
Giunti a Roma le proporzioni delle sontuosità dei festeggiamenti e delle cerimonie giganteggiarono sino all’incontro con il vecchio papa, che parve esser lieto alla vista della fresca e ridente giovinezza di Caterina, la quale fece il suo ingresso solenne a Roma, da Porta Angelica dove l’attendeva Sisto IV e un grande torneo equestre in piazza Navona, organizzato dal Riario in suo onore fino al matrimonio ricelebrato in S. Pietro dal papa fra un mugolo di dame, di cavalieri, di cardinali e ambasciatori. Ma è alla morte del papa che Caterina, ventunenne, dimostra per la prima volta, e non sarà l’ultima, la sua virilità (tanto da essere per tutta la vita considerata una donna dotata di forza e di arditezza virile). Mentre a Roma scoppiavano gravi disordini fra i partigiani di papa Sisto e i loro avversari, il marito che stava con la famiglia all’assedio di Palliano, timoroso si fermò ad aspettare gli eventi, mentre Caterina al settimo mese di gravidanza cavalcò verso Castel Sant Angelo e d’accordo con i comandanti delle milizie fece sapere ai cardinali che, dato che il defunto papa l’aveva lasciato a suo marito, lui lo avrebbe consegnato al nuovo papa. Non si poteva fare il Conclave con i cannoni puntati da quella formidabile roccaforte e quindi si trattò alle sue condizioni: 8000 ducati, l’indennizzo di tutti i beni saccheggiati, la carica a vita di capitano della Chiesa per suo marito e il vicariato di Imola e di Forlì alle stesse condizioni precedenti.
Durante questi sette anni Caterina venne in contatto con i grandi pittori, scultori, poeti e letterati della corte del papa (Botticelli, Ghirlandaio, Perugino, Luca Signorelli…), ma anche i dotti dell’Accademia Romana (Platina, Argiropulo, Regiomontano …), la rinata Cappella Sistina, il Museo Capitolino, l’Ospedale di Santo Spirito …
In questi anni assunse sempre più le redini dello stato, essendo Gerolamo ammalato. Caterina, come già aveva fatto a Roma, anche in Romagna rivelò se stessa togliendo d’improvviso la rocca di Ravaldino al castellano Melchiorre Zaccheo del quale diffidava e che fece ammazzare a tradimento, quindi inquirendo e sentenziando da sola, mentre il marito era infermo, su di una congiura ch’ebbe per cospiratori gli spodestati Ordelaffi e per esecutori certi Raffi, contadini di Rubano. In questo caso Caterina procedette con la crudeltà tipica del tempo, ma con equità e giustizia assolutamente superiori a quella che era la consuetudine per i signorotti del XV secolo.
Quindi tra l’assassinio di Zaccheo e la punizione dei congiurati diede alla luce il sesto figlio, Francesco, che in seguito chiamò Sforzino per rinnovare il nome del glorioso nonno paterno. I precedenti figli erano stati: da Girolamo Riario Bianca, Ottaviano, Cesare, Giovanni Livio, Galeazzo e Francesco, poi da Giacomo Feo: Bernardino e da Giovanni de’ Medici: Lodovico, detto poi Giovanni, il famoso capitano detto dalle Bande Nere
