
C’è qualcosa di soprannaturale in questo quadrato che riproduce in terris uno spaccato della volta celeste: nel linguaggio degli auguri – i sacerdoti incaricati di auspicare, di pronosticare il favore degli dei circa un’azione da intraprendere – questo era un templum. Un templum in terris omologo a quello in coelo, che gli auguri usavano tracciare idealmente in cielo per delimitare lo spazio di osservazione dei segni celesti come il volo degli uccelli da cui trarre l’auspicio: esattamente come fa Romolo che vede più avvoltoi di Remo e per questo si ritiene – e fu ritenuto – il predestinato.
Dunque, sequenze di linee a formare quadrati sempre più ampi, dal più piccolo, l’actus quadratus, al più grande, la centuria, composta di 100 actus. Quattro actus – poco più di 5000 mq – formano il cosiddetto heredium, una unità culturale (quadrata) minima, quella sufficiente alla sopravvivenza di una famiglia romana media.
Attraverso questa tecnica di divisione della terra scaturiscono i fondi da assegnarsi in proprietà esclusiva: proprio come il mito racconta che avrebbe fatto Romolo che, dopo aver creato la città quadrata, distribuisce a quei primi cittadini la terra frazionata in quadrati da arare e coltivare. Così è nata – e non solo nel mito – la giuridicità occidentale, basata su linee che solcano la terra e creano i domini privati, cioè l’ordine quadrato. Quest’ordine – fatto di linee divisorie – diviene il modello organizzativo degli spazi virtuali dello ius, del diritto: anche lo ius divide le condotte rette da quelle scorrette, il lecito dall’illecito. Ma se lo ius divide, è a sua volta diviso: in parti (partes iuris) e in generi sommi o di vertice e, poi a cascata, in varie specie. Ecco allora la prima pars, dedicata alle persone per le quali esiste una somma divisione in liberi e schiavi e da qui altre divisioni e altre specie (tra persone nate libere e persone nate schiave e poi liberate ecc.).
Quando e come si sviluppa la categorizzazione del diritto privato romano?
Abbiamo un giurista, Quinto Mucio Scevola, e un secolo, il II a.C., in cui egli visse e operò (e, anzi, fu console nel 95 a.C.). Soprattutto abbiamo una notizia attendibile, trasmessaci dal Digesto dell’imperatore Giustiniano: Quinto Mucio fu il primo ad organizzare la materia giuridica attraverso il metodo divisorio, per generi e specie. È comune pensare che il ricorso al metodo divisorio da parte di questo giurista sia dovuto all’influenza della filosofia greca che coltivò la diaresis, la tecnica diaretica o, appunto, divisoria al fine dell’acquisizione di nuove conoscenze e dell’organizzazione del sapere acquisito. Può essere; ma la diaretica non avrebbe avuto così tanta fortuna presso i giuristi romani se non fosse stata insita nella loro stessa antropologia culturale l’idea, e il valore, della divisione del reale.
Come si articolava la categoria delle personae?
Categoria è una partizione della realtà non solo fisica ma anche virtuale (e il diritto è creatore di una realtà virtuale che può anche – si pensi a una persona giuridica – non trovare alcuna corrispondenza nella realtà fisica). La categoria può essere più o meno estesa e, di conseguenza, ha una corrispondente attitudine inclusiva – e dunque ordinatrice – di entità che abbiano in comune (almeno) un carattere o proprietà. Cicerone raccomandava di ordinare lo ius attraverso l’individuazione di pochi generi sommi o categorie di vertice, necessariamente molto ampie. Da questo punto di vista la categoria di vertice, quella delle persone, in diritto romano, se si tien conto del contesto di quei tempi, ha una straordinaria attitudine inclusiva, che le ha consentito di irrompere poi nella modernità.
