
di James Hillman e Michael Ventura
traduzione di Paola Donfrancesco
Mondadori
«Abbiamo avuto cento anni di analisi, la gente diventa sempre più sensibile, e il mondo peggiora sempre più. Forse è arrivato il momento di guardare in faccia questa realtà. Continuiamo a situare la psiche sotto la pelle. Per localizzare la psiche si va dentro, si esaminano i nostri sentimenti e i nostri sogni: essi ci appartengono. Oppure ci sono interrelazioni interpsiche, fra la tua psiche e la mia. Questo atteggiamento è stato un po’ allargato ai sistemi della famiglia, ai gruppi dell’ufficio. Ma la psiche, l’anima, è ancora solo dentro e fra la gente. Noi lavoriamo costantemente sulle nostre relazioni, sui nostri sentimenti, sulle nostre riflessioni, ma guardi là cosa ne resta fuori…
Quello che resta fuori è un mondo che si va deteriorando. Perché la terapia non se n’è accorta? Perché psicoterapia è lavorare soltanto su ciò che sta dentro l’anima. Rimuovendo l’anima dal mondo e non riconoscendo che l’anima è anche nel mondo, la psicoterapia non può più fare il proprio lavoro. Gli edifici sono malati, le istituzioni sono malate, il sistema bancario è malato, e così la scuola, il traffico: la malattia è là fuori. Lei lo sa, l’anima la si riscopre sempre attraverso la patologia. Nel XIX secolo la gente non parlava della psiche, fino a che non arrivò Freud e scoprì la psicopatologia. Oggi cominciamo a dire: «I mobili contengono una sostanza che ci sta avvelenando; il forno a microonde libera radiazioni pericolose». Il mondo è diventato tossico. […]
C’è un declino del senso politico. Non c’è sensibilità per i veri problemi. Perché la gente intelligente, almeno fra la classe media bianca, adesso è così passiva? Perché? Perché la gente sensibile, intelligente, è in terapia! Negli Stati Uniti questa gente è in terapia da trenta, quarant’anni, e durante questo periodo c’è stato in questo Paese un terribile declino politico.
Ogni volta che cerchiamo di affrontare la nostra violenza nei confronti della superstrada, o il senso di insofferenza nei confronti dell’ufficio, dell’illuminazione o di quella schifezza di mobili, oppure del crimine per le strade e così via, ogni volta che cerchiamo di affrontare tutto questo portando la nostra rabbia e la nostra paura in terapia, noi priviamo di qualche cosa il mondo politico. E, nel suo modo folle, la terapia, enfatizzando l’anima interiore e ignorando l’anima che è fuori, sostiene il declino del mondo reale. Eppure, la terapia continua ciecamente a credere di curare il mondo esterno rendendo migliore la gente. Per anni, si è pensato che «se tutti andassero in analisi avremmo edifici migliori, gente migliore, migliore consapevolezza». Ma le cose non stanno così. […]
Oggi in psicoterapia va di moda il «bambino interiore». In questo consiste la terapia: si torna indietro fino all’infanzia. Ma quando ci si volge indietro, non si guarda intorno. Questo viaggio a ritroso costella quello che Jung chiamava l’«archetipo del fanciullo». Ora, l’archetipo del fanciullo è per sua natura apolitico e privo di potere, non ha nulla a che fare con il mondo politico. E così l’adulto dice: «Bene, riguardo al mondo cosa posso farci? È una cosa più grande di me». Ecco cosa dice l’archetipo del fanciullo. «Tutto quello che posso fare è entrare in me stesso, lavorare alla mia crescita, al mio sviluppo; trovare dei buoni gruppi che mi allevino, che mi sostengano.» Ma questo è un disastro per il nostro mondo politico, per la nostra democrazia. La democrazia si realizza tra cittadini estremamente attivi, non tra bambini. Enfatizzando l’archetipo del fanciullo, riducendo le nostre sedute a rituali in cui si evoca l’infanzia e si ricostruisce la fanciullezza, ci escludiamo dalla vita politica. Venti o trent’anni di terapia hanno relegato le persone più sensibili e più intelligenti della nostra società, e alcune delle più ricche, nel culto dell’infanzia. […]
Non sarà forse che quella cosa in cui crediamo tutti così fermamente – che la psicologia sia l’unica cosa buona rimasta in un mondo ipocrita – non sia poi tanto vera? Non potrebbe essere che la psicologia, il lavorare su di sé, faccia parte della malattia e non della cura? Penso che la terapia abbia commesso un errore filosofico con il credere che la cognizione preceda la volizione, che il conoscere preceda il fare, l’azione. Io non credo che sia così. Credo che la riflessione debba venire sempre dopo l’evento. […]