Il ripristino dei dazi che danneggiava prevalentemente gli artigiani, l’imposta fondiaria che andava a colpire soprattutto il patriziato e non ultimo lo spirito di vendetta delle famiglie sacrificate dalla giustizia criminale dei Riario contribuirono a rendere il clima quanto mai propizio alla congiura che si compì il 14 aprile 1488 per mano dei nobili Checco Orsi, Giacomo Ronchi e Lodovico Pansechi. Girolamo Riario venne ucciso a pugnalate nel suo palazzo di Forlì nel 1488 e il suo corpo gettato dalla finestra poiché nella piazza il popolo inferocito lo reclamava dimostrando come la congiura fosse stata attesa e preparata da entrambe le classi sociali. Caterina si rifugiò nel fortilizio di Ravaldino con un espediente: (qui per la seconda volta salva lo stato) d’accordo con il castellano della roccaforte, Tommaso Feo, che mandò a dire di non voler lasciare la fortezza senza che la Signora andasse la lui a firmare la propria resa, ma non appena Caterina entrò nel castello fece subito puntare i cannoni sulla città. I cospiratori allora le fecero sapere che se non avesse subito consegnato Ravaldino le uccideranno tutti i figli e la sua famiglia ch’era in ostaggio. E qui c’è quel gesto impudico per cui andò famosa nei secoli: la sua risposta a quella minaccia sarebbe entrata nella leggenda: “Caterina avanzò fra gli spalti del castello, guardò coloro che avevano lanciato la minaccia e quindi, con un gesto brusco e osceno ostentò la sua possibilità di fare altri figli se gli ostaggi fossero stati uccisi”. Quando finalmente gli eserciti del duca di Milano e del Bentivoglio giunsero in aiuto di Caterina, gli uccisori di Girolamo, dopo avere inutilmente tentato di riavere i figli della Contessa, furono costretti alla fuga, ma nessuno di essi riparò a Firenze da Lorenzo e tantomeno a Milano. Il 30 aprile 1488, all’età di 25 anni, Caterina iniziava il suo governo su Imola e Forlì, da questo momento, presa in pugno la signoria romagnola, dimostrò di poter da sola reggere uno Stato, presiedere un governo, capitanare un esercito.
Ella conobbe per la prima volta una relazione, non imposta dalle esigenze del potere, ma germogliato spontaneamente: Giacomo Feo, che sposò segretamente e da cui ebbe un figlio. Anche lui venne ucciso il 27 agosto 1495 mentre tornava da una partita di caccia: la carrozza fu aggredita dai congiurati, che, sbucati numerosi si gettarono su di lui crivellandolo di pugnalate.
Poi venne il vero amore, Giovanni di Pierfrancesco de’ Medici, detto il Popolano, che viene spedito in qualità d’ambasciatore presso Caterina e colto, distinto, bellissimo sa fare così bene la sua parte da divenire in poco tempo amico, amante, marito e dominatore assoluto della terribile donna, resa ancora una volta mite e dolce per virtù d’amore. Giovanni morì di malattia a S. Pietro in Bagni il 15 settembre 1498, pochi mesi dopo il riconoscimento a Caterina della cittadinanza fiorentina per sé, per i suoi figli e per quelli futuri, ma prima aveva dichiarato di avere sposato Giovanni, padre di Ludovico e di assumersi la tutela del piccolo. Di questo amore le rimase il piccolo Ludovico, da lei chiamato Giovanni in memoria del padre, il futuro Giovanni dalle Bande Nere, prode condottiero destinato a memorabili imprese, se la morte non lo avesse stroncato, a soli ventotto anni, con una cancrena trascurata da un medico ignorante.
Madonna, che aveva assistito sbigottita alla disavventura del duca di Milano, suo unico protettore, sospettando che il Valentino terminata la campagna di Lombardia avrebbe avuto dal re di Francia milizie ed armi per impadronirsi della Romagna, si mise ad arruolare soldati che addestrava di persona, a fare incetta di armi, viveri e munizioni, a fortificare rocche e a piazzare artiglierie con il fermo proposito di opporsi alla sopraffazione armata dei Borgia.
