazione, prendono però a vivere altrove un’esistenza semi-leggendaria, ingigantita dall’impressione spaventosa lasciata da ogni nuova spoliazione o perdita.
La memoria di certi tesori rappresenta quindi l’altra faccia della devastazione, aleggia dove ci sono tombe che nessuno può proteggere, assieme alle memorie dei saccheggi, fra le rovine di civiltà sconfitte, con l’arrivo di genti nuove in luoghi che conservano traccia di un passato splendore, appartenuto ad altri popoli, ormai sconfitti. Lo scintillio dell’oro di queste storie arriva così fino a noi attraverso secoli pervasi da oscuri timori e violenza, tanto più scintillante quanto più incerto, misero e buio doveva essere l’orizzonte di chi si ostinava a sognarlo.
È poi soprattutto dalle corti dei regni romano-barbarici che deriva l’ossessione per il metallo prezioso e scintillante, che non si spende ma si accumula per prestigio e che diventa garanzia del potere del sovrano. Il tesoro simboleggia e incarna lo status regale, ne è pegno e testimonianza. Questo è un tratto tipico delle popolazioni barbariche, che giudicano un guerriero dalla bellezza del suo corredo e che proprio nell’oreficeria – arte leggera, nomade per eccellenza – hanno lasciato i loro migliori capolavori.
Non esiste tesoro senza una mappa: che aspetto hanno le mappe nella narrazione dei tesori perduti?
La mappa del tesoro, così come normalmente ce la figuriamo, è un’invenzione dell’Età Moderna che è entrata nell’immaginario comune attraverso la letteratura ottocentesca con la forza dirompente del vento, lo stesso che spingeva i galeoni dei conquistadores dalle Americhe a Siviglia. È per mettere le mani sull’immensa quantità d’oro e d’argento provenienti dal Nuovo Mondo che avventurieri e corsari al soldo di potenze straniere hanno infatti cominciato ad assaltare le navi spagnole e a nascondere il bottino in isole remote, segnando il punto sulle loro carte nautiche per potervi tornare.
Per quanto riguarda il periodo di cui tratto nel libro e il contesto più strettamente europeo e mediterraneo, tuttavia, la situazione è molto diversa. Più che di mappe si dovrebbe infatti parlare di liste topografiche, veri e propri elenchi di località a cui sono associate brevi istruzioni per rinvenire ricchezze nascoste. Si presentano come testi molto succinti, quasi degli inventari, a volte persino ordinati secondo l’ordine alfabetico dei toponimi. Sappiamo da alcuni documenti che questi elenchi erano particolarmente richiesti dai cercatori che spesso, sulla base delle indicazioni che vi leggevano (il più delle volte estremamente vaghe), organizzavano la loro ricerca. Queste topografie passavano di mano in mano e potevano quindi venire quindi copiate decine di volte. Non è raro, ad esempio, che in carte trascritte in pieno Settecento si trovino riferimenti a tesori che risalgono a topografie auree in circolazione cinque secoli prima. Si tratta di testi particolarmente stratificati, che tendono a conservare e a integrare materiale eterogeneo o con diverse cronologie, difficilissimi da datare con precisione, con un’origine abbastanza misteriosa. Non se ne conosce mai l’autore o il compilatore originario, a volte è noto il nome di uno dei tanti copisti. Pur presentandosi sotto forma di documenti di natura amministrativa, quasi come voci catastali o inventari, tramandano informazioni che sconfinano nella leggenda e nell’invenzione. A volte si colgono gli echi di effettive scoperte (che oggi potremmo dire archeologiche), in altri casi viene invece il dubbio che si tratti di elaborate truffe, create ad hoc per abbindolare qualche cercatore disposto a pagare molto per avere una di queste ‘mappe’.
Le mappe avevano quindi l’aspetto di manoscritti. Questo stesso volume – nella sua versione cartacea – è una mappa. Il lettore attento, se risolve alcuni enigmi, può arrivare a un tesoro.
Come si sviluppò la ricerca dei tesori fra Medioevo ed Età Moderna?
Le testimonianze più antiche in questo senso riguardano l’Egitto medievale dove, a partire già dal IX secolo, si strutturano vere e proprie corporazioni di cercatori, detti mutalibun, con statuti e regole precise. Si tratta però di una situazione particolare, che ben si comprende alla luce dell’enorme ricchezza di tombe e contesti funerari del territorio.
