
Il libro contribuisce a smantellare alcuni cliché sui beccai medievali, come quello che la carne fosse alimento per pochi o sulla loro barbarie: qual era la realtà della professione?
Massimo Montanari in un volume magistrale (L’alimentazione contadina nell’Alto Medioevo) già nel 1979 metteva in luce, a dispetto di quanto si era ritenuto fino ad allora, che il consumo di carne in quei secoli era diffuso anche tra i segmenti bassi della popolazione poiché essi avevano accesso allora a risorse forestali collettive poi man mano sempre più ridotte; anche nel Basso Medioevo la carne era consumata da tutta la popolazione, certo con grandi distinzioni in termini di qualità, visto che i prezzi erano “fortemente gerarchizzati”, ma tutti, ricchi e poveri, potevano procurarsene; la carne era un alimento pressoché quotidiano in molte città europee.
Infine, e soprattutto, questo libro vuole sfatare il mito del beccaio escluso, ghettizzato, messo ai margini della comunità, disprezzato per il rapporto che ha col sangue, la sporcizia, la morte, l’impurità che la lezione di Jacques Le Goff ha mantenuto vivo sino ad oggi. I macellai non solo partecipavano alla vita politica intensamente ma la loro posizione centrale nella società e nelle istituzioni è certificata dalla posizione centrale dei loro banchi: a Milano, come a Parigi, a Siena come a Valenza, ad Alzira e Venezia, essi lavorano di fronte o accanto alla cattedrale e vicino ai palazzi del potere che talvolta occupano. E ancora si sfata il mito che il settore fosse popolato di soli uomini grazie alle macellaie di Saragozza ma anche alle donne d’affari romane che investono i loro cospicui capitali nell’allevamento.
Quale dinamicità economica caratterizzava la professione?
Per fare il beccaio si doveva disporre di capitali per investire nell’acquisto di un prodotto costoso, ma anche per assicurarsi quote nel mercato dell’allevamento, a garanzia della disponibilità della merce; essendo un prodotto primario, il suo smercio era garantito, in periodi di carestia pure troppo… Fare il macellaio dava l’opportunità di arricchirsi, ma, come tutte le professioni legate all’annona, cioè ai generi di prima necessità (grano, vino, legna, candele), ma comportava anche una buona dose di rischio imprenditoriale. Erano frequenti le epizoozie che determinavano una drastica diminuzione degli animali macellabili e un aumento dei prezzi ma anche la mancanza di merce vendibile e quindi l’interruzione degli incassi. E la carestia procurata dalle epidemie che colpivano gli animali portava con sé provvedimenti dei governi mirati a garantire la disponibilità del prodotto a quanta più popolazione possibile, per evitare disordini civili. In tali congiunture il braccio di ferro fra macellai e potere pubblico era all’ordine del giorno, gli uni a tutelare i propri interessi, gli altri a ribassare i prezzi, calmierandoli. Per arginare sommosse e rivolte si sottoponevano i beccai a uno stress finanziario notevole, riconoscendo loro al contempo di essere fondamentali nella tenuta delle istituzioni, nell’apporto al bene comune.
Quale nesso esisteva tra campagna e città?
Il nesso fra campagna e città (o città e contado), un tema tra i più cari della storiografia medievistica, è stato molto percorso nei decenni passati; in prospettiva politica ed economica, emerge come assai stretto nelle pagine di questo libro, anche nei saggi prettamente archeologici. Senza la campagna dove gli animali venivano allevati, i beccai non avrebbero avuto nulla da vendere in città; senza i capitali degli investitori cittadini, l’allevamento in campagna non si sarebbe sviluppato nei modi e nei numeri che anche questo libro mette in evidenza; i consumi della città hanno plasmato le campagne, le scelte contrattuali hanno mosso il paesaggio campestre. Non si può pensare a campagne e città se non come a un binomio che il flusso di animali contribuisce a cucire in maniera inscindibile.
Come si sono evolute durante il Medioevo le abitudini alimentari?
Le abitudini alimentari sono ancora e sono state il primo e il più immediato elemento di distinzione sociale, la distinzione del gusto (P. Bourdieu, La distinction. Critique sociale du jugement, Paris 1979); esse hanno subito nel corso dei secoli influenze e spinte dettate dalla diffusione della cultura alimentare delle popolazioni cosiddette barbare (più carne, meno cereali), arabe (agrumi, canna da zucchero, spezie), del cristianesimo (pane e vino, corpo e sangue di Cristo), in genere dei paesi confinanti, anche in termine cromatici e di eleganza. Così dal valore simbolico dato alla quantità del cibo consumato e offerto, soprattutto carne, meglio ancora se di animali di grossa taglia – cervi e soprattutto orsi, il top di gamma poiché certificavano l’abilità venatoria e quindi il valore militare del cacciatore/signore -, man mano il gusto muta, dando maggior risalto all’eleganza dei piatti e delle portate, alle presentazioni, alle scenografie che li accompagnano, all’apparenza più che alla sostanza, in un lento scivolare verso la contemporaneità. L’uso dei colori, quello del giallo, ottenuto con l’oro e con lo zafferano, la più costosa delle spezie, si accompagna con manicaretti che noi considereremmo macabri: animali vestiti, cioè pavoni, e altre bestie più o meno esotiche, “scuoiati”, cotti e poi rivestiti con le loro stesse piume, che sputano fuoco dal becco (un batuffolo di bambagia). La carne, in qualsiasi cottura e forma, rimane la portata per eccellenza, ovviamente nei giorni del calendario liturgico cristiano in cui ne è consentito il consumo. Per questa ragione coloro che la sapevano trattare, che conoscevano le tecniche della macellazione – ognuno a seconda dei dettami della propria religione – e che la vendevano avevano grande rilievo sociale ed economico.
