
E non è un mondo a parte, ma una parte costitutiva e progressivamente sempre più estesa del nostro modo di comunicare, relazionarci, fare attività sociali, informarci, svolgere relazioni economiche… di vivere.
Non sono attività estranee alle nostre vite, ma modi integrativi con cui pratichiamo cose che abbiamo sempre fatto. per questo parlo di dimensione materiale ed immateriale, perché l’una non è alternativa all’altra ma la complementa, così come la lunghezza e l’altezza non sono alternative l’una all’altra ma si complementano.
Dal lancio degli smartphone, una dozzina di anni fa, siamo passati da un livello di adozione nullo (non c’erano) ad uno di adozione pressoché totale. In un lasso di tempo così breve, si sono rivoluzionate tutte le attività che hanno sviluppato una dimensione immateriale toccando ogni ambito della vita personale, sociale e lavorativa, minando la sostenibilità di alcuni settori economici, favorendo la concentrazione del controllo di altri, ridefinendo le modalità con cui svolgevamo alcune attività.
Quali sono le caratteristiche dell’economia immateriale?
La dimensione immateriale ha proprietà di base molto diverse da quella materiale che conosciamo e cui siamo abituati – letteralmente – da millenni.
È caratterizzata, quasi sempre, da costi variabili nulli, fattore che determina alcune profonde trasformazioni nei modelli economici di ampi settori: è abbastanza evidente quando si considerano settori quali l’informazione, la musica e il video, settori sottoposti a forti pressioni e reintermediazione da parte di colossi multinazionali. Ma anche cose meno evidenti quali il trasporto aereo low cost o servizi di affitto.
Mentre la dimensione materiale è disconnessa, quella materiale è connessa ed il trasferimento avviene in tempo reale e a costo marginale nullo. Anche queste proprietà implicano la ridefinizione di modelli di business, come ad esempio è evidente con il trasporto privato ad integrazione del trasporto pubblico ma anche il passaggio della formazione del prezzo della pubblicità dal lato dell’offerta (l’editore) al cliente tramite un meccanismo di aste in tempo reale.
Ma pensiamo anche alla politica, con la possibilità di comunicazione in tempo reale, con la sola intermediazione dell’algoritmo del sistema usato (Twitter, Facebook, ecc.).
Nel libro illustro in modo approfondito una decina di queste proprietà diverse tra materiale ed immateriale e gli effetti che le loro differenze implicano nei rapporti sociali, economici e politici.
Quali le conseguenze, dalle relazioni sociali, alla salute, alla sicurezza e le prospettive future del lavoro?
La vulgata comune è che ci si stia avviando a rapidi passi verso la fine del lavoro e con esso della struttura sociale che conosciamo oggi, richiedendo alla politica di impegnarsi su scenari radicali di un imminente futuro più che affrontando problemi contingenti legati all’adozione delle tecnologie.
Non condivido questa visione, che ad alcuni appare come tecno utopistica e ad altri tecno apocalittica. Ci sono numerose ragioni per questa affermazione, che affronto nel libro in modo approfondito: da questioni regolamentari a questioni sistemiche a pure questioni tecnologiche.
I problemi che abbiamo oggi e che dovremmo affrontare nel breve termine hanno una radice nella regolamentazione o nella sua mancanza. Dietro all’idea – assolutamente contestabile – che l’innovazione sia sempre positiva si cela un approccio ideologico verso una deregolamentazione che non giova al mercato. Un mercato è fatto di regole e di sistemi di enforcement.
Le regole previste nella dimensione immateriale non consideravano ad esempio le questioni competitive. Si considerava che l’innovazione dirompente non avesse limite e che la competizione fosse ad un clic di distanza e che sarebbero nati spontaneamente nuovi attori in grado di offrire servizi migliori e di maggiore adozione, in grado di contrastare così i monopoli che si formavano.
Il fatto è che questo non è vero per effetti noti in economia come path dependency, lock-in, effetti rete, ecc. spiegati in modo semplice nel libro.
In settori a fortissima crescita, le norme antitrust non costituiscono un incentivo sufficiente ad inibire comportamenti abusivi. Se un soggetto quando è piccolo viola delle norme che accelerano la sua crescita, avrà buon gioco a pagare molti anni dopo le piccole sanzioni legate al momento in cui era piccolo, ma se nel frattempo avrà acquisito una posizione di dominanza mondiale di una intermediazione di un mercato, posizione resa inscalfibile dall’assenza di norme procompetitive come esistono in tutti gli altri settori, quelle piccole sanzioni importano molto poco. L’antitrust, per come è oggi, interviene per prevenire abusi da parte di soggetti dominanti, non per prevenire abusi che consentono a dei soggetti di divenire dominanti in settori che poi non sono esposti ad una possibilità reale di competizione.