Nel 1499 si manifestarono in città alcuni casi di peste bubbonica e in poco tempo il contagio dilagò da una famiglia all’altra, ma Caterina, come già aveva fatto in precedenti simili circostanze, adottò drastici provvedimenti per contenere l’epidemia ed alleviare le sofferenze dei suoi sudditi, tanto più che ora il propagarsi della peste rischiava di compromettere la capacità di resistenza del suo Stato, minacciato di guerra dal Valentino. Ancora una volta i suoi timori erano fondati: al Valentino furono dati quindicimila francesi per l’impresa di Romagna mentre alla Repubblica di Firenze e a tutti gli Stati che non erano entrati nella lega fu intimato, salvo ritorsione armata, di non dare alcun aiuto a coloro che sarebbero stati assaliti in nome del pontefice. Fu il grande momento di Caterina. Posti in salvo i figli a Firenze, eccetto il primogenito Ottaviano, mandato a Imola per seguire le opere di difesa, senza sgomento si preparò solitaria alla resistenza, decisa a difendere con tutte le sue forze lo Stato e i diritti dei suoi discendenti. Cesare Borgia, dopo averla per ordine del Papa, decaduta dalla contea, mise una taglia sulla testa della contessa confidando nel tradimento: diecimila ducati a chi l’avesse consegnata via o morta.
La più ammirata durante l’assedio era Caterina che, protetta soltanto da una corazzina, trascinava i suoi e affascinava i francesi; la sua figura mezzo donna, mezzo soldato dominava la scena ed era sempre lei che, alla testa di temerarie sortite, con la spada affrontava i nemici in furiosi corpo a corpo. La Contessa si oppose ma alla fine dovette rallegrarsi di essere caduta in mani francesi, poiché le leggi di Francia non consentivano che le donne fossero tenute prigioniere. Con la cattura della signora tutta la fortezza s’arrese. Era la sera del 12 gennaio 1500. Caterina aveva 37 anni. Caterina, catturata nel nome del balì di Digione, andava considerata sotto la protezione del re di Francia e quindi avrebbe dovuto essere messa in libertà, ma il Valentino non intendeva rinunciare alla preda sapendo che il papa desiderava gli fosse condotta. Si decise dunque per l’affidamento provvisorio. Oltre a Caterina furono fatti prigionieri il figlio adottivo Scipione Riario, alcune sue dame, il cancelliere Baldraccani, Giovanni da Casale, il poeta Marullo, la moglie di Dionisio Naldi con i figli e vari altri personaggi appartenenti a famiglie nobili o di censo, in seguito rilasciati perché in grado di pagare il riscatto. I soldati anonimi furono invece sgozzati. La contessa venne accompagnata in una casa dove alloggiava il Valentino. Il Bernardi si riferisce alla violenza sessuale del Valentino quando parla “de le ingiustitie nel corpe de la nostra poverina e sfortunata dita Madonna, zoé Caterina Sforcia, che era molto formosa de so corpe” e poi : “Il Valentino con le sue mani imprigionò Caterina … Taccio quello che osò di fare il Duca Valentino a questa Donna Nobilissima, ecc….”, un cronista vaticano tratta lo stesso argomento in tono molto velato parlando di violenza fatta alla prigioniera e di “crudeli strazi”. Nelle note diplomatiche e presso le corti, nelle pagine dei cronisti e fra la gente d’arme, negli scritti politici dei contemporanei e nelle piazze non si fece che lodare la Signora di Forlì. Altrettanto significativi furono i riconoscimenti dei francesi e persino dei veneziani, i quali ultimi “anchora che questa madama fosse stata inimica allo Stato Veneto” scrissero che l’irriducibile rivale “veramente merita infinite laude et immortal memoria tra li famosi et degnissimi capitani romani”. Anche Isabella Gonzaga, famosa per cultura ed eleganza, volle esaltare la “valorosità” di Caterina e con una punta d’orgoglio tutto femminile ebbe a dire che “se Franzosi biasimano la viltà de li homeni, almeno debbono laudare lo ardire e valore de le dame italiane”. E Guicciardini definisce Caterina “fra tanti difensori ripieni d’animo femminile, ella sola di animo virile”.