Quale patrimonio simbolico accompagnava la professione dei beccai?
Si è a lungo scritto che i macellai convivevano con il tabù del sangue e della morte, vendevano un alimento che secondo la scienza medica del tempo e la teoria galenica era caldo e umido e quindi stimolo alle pulsioni considerate “diaboliche”, alla lussuria, al piacere. Essa era corroborante e connotante alimento dei potenti; per questa ragione la regola di San Benedetto vietava il consumo di carne di quadrupedi, carne rossa per intenderci, a una categoria di persone – i monaci, per l’appunto – che proveniva da quel mondo aristocratico foderato di carne che sfoderava armi.
Ma i macellai medievali che abbiamo conosciuto in questo libro non sono spacciatori di alimenti proibiti, non sono uomini e donne emarginati ma protagonisti assoluti delle dinamiche politiche delle realtà che abitano; essi svolgono un ruolo centrale sia sotto il profilo economico sia sotto quello sociale e sono pervicacemente radicati nella politica locale. Alcuni simboli nati del tutto svincolati da questo mestiere acquisiscono maggior forza probabilmente proprio perché li evocano, e ne evocano la forza politica, come il toro per Parma, divenuto simbolo del Comune, esaltato materialmente con sculture, monete, sigilli e stemmi araldici.
Quali riflessioni di ordine storico-giuridico è possibile fare su carne e macellai nel Medioevo?
Carne e macellai sono soggetti a norme, restrizioni e costrizioni varie. Marchio e simbolo al tempo stesso di debolezza e potere. La regola benedettina ne proibisce il consumo, nei modi che si è detto, riservando la carne rossa ai malati che poi sono comunque costretti a depurarsi prima di poter di nuovo frequentare la comunità. Dal canto loro, i canonisti riflettono sulla carne, in particolare sul suo consumo abbinato al vino, come l’Abate Panormita nel suo quattrocentesco commento al Liber Extra, in cui abbina carne e vino, morte violenta e lussuria, evocativi del girone dantesco di Paolo e Francesca. Le regole della comunità civile, inoltre, dettano il comportamento professionale dei macellai, che, come tutti, sono tenuti a rispettarle e seguirle. Innanzitutto gli statuti municipali che contengono di solito molte norme che riguardano loro e le loro tante truffe (dallo spacciare una carne per un’altra, al macellare in luoghi non consentiti), poi quelle specifiche della loro corporazione di mestiere che li tutela e li controlla, anche a nome del governo, tramite una gerarchia di personaggi (abati, anziani, priori, consoli, a seconda delle realtà) che dialogano con gli officiali municipali in frangenti e congiunture di particolare delicatezza: quando in tempi di carestia si operano calmieri dei prezzi, quando si concordano restrizioni sulla circolazione delle merci, quando si decidono manovre protezionistiche o si cerca la collaborazione tra lavoratori appartenenti a categorie diverse.
Da questo libro emerge un macellaio nuovo, non disprezzato, non escluso, non evitato: coinvolto e consapevole, nel cuore della vita politica, economica e sociale e nel cuore di pietra delle città.
Beatrice Del Bo insegna presso l’Università degli Studi di Milano. È una medievista specializzata in temi economici e sociali (secc. XII-XVI); ha dedicato saggi al mondo del lavoro, dagli artigiani ai mercanti e banchieri, alla discriminazione sociale (immigrati, donne, schiave, cittadinanza, integrazione e inclusione sociale), dopo aver affrontato temi di politica istituzionale per gli stati signorili e rinascimentali. Il territorio di ricerca elettivo è l’Italia nordoccidentale. È autrice di Uomini e strutture di uno stato feudale. Il marchesato di Monferrato (LED, 2009); Banca e politica a Milano a metà Quattrocento (Viella 2010); La spada e la grazia. Vite di aristocratici subalpini (Torino, 2011); Il valore di un castello. Il controllo del territorio in Valle d’Aosta fra XIII e XV secolo (FrancoAngeli, 2016). Ha curato Cittadinanza e mestieri. Radicamento urbano e integrazione nelle città bassomedievali, secc. XIII-XVI (Viella, 2014); con A.A. Settia, Facino Cane. Predone, condottiero e politico (Milano 2014); La cittadinanza e gli intellettuali, XIV-XV secc. (FrancoAngeli, 2017); con A. Bassani, Schiave e schiavi. Riflessioni storiche e giuridiche (Milano 2020).
Igor Santos Salazar è un medievista spagnolo, formatosi tra le Università di Salamanca, Bologna e Oxford, che studia potere, istituzioni e territorio per i secoli VI-X, con metodologia comparativa, spaziando dalla Spagna (Castiglia, Paesi Baschi) all’Italia (Emilia, Toscana e Lombardia), sempre in serrato dialogo con le discipline archeologiche. La sua produzione storiografica internazionale è incentrata sulla individuazione degli strumenti e delle modalità di affermazione, gestione ed esercizio del potere; sugli spazi d’azione in cui esso agisce, dai villaggi all’Impero. Ha pubblicato in spagnolo, italiano e inglese presso le principali riviste scientifiche europee e in volumi collettanei in sedi prestigiose. È autore di Una terra contesa: spazi, poteri e società nell’Emilia orientale dei secoli VI-X (Firenze 2011) e Governare la Lombardia carolingia (774-924), in corso di pubblicazione.