
Quali vicende hanno maggiormente segnato la vita e l’attività artistica di Carmelo Bene?
Anche se Bene rifiutava la storia e la necessità di ogni forma di contestualizzazione (vibra in lui in questo senso un fortissimo sentimento antistoricista), il suo percorso mi pare lo si capisca davvero soltanto in una prospettiva storico-critica. Pur non essendo mai stato “del” proprio tempo (come qualsiasi artista degno di questo nome) Bene ha vissuto naturalmente “nel” proprio tempo e del rapporto con quest’ultimo bisognerà dunque tenere conto, pur se nei modi particolarissimi che casi come il suo pretendono. Possiamo suddividere il percorso di Carmelo Bene in due grandi periodi o forse, meglio, in due accenti principali che si alternano, in parte convivendo in parte seguendo l’uno all’altro. Un primo che caratterizza soprattutto gli esordi e gli anni Sessanta, un secondo che data dalla metà degli anni Settanta fino alla morte. Nella fase iniziale tendono a prevalere le componenti espressive più allegoriche e grottesche, e si avverte perciò maggiormente il carattere critico, spiazzante, anarchicamente non pacificato del suo lavoro. Nella seconda emergono con maggior insistenza le componenti più liriche e simbolistiche, dai tratti meno conflittuali e più ammorbiditi, a volte algidi. In realtà i due tratti convivono sempre nell’opera beniana e si tratta dunque di una questione di gradi, pur sempre decisiva, all’interno di un quadro complesso e non riconducibile a semplici suddivisioni schematiche. La stagione più intensa e forse più creativa di Bene è quella degli anni Sessanta, fino alla metà degli anni Settanta, quando l’attore realizza spettacoli memorabili come Amleto, Majakovskij, Pinocchio, Nostra Signora dei Turchi, film straordinari come Salomè e ancora Nostra Signora dei Turchi. E c’è poi il lavoro infaticabile e rigorosissimo in radio e televisione, di cui sono testimonianza ancora una Salomè radiofonica, o l’Amleto televisivo in bianco e nero, oppure il Majakovskij televisivo (Bene! Quattro diversi modi di morire in versi). La seconda metà degli anni Settanta costituisce per Bene uno spartiacque. Il suo stile muta, si aprono per lui le porte dei grandi teatri raggiungendo una certa notorietà, grazie anche ai riconoscimenti della critica non solo italiana. Il suo teatro cambia, oscillando fra i tratti più morbidi di lavori come Manfred e quello più algidi e rabbiosi di spettacoli come La cena delle beffe o l’ultimo Pinocchio del ’98. Contemporaneamente Bene costruisce anche una propria figura pubblica (“CB”) che gli dà una certa notorietà, anche televisiva. Resta in ogni caso, al di là delle apparenze, la forte contraddizione di fondo che caratterizza la sua opera e che segna con forza i momenti migliori anche di questa fase. Non bisogna cascare nella trappola che Bene stesso tendeva ai suoi interlocutori: pur ostentando disinteresse, a parole, per la polemica, il gesto di Bene insegue sempre nei fatti un atteggiamento di aperta contraddizione con l’odiato senso comune e con la mediocrità che lo alimenta consapevolmente.
Quale specifica concezione del teatro sviluppò Bene?