Caterina lasciò per sempre Forlì il 23 gennaio 1500. Luigi XII non aveva rinunciato alla conquista del regno di Napoli progettata nel ’99, l’aveva soltanto rimandata e nella primavera del 1501 il suo esercito scese in Italia al comando di Ivo d’Allègre il quale, il 20 giugno, si presentò a Roma dal papa. Appreso che Caterina era rinchiusa in Castel S. Angelo, memore dell’impegno assunto dal Valentino l’anno prima, ne chiese la liberazione in nome del re di Francia. Alessandro VI dovette arrendersi, limitandosi a chiedere che la Signora di Forlì e d’Imola, prima della liberazione, firmasse la rinuncia ai suoi stati. Andò dunque di notte, segretamente, fino ad Ostia e lì s’imbarcò per Livorno da dove proseguì in incognito alla volta di Firenze. Nella città medicea Caterina fu accolta dal cognato Lorenzo che la mise in possesso dei beni di suo marito (Caterina godeva della cittadinanza fiorentina fin dal 26 luglio 1498) e attorno a lei si raccolsero i figli, ricordo dei suoi amori e dei suoi errori. Alla morte del Papa Borgia Caterina non si arrese e inviò a Venezia il suo messo Antenore Giovannetti per chiedere aiuto anche a quella signoria: si sarebbe messa a disposizione completa della Serenissima se aiutata a rientrare nei suoi stati, avrebbe anche combinato un matrimonio fra Ottaviano e la figlia di un gentiluomo veneziano, ma i veneziani, saputo che la contessa non godeva le simpatie del cardinale camerlengo Raffaele Riario, lasciarono cadere la proposta.
Nell’aprile 1509 madonna cadde gravemente ammalata, ma riuscì a riaversi. La guarigione fu l’ultimo guizzo d’una fibra impetuosa ormai consumata. Sentendosi vicina alla morte, ma con la mente ancora perfettamente lucida, come testimonia il suo testamento, espresse le ultime volontà davanti a notaio. Morì a Firenze 28 maggio 1509 e sulla sua lapide il nipote Cosimo de’ Medici fece scrivere Caterina Sforza Medici. Non soltanto Sforza; non più Sforza Riario. Ma Caterina Sforza Medici: madre di Giovanni dalle Bande Nere.
Quali vicende ha attraversato il manoscritto di Caterina Sforza?
Nell’ottobre del 1887, a Roma, il Conte Pier Desiderio Pasolini di Ravenna veniva in possesso di un manoscritto del XVI secolo avente per titolo Experimenti de la Ex.ma S.ra Caterina da Furlj Matre de lo Inlux.mo Sig. Giouanni De’ Medici copiati dagli autografi di lei dal Conte Lucantonio Cuppano, colonnello ai servigi militari di esso Giovanni De’ Medici detto Dalle Bande Nere.
Si trattava del codice di Caterina Sforza, contenente ricette di cosmesi, medicina e chimica, che il Conte Lucantonio Cuppano, ufficiale dell’esercito di Giovanni Dalle Bande Nere, aveva trascritto intorno al 1525, ricopiandone però di propria mano solo una parte come dimostrano le due differenti scritture.
Un’unica calligrafia, forse risalente alla fine del ‘400, presentava invece un altro manoscritto reperito a Firenze intorno al 1865 dal senatore Marco Tabarrini e intitolato A far bella. Gli argomenti trattati nel libro erano gli stessi del codice rinvenuto dal Pasolini e sulla prima pagina si leggeva il nome di Caterina Sforza. Poteva trattarsi dell’originale, scritto personalmente da Caterina? Probabilmente sì, ma la perdita di quest’opera impedisce ulteriori studi. Il ricettario trovato fu pubblicato dallo stesso Pasolini a Imola, nel marzo 1891, in sole 102 copie numerate. “Questo ricettario – scrive nell’Introduzione – è forse il documento più completo e più importante conosciuto finora sulla profumeria e sulla medicina del principio del secolo XVI”.