Nell’Occidente latino le testimonianze che ci sono pervenute riguardo ai cercatori sono più tardive. Quello che sappiamo emerge soprattutto da documenti di tipo giudiziario. Particolarmente ricca è la documentazione prodotta dai Tribunali del Sant’Uffizio, a partire soprattutto dalla fine del XVI secolo e per i due secoli successivi. Dai verbali dei processi, che miravano a condannare chi si dedicava alla ricerca dei tesori con mezzi magici, si colgono meglio le motivazioni, i metodi e le tipologie sociali dei cercatori. Si tratta quasi sempre di uomini, tendenzialmente di discreta se non buona cultura, organizzati in piccole società per condividere le spese. Cercare solitamente costava caro: bisognava coinvolgere specialisti di vario tipo, quasi sempre ecclesiastici o persone in grado di leggere il latino, capaci di compiere rituali magici con l’abito e l’autorevolezza necessari; oppure rivolgersi a ebrei e musulmani, specialisti di pratiche magiche e talismani – almeno secondo l’immaginario comune; dar la mancia ai bambini che facevano da medium; comprare libri molto cari, o farli copiare, per essere sicuri di dominare correttamente legioni demoniache; procurarsi l’armamentario rituale, gli incensi, le essenze rare; ottenere le licenze dai tribunali, se si intendeva cercare con regolare permesso; pagare chi scavava, visto che a dar l’avvio alle ricerche erano quasi sempre persone poco abituate al lavoro manuale, tipicamente nobili o membri della piccola e media borghesia cittadina, più abili a manovrare il calamo che la vanga, che si appoggiavano a personaggi spiantati, chierici spretati di dubbia moralità, sedicenti esperti, più tombaroli che altro.
Il mito del Sacro Graal ha superato le barriere del tempo giungendo ancora vivo fino a noi: come nasce la leggenda del Sacro Calice?
Il Graal si definisce fra XII e XIII secolo attraverso la progressiva stratificazione di materiale eterogeneo che prende diverse forme a seconda di chi ne parla; alla sua origine concorrono sia reminiscenze mitiche di tesori celtici che l’aura potente delle reliquie eucaristiche cristiane in circolazione nel Medioevo.
La sua prima apparizione scritta è nel Perceval ou Le conte du Graal, un romanzo in versi composto da Chrétien de Troyes in antico francese più o meno fra il 1181 e il 1191. È menzionato come “un graal”, oggetto ancora indeterminato quindi, fatto di oro e tempestato di pietre preziose. Il suo nome deriva molto probabilmente dal latino gradalis che indica un vassoio da portata.
Per arrivare al Graal così com’è meglio conosciuto oggi bisogna aspettare Robert de Boron che alla fine del XII o forse agli inizi del XIII secolo compone un romanzo in versi dedicato a Giuseppe d’Arimatea, personaggio menzionato brevemente nei Vangeli come l’uomo che ottiene da Pilato il corpo di Gesù e lo fa seppellire. Nella letteratura francese medievale la sua figura assume un ruolo di rilievo rispetto al Graal, che ora appare completamente mutato. Non corrisponde più al piatto/vassoio del XII secolo, ma viene identificato come il veissel, il vaso o la coppa usata da Cristo per servire il vino nell’Ultima Cena e che ha finito per contenerne il sangue; è proprio Giuseppe che, assieme ai suoi discendenti, lo fa arrivare dalla Palestina alla Gran Bretagna, descritta all’epoca come una terra saracena. Qui il filone cristiano si intreccia con miti e leggende di matrice celtica, diventando parte integrante delle storie che riguardano re Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda.
Ancora diversa è poi la versione duecentesca del trovatore tedesco Wolfram von Eschenbach: attorno al Graal ruotano infatti il Parzifal, il Titurel incompleto, e anche la continuazione portata a termine da un certo Albrecht attorno al 1270. Secondo queste tradizioni, il Graal corrisponderebbe a una pietra caduta dalla corona di Lucifero, salvata dagli angeli e donata a re Titurel e dotata del potere di guarire dalle malattie ma anche di conferire l’eterna giovinezza e l’immortalità a chi lo custodisce.
Parte del fascino e dell’ambiguità del Graal si deve quindi al fatto che la sua descrizione varia a seconda dei testi e non se ne conosce in modo preciso l’origine. Quel che a me interessava, nel libro, non era raccontare cosa sia stato davvero – di volta in volta un piatto da portata, una coppa, una pietra – ma quale universo materiale fosse in grado di evocare, in quali tesori tangibili si potesse incarnare. I nobili signori protagonisti dei poemi e romanzi cavallereschi del ciclo del Graal sono infatti gli stessi che storicamente salpavano verso l’Oriente per liberare il Santo Sepolcro di Cristo dal dominio musulmano, tornando poi con manufatti che parevano avere avuto un contatto diretto con i protagonisti della storia della salvezza, cioè le reliquie.
Questo libro si può leggere in molti modi: come una storia, prendendosi il tempo che serve, in compagnia di cacciatori di tombe, sapienti, artisti, sovrani, cavalieri, ciarlatani.
O come una mappa; imitando quei cercatori che, dalle sponde meridionali del Mediterraneo fino all’Europa settentrionale, per secoli hanno seguito il miraggio della ricchezza fra magia e misteriose topografie auree…
Allegra Iafrate è nata a Bologna nel 1985. Dopo il diploma di violino, ha frequentato la Scuola Normale Superiore di Pisa, dove ha conseguito una laurea in lettere moderne e un dottorato in storia dell’arte. Ha dedicato numerosi saggi alle tradizioni culturali che si intrecciano nel mondo Mediterraneo nel corso del Medioevo e nel 2014 è stata insignita del Premio “Marc de Montalembert”. Attualmente è funzionario per la promozione culturale del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.