Per diritto romano sono personae tutti gli homines intesi come corpi con forme umane; e, dunque, sono persone anche gli schiavi. Non è cosa da poco nel contesto di una società e di un’economia schiaviste. Se il diritto riconosce che qualunque uomo sia persona e che, dunque, (anche) lo schiavo sia, almeno in potenza, soggetto di diritti (e, in effetti, se liberato lo sarebbe diventato), vi è una premessa da evidenziare: tutti gli uomini sono, per natura, eguali e le differenze sono semplicemente l’esito della sovrapposizione, e dell’imposizione, delle divisioni (successivamente) stabilite dal diritto. Così si apre alla possibilità di uno sviluppo del sistema in senso egalitario. Certo in diritto romano, dagli inizi a Giustiniano, le persone erano e rimasero rigorosamente divise e, perciò, diverse le une dalle altre in quanto queste divisioni radicavano notevoli differenze o, diremmo oggi, discriminazioni. Tra le stesse persone libere pienamente capace era il solo pater familias, cioè il maschio che non avesse più in vita alcun ascendente in linea maschile: la conseguenza pratica era che figli e mogli non erano capaci di essere titolari di alcun diritto patrimoniale e tutto era del pater.
L’opzione di collocare nello ius in posizione di primazia le personae e, nel contempo, di sancire che tutti gli homines sono egualmente personae fu particolarmente apprezzata tra Seicento e Settecento, quando si trattò di fondare il primato dell’individuo sullo Stato e di corredarlo di un fascio di diritti inalienabili e senza alcuna distinzione o discriminazione tra le persone. Una conquista, non c’è dubbio, che appare, però, come un’ulteriore evoluzione del diritto romano, definitivamente stabilita con le rivoluzioni settecentesche e le dichiarazioni dei diritti che esse produssero.
Quale divisione vigeva invece per le cose?
Ancora più ampia è, in diritto romano, la categoria delle cose. La partizione di vertice è, almeno teoricamente, senza fine: le res sono di diritto divino oppure di diritto umano, come dire che il diritto considera, censisce, norma, o può normare, tutte le cose celesti (e soprannaturali) e terrene. Da questi due sommi generi muovono varie e ulteriori divisioni delle cose. Qui è interessante ricordarne almeno una: le cose sono corporali o incorporali, a seconda che si possano o no toccare.
Le cose incorporali consistunt, esistono, nel mondo del diritto, cioè in una dimensione che non è fisica, ma artificiale o virtuale. Questa realtà intangibile è quella propria degli iura, dei diritti: un usufrutto o un complesso di diritti quale l’eredità esistono solo per convenzione e hanno un’identità, per così dire, mentale. Nella nostra epoca le res incorporales si sono confermate come una straordinaria invenzione, capace di ordinare le cose di un mondo impensabile fino a qualche decennio or sono: il riferimento è al virtualissimo mondo dell’internet le cui cose, sappiamo, pur prive di fisicità, sono oggetto di dominio privato e di transazioni commerciali alla pari delle tradizionali, persistenti, res corporales.
Cosa comprendeva la categoria generale dell’actio e quali forme di processo esistevano a Roma?
L’actio in origine era effettivamente un’azione fisica, muscolare, attraverso la quale chi riteneva di aver patito torto reagiva per ottenere giustizia: per esempio, se uno pensava che una sua cosa fosse ingiustamente nelle mani di un altro prendeva la lancia e lo sfidava a duello, all’esito del quale sarebbe risultato se avesse davvero ragione. Nello sviluppo successivo, in atto già agli esordi della Città o quasi, l’actio ha dismesso la fisicità delle origini ed è entrata per intero nel mondo del diritto, della virtualità giuridica: essa è un diritto, il diritto del cittadino (o, in un certo ambito, anche dello straniero) di chiedere giustizia dal magistrato o funzionario pubblico.
Le actiones sono anch’esse variamente divise e distinte a seconda del fine, dello scopo a cui sono preposte. Quanto alle forme di processo romano, esse sono in tutto tre e si sono succedute nelle diverse epoche storiche: troppo diverse tra loro, e ciascuna alquanto complessa, per tentarne qui una presentazione per quanto sintetica. Basti ricordarne la denominazione: venne per primo il processo per legis actiones (dagli inizi al I secolo a. C.), poi vi fu il processo formulare (dal III secolo a. C. al III secolo d.C.), ultima la cognitio extra ordinem (dal I secolo d. C. alla fine di Roma).