Nell’orto di “semplici” che aveva voluto sorgesse all’interno del grande parco a ridosso della cittadella di Ravaldino si coltivavano erbe per la cucina ed erbe medicinali per l’officina dei suoi esperimento la quale doveva essere un vero e proprio laboratorio d’alchimia con calderoni, storte e alambicchi in grado di estrarre e distillare per poi comporre medicamenti, creme e lozioni di bellezza. Pur di raccogliere notizie e carpire sempre nuovi segreti Caterina non esitava a servirsi di mezzi anche illeciti e allo stesso scopo si teneva in contatto epistolare con medici, alchimisti e praticanti, soprattutto con lo speziale forlivese Lodovico Albertini il quale le restò affezionato per tutta la vita, continuando a portarle “robba de la sua botega”, anche quando ella viveva ormai a Firenze.
I 471 “Experimenti de la Ecc.ma Signora Caterina da Furlj”, tante sono le ricette copiate dal manoscritto della contessa e pubblicate sotto questo titolo, rappresentano il concreto risultato di questa ricerca, in alcuni casi accompagnato dalla sperimentazione diretta, in altri prodotto di personale invenzione, in altri ancora semplice trascrizione di formule altrui o di dettami popolari.
Cosa contiene il ricettario?
Le ricette del codice di Caterina appaiono tutt’altro che uniformi: alcune sono scritte in latino, altre in italiano volgare, altre ancora, forse quando Madonna desidera non essere compresa da tutti, metà nell’uno e metà nell’altro idioma, con uso di idiotismi propri della regione romagnola.
Le ricette di medicina sono 357, esposte secondo il sistema officinale, vale a dire con l’indicazione del metodo di preparazione. Con esse si curavano le più svariate malattie: lebbra, peste, vaiolo, fratture, sciatalgie, “cancheri”, gotta, calcoli, disfunzioni di stomaco e intestino, “malcaduco”, sordità, tosse, disturbi della vista, affezioni delle vie respiratorie e urinarie. Non mancano i preparati di pronto soccorso in caso di lesioni o morsicature da animali; i vermifughi per allontanare i parassiti intestinali allora così frequenti; le micidiali purghe a base di venefico elleboro, estremo rimedio a mali estremi; i complessi elisir di lunga vita per inseguire il sogno mai appagato di una eterna giovinezza. La Signora di Forlì, inoltre, raccoglieva e sperimentava composti a base di erbe aromatiche per incensi e suffumigi che, consumando lentamente nei bracieri, profumavano gradevolmente gli ambienti e coprivano miasmi e maleodoranze.
Le ricette di cosmesi che “Madonna” ci propone sono 84 e offrono lozioni, pomate, unguenti, lisci, polveri, acque “a far bella”, belletti e profumi per conservare la linea, levigare, rassodare, schiarire, depilare, detergere, tonificare, idratare, truccare e profumare.
Forse l’insistenza di Caterina su questi due aspetti della bellezza femminile (incarnato roseo e capelli color del grano) può aver indotto i biografi a descriverla conforme ai canoni del tempo o potrebbe essere che la Signora di Forlì avesse ottenuto ad arte ciò che natura le aveva negato. Purtroppo non possediamo un sicuro materiale iconografico e descrittivo per stabilire se Caterina fosse stata realmente chiara di carnagione e bionda di natura, il suo volto ci appare senza colore, nel freddo bronzo dei medaglioni dell’epoca, e i ritratti di cui disponiamo sono posteriori alla sua esistenza, ma ci può aiutare ad immaginarla bella tra le belle del suo tempo, come ella desiderava apparire, il suo contemporaneo e primo biografo Felice Foresti da Bergamo che di lei scrisse: “E’ Caterina fra le più belle donne del nostro secolo, di elegante aspetto e dotata di forme mirabili”.