Un filo rosso corre lungo l’intero itinerario teorico di Bene. L’idea che l’attore sia l’unico vero autore legittimo del teatro, che a lui vadano avocate le qualifiche di artefice della scena. In secondo luogo che il teatro, artaudianamente, si debba liberare dell’impaccio e del pregiudizio letterario, che lo vuole luogo della messa in scena di un testo. Bene opera come sempre rovesciando il senso comune. Secondo l’artista si fa teatro non per mettere in scena un testo ma per toglierlo di scena; per sbarazzarsene e mettere in primo piano l’artefice. Un Amleto di meno, come recita il titolo di una delle sue versione dell’opera shakespeariana. A partire da questi elementi sostanzialmente ricorrenti si possono individuare forse tre fasi della sua elaborazione teorica, sapendo però che la questione è in realtà più complessa e i tre momenti sono più intrecciati di quanto non risulti in prima battuta, trovando in fondo una significativa continuità nel percorso beniano, pur nelle diversità a cui mi sto riferendo, nel segno di un insistito e reiterato rifiuto dello spettacolo di rappresentazione. Vi è un primo momento in cui prevale con forza l’idea (che corrisponde naturalmente a una prassi scenica e che anzi in buona misura ne è la risultante) dell’attore come artefice della scena, signore assoluto – pur se attraverso la via negativa del “disfatto attore”, ancora usando la terminologia di Bene – dell’accadimento teatrale. Un secondo momento centrato sulla teoria della phonè, che comporta una sorta di coincidenza tra elemento recitativo ed elemento musicale, sottolineatura esasperata della presenza/assenza della voce. Un terzo momento, quello conclusivo del percorso, che ruota intorno alla concezione della “macchina attoriale”, dell’attore sottratto a se stesso, ridotto a macchina, che recita spesso immobilizzato, quasi sempre in playback, parodia glaciale e spietata dell’io.
Pinocchio costituisce un vero e proprio fil rouge del cimento artistico beniano: quale evoluzione ne caratterizza l’interpretazione?
Nel percorso di Carmelo Bene ricorrono alcune ossessioni. Le due forse più evidenti sono Amleto e Pinocchio. In entrambi i casi il primo incontro risale al 1962, con la straordinaria esperienza del Teatro Laboratorio, e l’ultimo alla seconda metà degli anni Novanta. L’esempio di Pinocchio è davvero emblematico. Seguirne l’evoluzione significa ripercorrere l’intero tragitto beniano, incontrandone gli elementi di continuità e di discontinuità. Un tratto comune ai diversi lavori è l’interesse per la figura del burattino come emblema del rifiuto di crescere in nome dell’”infanzia perversa”. Si tratta di Pinocchio strappati alla favola dei buoni sentimenti del divenire adulto del burattino, secondo quanto ci trasmette la vulgata collodiana e trasformati piuttosto alla parodia di questi ultimi. Cambia però nel corso del tempo lo stile, il contesto, il significato complessivo. I primi Pinocchio sono caratterizzati dal tratto ferocemente parodico-grottesco e consentono il pieno dispiegarsi della forza critica, spiazzante, ferocemente anarchica della proposta beniana. Il Pinocchio dell’’81 riassume per certi versi efficacemente la stagione della phonè e testimonia un certo ammorbidimento dello stile, pur all’interno di forma geniali e a loro modo di contraddizione. Il Pinocchio del ’98 è uno dei risultati più alti della fase conclusiva del percorso beniano, mostrando lo stile rabbioso, nuovamente parodico, disperato e critico, dell’ultimo Bene.
Qual è l’eredità di Carmelo Bene?
Bene non ha avuto allievi e in questo senso non è stato e non ha voluto essere un maestro. Qui troviamo per esempio una differenza significativa fra la sua figura e quella di un altro grande protagonista del teatro di ricerca italiano della seconda metà del Novecento, Carlo Quartucci. L’eredità di Bene, per dirla riassuntivamente, credo stia soprattutto nell’eco che giunge fino a noi, e potrà riverberarsi nel futuro, di un gesto artistico rigorosissimo, vissuto e praticato in modo intimamente contraddittorio, parodico e perciò autoparodico, che ha trovato nell’idea del teatro come luogo dell’irrappresentabile il proprio esito più compiuto e perciò il vero lascito.
Armando Petrini insegna Discipline dello Spettacolo presso l’Università di Torino. Si è occupato prevalentemente di storia dell’attore, dal Cinquecento al Novecento. I suoi studi recenti si sono concentrati sulla scena ottocentesca (approfondendo in particolare la figura di Gustavo Modena), sul teatro durante gli anni della Prima guerra mondiale e sulla scena italiana della seconda metà del Novecento (Carmelo Bene e Carlo Cecchi). Ha rivolto poi un interesse specifico all’indagine della storia e della fenomenologia dell’industria culturale.