“Caporetto andata e ritorno. Un viaggio sentimentale dall’Isonzo al Piave” di Paolo Paci

Dott. Paolo Paci, Lei è autore del libro Caporetto andata e ritorno. Un viaggio sentimentale dall’Isonzo al Piave edito da Corbaccio: cosa rimane, nella memoria collettiva, della disfatta di Caporetto?
Caporetto andata e ritorno. Un viaggio sentimentale dall'Isonzo al Piave, Paolo PaciRimane innanzitutto un nome censurato. Caporetto, pochissimi sanno dove si trovi (sta in Slovenia), né quale sia il suo vero nome (Kobarid). Chi pronuncia Caporetto oggi evoca un disastro, anche proverbialmente: e invece il visitatore vi scopre un luogo dalla natura splendida, circondato da verdi montagne, le Alpi Giulie, e attraversato da uno dei fiumi più affascinanti d’Europa, l’Isonzo. Un luogo dove giustamente il turismo, soprattutto sportivo, fiorisce. In secondo luogo, per gli italiani è una sconfitta militare: ma ormai la storiografia è concorde nel fissare da quella data, 24 ottobre 1917, la chiave di volta della futura vittoria. Dopo undici battaglie in attacco, l’esercito italiano si ritirava in difesa, ma senza il Piave e il Monte Grappa forse la guerra si sarebbe risolta in modo ben diverso.

Il Suo libro racconta un itinerario nei luoghi della Grande Guerra: come gli eventi bellici hanno segnato quei luoghi?
Il Friuli e le pianure venete hanno sofferto l’anno della fame. Quasi un milione di profughi e un’indicibile carestia, seguita dall’epidemia di febbre spagnola, hanno segnato profondamente la storia di quelle terre. Ma ancora una volta, dalla tragedia sono nate una nuova società e una nuova economia, che hanno portato le due regioni a trasformarsi nella locomotiva economica d’Italia. I segni della guerra oggi sono conservati in musei di impianto contemporaneo (a Caporetto, Vittorio Veneto, Ragogna…) e in ampie zone di trincee, casermette, camminamenti, trasformate in musei all’aperto grazie al lavoro volontario degli alpini.

In che modo la Grande Guerra ha segnato la nostra storia e la nostra memoria
La Prima guerra mondiale è stata per molti versi l’ultimo atto del Risorgimento, e ha portato l’Italia nella modernità. In trincea è nata una lingua comune, un sentimento nazionale e (anche) una consapevolezza geografica che prima non esisteva. Dalle trincee è nata anche l’esperienza fascista, certo, e sono scaturiti confini non condivisi; ma la maggioranza degli italiani, piuttosto che la memoria di un nazionalismo deleterio, conserva per quel conflitto una memoria che potremmo definire “affettiva”, familiare. Canzoni, medaglie, oggetti, racconti orali: ogni famiglia italiana porta in sé un pezzetto di quella memoria.

Il Piave, il Monte Grappa, caratterizzano i toponimi delle nostre città: sono davvero poche però quelle che dedicano una via a Caporetto. Un caso di censura della memoria?
In Italia esistono pochissime vie Caporetto, migliaia le vie che invece celebrano il Piave, il Monte Grappa, Vittorio Veneto, Trento e Trieste, luoghi di battaglie vittoriose o terre irredente. Per non parlare dei monumenti: dalle semplici lapidi ai grandi gruppi scultorei, fino agli ossari e memoriali, sono circa 20.000 le testimonianze di pietra della Prima guerra mondiale. La memoria della ritirata è stata censurata in epoca fascista a vantaggio della vittoria, e sarebbe strano il contrario. Ma oggi il nostro sguardo su quelle vicende è molto cambiato.

Nel Suo libro, Lei rivive le gesta dei grandi generali e dei soldati semplici: chi furono i protagonisti di quelle vicende?
La Storia che si racconta(va) nelle scuole è, o era, quella dei generali. Cadorna, Diaz, Badoglio, Giardino, Caviglia. Molto meno Capello e altri “dissidenti” dal fascismo e quindi censurati. Comunque una storia sempre lontana dalle trincee. Oggi c’è una diversa sensibilità e anche gli storici di professione hanno iniziato a considerare fonti come le lettere dal fronte e i diari di guerra. Per non parlare dell’ultima tendenza della Public History, in grado di raccontare le vicende belliche a partire da qualsiasi tipo di materiale. Protagonisti quindi stanno diventando sempre più i semplici fanti, gli alpini, i lettighieri alla Hemingway. In rete se ne trovano tracce consistenti e interessantissime. Per contro, i veri responsabili di Caporetto, soprattutto Cadorna, vengono pian piano condannati alla damnatio memoriae: Udine è stata la prima a dar l’esempio, togliendolo dalle targhe cittadine.

Quali toccanti episodi meritano di venir serbati nella memoria?
Nessuno dà veramente più fede alle motivazioni con cui venivano attribuite le medaglie d’oro. Per un episodio di vero eroismo, altri dieci erano gonfiati dalla propaganda. Se un tempo i sussidiari scolastici erano pieni di gesti eroici alla Enrico Toti (quello della stampella) o di Baracca (quello delle 34 vittorie aeree), oggi preferiamo ricordare le silenziose sofferenze dei soldati che nessuno ha mai celebrato. I fucilati di Andrea Graziani (altro eroe negativo), i guastatori mandati allo sbaraglio in ridicole armature (li ricordiamo nell’indimenticabile scena del film Uomini contro di Francesco Rosi). E anche i soldati terrorizzati, i famosi “scemi di guerra”, i disertori (come quelli dell’altrettanto indimenticabile film di Mario Monicelli, La Grande Guerra). Anche nelle celebrazioni ufficiali, come quella che si tiene ogni prima domenica di agosto sul Monte Grappa, i toni dei discorsi sono sempre più pacifisti. La memoria della Grande Guerra, ormai, più che celebrazione di una vittoria è vissuta come occasione di fratellanza tra i popoli europei.

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