Si tende così a competere PER il mercato e non NEL mercato. Una volta conquistato un mercato globale, le posizioni sono pressoché immutabili. Questo, in una sorta di neo feudalesimo digitale, ha portato alla formazione di un nuovo insieme di info-plutocrati che intermediano le attività svolte in precedenza in un regime di mercato concorrenziale. Una trasformazione tutto sommato inattesa ma che ha implicazioni molto forti, dal più ovvio aspetto fiscale ma anche legato a temi quali la sicurezza, la sovranità nazionale, la possibilità di competere e l’accesso al mercato del lavoro.
Quale ruolo svolgono in questo scenario le grandi compagnie di intermediazione come Facebook, Google, Amazon ed Apple?
L’info-plutocrazia degli intermediatori si fonda su un controllo centralizzato dell’informazione, sia in termini di dati (di cui i risvolti sulla privacy sono un epifenomeno) che di processi con cui tali dati sono raccolti, elaborati, comunicati ed utilizzati. Ma è il modello opposto a quello con cui Internet è nata e si è sviluppata. Per lunghi decenni Internet è stata costruita su protocolli, ovvero regole pubbliche, che tutti potevano incorporare nei loro software, che stabilivano le modalità con cui i calcolatori (server e client) dovevano comunicare e chiunque poteva realizzare client e server e competere.
Questo approccio di chiusura, una volta che il dominante planetario si è costituito, riduce la concorrenza e riduce la biodiversità dell’infosfera, con gli effetti di cui ho parlato sopra. Il contrario dello spirito di apertura e di massima contendibilità degli utenti che ha fatto nascere e crescere internet così rapidamente.
Gli effetti della rivoluzione digitale si estendono a tutti i mercati intermediati da operatori monopolisti/oligopolisti.
Il conflitto tra capitalisti e lavoratori indotto dalla rivoluzione industriale del diciottesimo e diciannovesimo secolo si è sviluppato nel rapporto tra capitale e lavoro con ideologie contrapposte che hanno visto dopo molti decenni la prevalenza sul modello socialista/comunista di un modello di capitalismo di massa temperato da norme di tutela e garanzia. Il dibattito tra le sponde politiche di destra e sinistra si è sviluppato sul punto di equilibrio tra queste.
Il conflitto tra intermediatori ed intermediati indotto dalla rivoluzione digitale del ventunesimo secolo si sviluppa nel rapporto tra informazione e produzione (intesa come il prodotto di capitale e lavoro) e sta iniziando un confronto sociale tra un modello di gestione dell’informazione centralistico che si è sviluppato negli ultimi anni (e sostenuto dalle grandi multinazionali tecnologiche) ed un modello decentralizzato promosso da alcune avanguardie (filosofiche, tecnologiche, politiche, ecc.), un dibattito con differenze profonde tra chi propugna sistemi ed ambienti chiusi e chi si batte affinché siano aperti alla maggiore concorrenza e contendibilità possibile .
Quale governo del cambiamento si rende necessario?
La riduzione di gettito fiscale, il condizionamento dell’opinione politica, le pressioni sui tradizionali operatori, sono infatti solo rappresentazioni di punti di vista diversi di uno stesso fenomeno: la prevalenza dell’informazione monopolistica/monopsonistica su capitale e lavoro.
Penso che non si possa rispondere solamente aumentando le tasse, come alcuni vorrebbero fare. Questi extra costi, salvo alcuni casi, verrebbero trasferiti su consumatori o produttori.
Credo che abbiamo bisogno di rispondere come la società occidentale ha risposto alla rivoluzione industriale, ovvero con più interventi a favore del mercato, favorendo una minore concentrazione dell’informazione e regolamentando le esternalità negative. Credo che non si debba cedere alla logica della ineluttabilità dei sistemi chiusi e si debba schierarsi convintamente con forza dal lato dell’apertura.
Per affrontare la rivoluzione digitale abbiamo bisogno di un pacchetto complessivo di provvedimenti che si fondino sui principi di ciò che abbiamo già fatto nel periodo della rivoluzione industriale: nuove forme di fiscalità, innovazioni nel welfare, nei diritti dei lavoratori e dei prestatori professionali, controlli pubblici di garanzia per i consumatori e, in modo fondamentale, aumento della concorrenza, regole procompetitive, contendibilità degli utenti, interoperabilità dei servizi, ecc.
Ma difficilmente ciò potrà accadere senza una presa di coscienza di questo nuovo conflitto di intermediazione tra l’informazione da una parte e della produzione (cioè il combinato capitale e lavoro) dall’altra e senza che questa presa di coscienza si traduca in azione politica.