“Catalogo dei santi ribelli. Storie di immigrati, ladri e prostitute che hanno cambiato la Chiesa” di Leonardo Tondelli

Catalogo dei santi ribelli. Storie di immigrati, ladri e prostitute che hanno cambiato la Chiesa, Leonardo TondelliCatalogo dei santi ribelli. Storie di immigrati, ladri e prostitute che hanno cambiato la Chiesa
di Leonardo Tondelli
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Leonardo Tondelli cura da dieci anni su “il Post” una rubrica dedicata al santo del giorno in cui offre una visione poco convenzionale dei santi della Chiesa cattolica: presentati in un’ottica niente affatto agiografica, i santi si rivelano in realtà figure profondamente umane. Non poteva, d’altra parte, essere diversamente, come ammette Egli stesso: il volume che le raccoglie, infatti, «parla di santi ma è scritto dalla prospettiva di una persona che non crede alla santità; che la considera un fenomeno umano e non divino». Ecco allora un saggio di questo stile “irriverente” nel ritratto dedicato a Padre Pio, o meglio, San Pio da Pietrelcina, “l’ultimo taumaturgo”.

«Giovanni XXIII non aveva mai potuto soffrire Padre Pio. Da monsignore era riuscito a evitarlo, anche quando batteva la campagna pugliese come responsabile della Propaganda Fide. Da papa considerava quel cappuccino sanguinante e odoroso di acido fenico, con la sua corte di faccendieri e isteriche, un esempio di ciò che la Chiesa conciliare doveva lasciarsi alle spalle. Tutto questo anche prima di ricevere da qualche volenteroso spione una bobina di intercettazioni ambientali in cui la voce del frate e delle sue più zelanti devote era frammista al rumore di sbaciucchiamenti. Senza essere stata sollecitata, la bobina sembrava concepita appositamente per turbare un pontefice refrattario alla sola idea del contatto fisico con individui dell’altro sesso. […]

La bobina fu una nuova fonte di guai per Padre Pio da Pietrelcina, al secolo Francesco Forgione, che aveva già passato i suoi brutti momenti durante i pontificati di Benedetto XV e Pio XI – quest’ultimo, in particolare, era stato a un passo dal sospenderlo dal sacerdozio e deportarlo in qualche convento lontano dalla sua claque. Ma questo avveniva nel Ventennio, quando l’umile servo di Dio si limitava ad amministrare i sacramenti e guarire qualche pellegrino (o gerarca) di passaggio, e non possedeva ancora la totalità delle azioni dell’ospedale più grande del Meridione, una deroga generosamente concessa da Pio XII al voto di povertà. Il Padre Pio su cui indagherà nel 1960 il Sant’Uffizio è già un fenomeno mediatico, tenuto vivo dall’attenzione costante dei rotocalchi, che il Vaticano non riesce più a manovrare.

L’ispezione sollecitata da Giovanni XXIII farà luce su molti aspetti discutibili dell’organizzazione che si era stretta intorno al frate, ma non svelerà nessun «immenso inganno», come pure il papa si era augurato. Del resto a quel punto il cappuccino andava per i settantacinque, sanguinava ininterrottamente da quaranta, e per immaginarlo mentre si intratteneva carnalmente con le sue beghine preferite ci voleva la fantasia morbosa ma un po’ astratta di un alto prelato. […]

D’altro canto qualcuno prima o poi doveva trovare un lieto fine per quella storia inquietante che metteva il Papa Buono contro il più venerato santo italiano del Novecento. Più probabilmente Roncalli si portò i suoi dubbi nella tomba monumentale che lo avrebbe accolto di lì a tre anni; il suo successore, Paolo VI, aveva di Padre Pio un ben diverso concetto. Non solo lo aveva conosciuto, ma era stato uno degli artefici della fortuna di San Giovanni Rotondo, quando al termine della guerra era riuscito a dirottare sull’erigenda Casa sollievo della sofferenza una somma ingente stanziata dagli Usa per le emergenze sanitarie del dopoguerra. Con lui in Vaticano, Pio da Petrelcina poté vivere i suoi ultimi anni sulla terra in relativa serenità. Verso la fine le stimmate sembrarono progressivamente sparire, tanto che in punto di morte non se ne vedevano nemmeno le cicatrici. Cionondimeno il cadavere fu esposto con i guanti, per evitare malintesi o speculazioni.

Le sue incredibili ipertermie (fino ai 48 gradi, sosteneva), che facevano impazzire i termometri degli ospedali, dovevano plausibilmente causargli deliri e allucinazioni, che la fantasia di un ragazzo cresciuto tra la campagna e il convento non poteva che popolare con gli elementi del suo scarno paesaggio simbolico: Madonne e chiodi, ferite e angeli. Forse davvero nell’agosto del 1918 il fraticello renitente alla leva vide un angelo che lo trafisse e lo trasverberò, colmandolo di vergogna. Le piaghe a mani, piedi e costato avrebbe potuto benissimo procurarsele in un delirio, senza dolo: questo lo ammettono anche i suoi più accaniti detrattori. In seguito il carrozzone miracolistico che gli era cresciuto spontaneo intorno, senza che lui avesse i mezzi culturali per ostacolarlo, lo avrebbe in un qualche modo costretto a mantenere aperte le ferite di cui lui stesso fraintendeva l’origine: da qui la necessità di approvvigionarsi di acido fenico o di veratrina, mediante biglietti clandestini che il Vaticano aveva intercettato già nei primi anni venti. Anche di questo inganno, ormai necessario per evitare non solo la propria rovina, ma uno scandalo mondiale per la Chiesa, forse Padre Pio ha intimamente sofferto per quarant’anni, mentre pellegrini da due continenti facevano la coda per baciare le sue piaghe.