Le cronache del coevo Andrea Bernardi ce la mostrano alta, ben proporzionata e di aspetto formoso, con grandi occhi piuttosto sporgenti, sopracciglia alte e arcuate, naso importante di profilo lievemente convesso (tipico degli Sforza), mento pronunciato e sguardo penetrante e fiero. Istruita, ma senza la cultura e le possibilità economiche di altre nobildonne rinascimentali sembra infine che amasse l’eleganza e che la sua nota parsimonia venisse meno quando si trattava di cura della persona: la ricchezza delle stoffe e il numero elevato di abiti inventariati, nonché la cospicua somma di cui alla morte risultò debitrice verso Lodovico Albertini, suo speziale di fiducia, non possono d’altronde che confermare queste informazioni.
Tra le ricette, una quindicina vengono definite ‘afrodisiache’.
Coraggiosa “virago”, altrettanto nota per i suoi intensi appetiti, la Signora di Forlì, con le sue ricette afrodisiache non si limitava, come lei ci dice, “a fare luxuriare inestimabile”, ma otteneva addirittura di “fare stare duro el membro tutta la notte”. Nel suo laboratorio d’alchimia, consigliata da speziali e apotecari, ma anche da ciarlatani e mammane, come una strega di villaggio distillava sostanze vitali per combattere “contra el difecto de natura in alcuno homo o persona non posente usare cum femmina” ed escogitava formule efficaci per fare ingravidare, sgravidare e “fare che una donna non se lassi toccare ad altri che te”. “Piglia zibetto, consigliava al geloso, uno caratio, muschio uno caratto et fallo impalpabile et imposta omne cose inseme con siroppo zenzaro verde, poi ogni la testa del membro et usa con donna”.
Il ricettario d’amore di Caterina non ha nulla da invidiare a un manuale di sessuologia; le conoscenze dimostrate da Madonna in materia erotica sono davvero straordinarie e siamo certi che se molti furono gli uomini ai quali ella seppe tener testa nelle questioni politiche, forse di più furono quelli da lei messi in discussione nelle non meno importanti battaglie di letto.
L’intensa richiesta di piacere durante l’età rinascimentale, non solo da parte maschile (anzi sembra fossero proprio le donne ad avere ruolo dominante nelle questioni sessuali) è evidente dal ricettario di Caterina, dove, accanto a preparati cosmetici mirabili nel far risplendere le armi femminili di seduzione e di conseguenza nell’accendere il desiderio, troviamo singolari artifici per “restaurare” parti logorate o stanche o inabili e nel suo laboratorio d’alchimia (nella Rocca di Ravaldino ove c’era il suo orto botanico), consigliata da medici, speziali e apotecari di Romagna e di Toscana, ma anche da ciarlatani e mammane, barbieri e norcini, come una strega di villaggio distillava sostanze vitali atte “quanto te piacerà di stare in festa”. Ma le tanto vituperate ricette afrodisiache sono solo una quindicina di rimedi che in qualche modo attengono alla sessualità, quando gli Esperimenti sono 471 e 84 di cosmesi e lisci “a far bella”
Come aveva sviluppato Caterina le sue abilità fitoterapiche?
E proprio negli anni della fanciullezza frequentando Cristoforo de Brugora, speziale di Bona di Savoia, sua madre adottiva, e il suo giardino botanico, Caterina prese passione alle ricette di salute e ai giardini con erbario
Ma Caterina è una sperimentatrice di vaglia e a parte il lapidario, che tutti riportavano, e le “analogie” sessuali con vegetali ed animali, la fitoterapia (uso delle piante o estratti di erbe per la cura e la guarigione) di Caterina Sforza è alla avanguardia per i suoi tempi.
Le ricette del codice di Caterina appaiono tutt’altro che uniformi: alcune sono scritte in latino (non maccheronica ma di certo “non bembiano”), altre in italiano volgare, altre ancora, quando Madonna lascia credere di non voler essere compresa da tutti, metà nell’uno e metà nell’altro idioma, con uso di un codice in linguaggio cifrato “comprensibilissimo” e anche con degli idiotismi propri della regione romagnola conditi con parole lombarde. Poi il Cuppano ha fatto il resto: un diciassettenne colonnello delle più terribili soldatesche dell’epoca che s’improvvisa copista!