In che modo le tre categorie del diritto romano si sono poi riversate nel diritto occidentale?
Le tre categorie di vertice e, in genere, le sotto-categorie o generi ulteriori e le successive specie sono giunte a noi attraverso una tradizione ininterrotta e, comunque, ripresa e attualizzata magistralmente nelle università medievali, a cominciare da quelle italiane. Una tradizione, occorre aggiungere, rinnovata nella modernità e, finalmente, assunta a sistema ordinante nelle codificazioni ottocentesche, prima fra tutte quella napoleonica del 1804. Così il vigente codice civile italiano è informato all’antica tripartizione personae res actiones: il primo libro è dedicato alle persone, poi si trovano le cose o beni, i diritti reali e le obbligazioni, il sesto libro concerne la tutela dei diritti, dove si introducono le prove da utilizzarsi nel processo, anche se la disciplina del processo civile è oggi accolta in un codice dedicato: il rispetto della tradizione emerge proprio attraverso questo libro sesto che continua a trattare di strumenti per dimostrare la propria ragione.
Quali problemi attuali solleva la tripartizione gaiana?
La tripartizione gaiana appare, tutto sommato, ancora viva e vitale nella sua ampia attitudine inclusiva alla quale abbiamo accennato. Magari qualcuno contesta che l’attributo di persona resti comunque riservato agli umani, mentre si pensa che si potrebbe estenderlo anche agli animali che così si vedrebbero corredati automaticamente di tutto uno statuto di diritti. Si contesta anche l’identità romana tra persona e corpus perché l’uomo contemporaneo vorrebbe essere proprietario del proprio corpo e disporne come se fosse una cosa; e così poterne far commercio o decidere di porre fine alla propria vita. Ma la contemporaneità ha messo in crisi soprattutto le categorie non di vertice. Si pensi alla nozione di famiglia che, in diritto romano, era definita senza ambiguità (tutte le persone soggette alla potestà del medesimo pater), mentre oggi la famiglia è quasi impossibile definirla giuridicamente in quanto si tende a prescindere da elementi essenziali nella tradizione come il matrimonio o la generazione naturale. Si pensi anche alla nozione di proprietà che appare oggi alquanto lontana dal dominium romano che non ammetteva alcun vincolo o limitazione nell’interesse pubblico.
Quale futuro per il diritto romano?
È da duemilacinquecento anni che si studia diritto romano; e nei secoli immediatamente precedenti gli ultimi due esso era non solo studiato ma applicato positivamente nei tribunali di tutta l’Europa continentale: a ragione veniva qualificato ius commune europaeum. Oggi non ha più senso coltivare il diritto romano per la correzione, o l’evoluzione, del diritto vigente perché questo, pur figlio della tradizione scaturita dall’esperienza giuridica di Roma antica, si evolve indipendentemente, secondo lo spirito contemporaneo. Né ha comunque senso coltivare il diritto romano in funzione ancillare del diritto vigente perché sarebbe sminuire l’importanza di questo deposito culturale trasmessoci dall’antichità; e comunque si tratterebbe di impegnarsi in un’opera quasi sempre inutile proprio perché il diritto contemporaneo cammina da solo. Allora il diritto romano va studiato storicamente come una testimonianza di alto valore di una civiltà dalla quale, questo sì, dipendiamo culturalmente. E se studiato in questo modo può darci non solo quelle coordinate culturali che un esperto di diritto non può non possedere; ma anche la consapevolezza che il diritto è sempre un fenomeno storico in quanto tale in perenne divenire. Il che ci fa vedere, e ci attrezza a pensare, oltre il presente, cioè ci spinge a pensare al diritto del futuro che vorremmo sempre migliore, guardando però anche al suo passato. Alla fine l’indicazione è soprattutto metodica: se si vuol pensare giuridicamente uno degli attrezzi è proprio la storia.