Forse Padre Pio era un po’ ottuso. È la conclusione implicita di molti osservatori scesi apposta a San Giovanni per conoscerlo. Nessuno, nemmeno il più scettico, avanza dubbi seri sulla condotta irreprensibile del frate (ci sarebbero volute le intercettazioni del 1960, un tentativo come si è visto abbastanza patetico). Ma quasi tutti lasciano intendere che egli fosse succube di qualcosa molto più grande di lui. Per padre Agostino Gemelli, il poliedrico intellettuale di lì a poco fondatore e rettore dell’Università Cattolica, si trattava di «un uomo a ristretto campo della coscienza, abbassamento della tensione psichica, ideazione monotona, abulia», insomma un isterico da manuale (e Gemelli aveva appena scritto un manuale sui soldati che cercavano di evitare il fronte della Grande guerra mediante pratiche di autolesionismo). Anche i meglio disposti non possono non notare il ruvido accento, il latino zoppicante con cui continuò a dir messa anche dopo il concilio (un’altra deroga, di Paolo VI), la sua incurante ignoranza delle cose del mondo. Forse davvero Padre Pio non era del tutto in grado di capire cosa gli stava succedendo intorno.

Ma non è da escludere l’ipotesi inversa: che questo fraticello ignorante fosse molto più astuto di tutti i suoi ispettori. Abbastanza furbo da sopravvivere a due guerre mondiali e a cinque papi, tre dei quali indagarono su di lui decisi a spostarlo da San Giovanni (e non ci riuscirono); in grado di resistere per tutta la vita all’attenzione asfissiante di un entourage di maneggioni che lo trascinò in qualche affare sballato e fallimentare, senza scalfirne la reputazione; capace di uscire candido come una rosa dal disastro del fascismo, a cui benedì i gagliardetti finché gli convenne. In mezzo a tutto questo, Padre Pio riuscì a intestarsi uno degli ospedali più grandi del Mezzogiorno, parecchi anni prima che anche la sua nemesi, padre Gemelli, avesse il proprio. Una bella rivincita sul vecchio positivista che era sceso nella sua tana pretendendo di misurarne il «campo della coscienza». Se mai nei primi anni gli fosse sfuggita qualche parola critica nei confronti della Chiesa, Pio fu abbastanza astuto da nasconderla; di modo che non esiste oggi, in un infinito corpus di agiografie, più che un accenno al pensiero del santo. Sembra quasi che Pio non avesse un pensiero, che non parlasse. Senz’altro non era per ascoltarlo che milioni di persone arrivavano lì. Pio, più che parlare, stava a sentire. Il suo mestiere quotidiano era sedersi nel confessionale e assorbire le suppliche di centinaia di persone al giorno. Il miracolo non sarebbe consistito nel riuscire a esaudirne qualcuna, ma nel capirle tutte. […]

Pio non propagò nessun particolare messaggio; non si spostò mai dal suo piccolo convento, ma lentamente riuscì a costruirci di fianco un enorme ospedale a regola d’arte. La sua cella rimase la stessa; non gli si può imputare la deriva speculativa di San Giovanni, il flop degli alberghi (ce ne sono troppi, per un’utenza di pellegrini che preferisce il mordi-e-fuggi e raramente si ferma la notte), la chiesa di Renzo Piano, con la sua cripta placcata d’oro: uno sfoggio di ricchezza che difficilmente in vita avrebbe autorizzato. In fondo è solo una leggerissima lamina d’oro, ottenuta dalla fusione di tutti gli ex voto che non si sapeva più dove appendere, brutti e inquietanti da guardare tutti insieme. […]

Non escludo che possa essere stato un imbroglione, un guitto. Non è affatto inverosimile che le tecniche simulatorie adottate durante la Grande guerra per evitare il fronte lo abbiano aiutato a costruirsi l’immagine di santo stigmatizzato, che poi è riuscito a rivendere per quarant’anni a un pubblico sempre più moderno e sempre più arcaico. Questo dovrebbe spingermi a un giudizio morale molto netto, ma non sono un giudice che giudica, men che meno un prete che assolve. Sono una persona mediamente onesta, che senza aver fatto nulla di straordinariamente cattivo nella vita, non ha nemmeno fatto nulla di particolarmente buono. Non posso non riconoscere che coi suoi trucchi da fureria e da baraccone, coi suoi maneggi non necessariamente puliti, Padre Pio ha fatto infinitamente di più per l’umanità – se l’umanità consiste nella sofferenza, nella comprensione della sofferenza, nel tentativo disperato e caparbio di ridurla, anche solo un malato alla volta, una stilla di sangue alla volta, un posto letto alla volta. In questa impresa Padre Pio ha messo la vita e non si è fermato di fronte a nulla. Senza moralismi, il più delle volte utili solo a distogliere lo sguardo; senza troppi discorsi generici. A un santo non saprei veramente che altro chiedere.»

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