A questo periodo, relativamente tranquillo, appartiene il libro intitolato “A far bella”, in cui Caterina riunì le ricette che le servivano appunto a quello scopo e che può giustamente essere considerato il primo manuale di cosmesi. Le ricette riguardano per lo più unguenti atti ad ammorbidire la pelle, a proteggerla dal gelo e dagli eritemi solari, ma anche decotti d’erbe per pulire l’intestino, polveri (carbone di rosmarino, raschiatura di corno di capretti) per rendere i denti più bianchi, estratti da vegetali per tingere i capelli e in genere tutto ciò che potesse contribuire a migliorare il suo aspetto e a renderla attraente agli occhi dei suoi contemporanei
Qual è il valore storico e culturale dell’opera?
Caterina eredita uno stato costruito a prototipo del nepotismo e fa di tutto per mantenerlo opponendosi a chiunque da suo zio al re di Francia, al Papa e al duca Valentino. Tiene corte aperta ad ogni sorta di attività ludiche, letterarie, scientifiche, intrepida nelle armi, divoratrice di opere medico-farmaceutiche sa essere estremamente competente nelle pratiche afrodisiache, a lei ricorrono e concorrono tutto uno stuolo di pazienti e praticanti, conoscitrice di Galeno ed Avicenna, si comporta come una strega di villaggio e sa rinforzare e sopire gli ardori d’amore, conosce i segreti per far ingravidare e sgravidare, sa le misure e le contromisure dei filtri d’amore. Il suo ricettario d’amore è una vera e propria miniera per l’erotologo e le sue conoscenze della sessualità sono davvero straordinarie. Caterina non conosce limiti, prova e sperimenta tutto ciò che le possa calmare i suoi robusti appetiti e, da autentica professionista, cataloga, analizza, studia i più intimi recessi della fisiologia e della psicologia del sesso. Figlia del proprio secolo non conosce limiti e mostra una libertà di costumi ed una sfrontatezza che non poteva che lasciare nel maschio un terribile senso di frustrazione per esser stato da lei abbondantemente superato quale campione del “molto luxuriare”.
“Questo ricettario – scrive nell’ Introduzione il Pasolini – è forse il documento più completo e più importante conosciuto finora sulla profumeria e sulla medicina del principio del secolo XVI della sua epoca.
Una Caterina “donna” è quindi esistita, aldilà della fama di “virago” attribuitale dalla tradizione, e bella, galante e raffinata, con la sua passione per i segreti delle acque e gli arcani della distillazione ci ha fornito il più completo e importante ricettario finora conosciuto sulla profumeria e la medicina del XVI secolo, un ricettario ch’ella arricchì di anno in anno, che tenne sempre con sé, come un diario, anche nei giorni turbinosi dell’ultimo assedio, anche nella melanconica solitudine del declino. Mentre un esercito di 12.000 soldati si disponeva ad assediare la rocca di Ravaldino, Madonna, dopo aver rinforzato le difese e piazzati i cannoni, si rilassava scrivendo a un amico fiorentino perché le procurasse vasellame di vetro e alambicchi: “Mandatice palle tre de vetro tondo habiano il buco picolo et che tengano doi bucali de misura et XII cipolle marine che se chiamano schille, che quanto più presto le mandarite ne serrà più grato”.
Un decennio dopo, nel marzo 1508, un anno prima della sua morte, faceva chiedere ad Anna, ebrea di Roma, alcune ricette di creme per il viso e “uno unguento negro” contro la cellulite “el quale assotiglia la carne e la fa lissa”.
Il grande interesse di Caterina per le ricette magico terapeutiche, di cosmesi e alchimia, veniva dal mondo tardo antico e dalla cultura d’oriente, da tradizioni remote depositate nelle “officine” dei monasteri e affidate alle corti e ai saperi domestici delle “streghe” e delle comari, dei barbieri e dei ciarlatani.