Il principale contenuto della psicologia americana è la psicologia evolutiva: quello che ti è successo nei primi anni è la causa di quello che ti è successo in seguito. Ecco la teoria di fondo: la nostra storia è la nostra causalità. Non si fa nemmeno distinzione fra storia come racconto di eventi e storia come causa. Quindi devi ritornare all’infanzia per scoprire perché sei come sei. Così quando la gente va fuori di testa, o è disturbata, o nevrotica, o è qualunque altra cosa, nella nostra cultura, nel nostro mondo psicoterapeutico, si torna alle nostre madri e ai nostri padri e alla nostra infanzia. Questo non avviene in nessun’altra cultura, dove se sei fuori di testa, o molto disturbato, o impotente, o anoressico, guardi cosa hai mangiato, chi ti ha fatto il malocchio, quale tabù hai trasgredito, che cosa non hai fatto nel modo dovuto, quando è stato che hai mancato di rispetto agli dèi, se non hai partecipato a una danza, se hai interrotto una qualche usanza tribale, e così via. Ci potrebbero essere centinaia di altre cose – le piante, l’acqua, le maledizioni, i dèmoni, gli dèi, il non essere in contatto con il Grande Spirito. Non si tratterebbe mai, mai, di quello che ti è successo con tua madre e tuo padre quarant’anni fa. Solo la nostra cultura utilizza quel modello, quel mito. […]
Ma proviamo a guardare le cose in modo diverso. Mettiamo che quello che conta sia il fatto che tu hai un nucleo germinale dentro di te, che sei una determinata persona, e quella persona comincia a manifestarsi presto nella vita. Winston Churchill, per esempio, quando era ragazzo aveva un sacco di problemi di linguaggio e non riusciva a parlare bene. Fu messo in quella che chiameremmo una classe differenziale. Aveva difficoltà a scrivere e a parlare. Ma per forza! Questo bambino era un vincitore del premio Nobel per la letteratura e con la sua eloquenza doveva salvare il mondo occidentale. Per forza aveva un difetto di pronuncia, per forza non riusciva a parlare con facilità quando aveva undici o quattordici anni: quello che doveva sostenere era un peso troppo grande per un bambino. Oppure prendiamo Manolete che, quando aveva nove anni, appariva come un ragazzino impaurito, tutto pelle e ossa, che passava il tempo a ciondolare in cucina, sempre intorno alla madre. Poi è diventato il più grande torero dei nostri tempi. La psicologia direbbe: «Sì, è diventato un gran torero perché era un bambino così gracile che per compensazione ha fatto l’eroe, il macho». Questa sarebbe psicologia adleriana: prendi la tua insufficienza, la tua inferiorità e la trasformi in superiorità. […]
Supponiamo, invece, di considerarlo nell’altro modo e di leggere la vita di una persona a posteriori. Allora diremmo: Manolete era il più grande torero, e questo lui lo sapeva. Dentro di sé, all’età di nove anni, la sua psiche sentiva che il suo destino era quello di affrontare tori neri da dieci quintali, con grandi corna. Per forza si aggrappava alla madre! Perché non ce la faceva a reggere quel potenziale. A nove anni il tuo destino c’è già tutto e tu non sai come regolarti: è troppo grande. Non era che Manolete fosse inferiore: aveva un grande destino. Adesso, supponiamo di guardare tutti i nostri pazienti in questo modo. Supponiamo di guardare tutti i ragazzi che sono strani, balbuzienti o spaventati, e, invece di considerare queste difficoltà come problemi di sviluppo, consideriamo che questi ragazzi abbiano dentro di sé qualcosa di grande, un qualche destino che essi non sono ancora in grado di padroneggiare. È qualcosa più grande di loro e la loro psiche lo sa. Questo è un modo di leggere la nostra stessa vita in maniera diversa. Invece di leggere la nostra vita, oggi, come il risultato di sconfitte patite quando eravamo bambini, proviamo a leggere la nostra infanzia come un esempio in miniatura, un cammeo della nostra esistenza, e ci accorgiamo che fino a circa ottant’anni non è possibile conoscerla veramente tutta, e allora si è troppo vecchi per metterla a fuoco, o perché ci interessi farlo!»