
di Nick Srnicek
Luiss University Press
«Secondo alcuni, il capitalismo si autorinnova attraverso la creazione e l’adozione di nuovi complessi tecnologici: motori a vapore e ferrovie, acciaio e settore metalmeccanico, automobili e petrolchimici – e ora informazione e tecnologie della comunicazione. […] La concorrenza è destinata a sopravvivere nell’era digitale, oppure siamo diretti verso un nuovo capitalismo monopolistico? Grazie agli effetti di rete, una tendenza verso la monopolizzazione è nel DNA delle piattaforme: più numerosi sono gli utenti che interagiscono su di essa, più valore l’intera piattaforma acquista per ognuno. Gli effetti di rete, per di più, tendono a significare che i benefici iniziali si solidificano come posizioni permanenti di leadership nel settore. Le piattaforme hanno, come se non bastasse, una capacità unica a collegare e consolidare differenti effetti di rete. Per esempio, Uber beneficia degli effetti di rete di sempre più autisti oltre che a quelli di un numero via via maggiore di utilizzatori. Le piattaforme leader tendono in maniera consapevole a perpetuarsi anche in altri modi. I vantaggi nella raccolta dati implicano che più una società ha accesso ad attività, più dati può estrarre e maggiore è il valore di quelli, di conseguenza avendo la possibilità di accedere ad ancora più attività. Allo stesso modo, l’acquisizione di una grande quantità di dati da diverse aree delle nostre vite rende più utile la predizione, e questo stimola la centralizzazione dei dati all’interno di una sola piattaforma. Diamo a Google accesso alla nostra email, ai nostri calendari, allo storico dei video che abbiamo cercato, alle nostre cronologie di ricerca, alle nostre localizzazioni – e con ogni fattore che forniamo a Google, come risultato otteniamo servizi predittivi migliori. Analogamente, le piattaforme puntano a favorire prodotti complementari: software utile costruito per Android porta più utenti a usare questo sistema operativo, il che spinge più sviluppatori a creare nuovi programmi per Android, e così via. Le piattaforme cercano anche di costruire ecosistemi di beni e servizi che tagliano fuori i competitor: app che girano solo su Android, servizi che necessitano di un login da Facebook. Tutte queste dinamiche trasformano le piattaforme in monopoli con un controllo centralizzato sui numeri di utenti (e dei dati che essi producono) sempre più enormi. Ci si può rendere conto di quanto siano già importanti questi monopoli guardando al modo in cui consolidano i ricavi pubblicitari: nel 2016 Facebook, Google e Alibaba da soli hanno raccolto la metà della pubblicità digitale mondiale. […]
Eppure è anche vero che il capitalismo sviluppa non solo mezzi per un maggior monopolio ma anche mezzi per una maggiore concorrenza. La comparsa della società per azioni come modello, l’ascesa delle grandi istituzioni finanziarie, e le risorse monetarie alle spalle degli stati sono tutti indicatori della capacità da parte del capitalismo di avviare nuovi tipi di industrie e di far crollare i monopoli già esistenti. Un altro aspetto altrettanto importante, le piattaforme digitali tendono a sorgere in settori industriali che sono soggetti a disturbo da parte di nuovi competitor. I monopoli, in quest’ottica, dovrebbero dunque essere solo temporanei. La sfida odierna, tuttavia, è che l’investimento di capitale non sia sufficiente a rovesciare i monopoli; l’accesso ai dati, gli effetti di rete e la cosiddetta path dependency implicano ancora più ostacoli sulla via che conduce al superamento di un monopolio come quello di Google. Questo non significa la fine della concorrenza o della lotta per accaparrarsi quote di mercato, ma piuttosto un cambiamento nel modo in cui la concorrenza si svolge. […] Questo vuol dire che, se queste piattaforme desiderano continuare a essere competitive, devono aumentare la propria attività di estrazione, analisi e controllo dei dati – e per farlo devono investire in capitale fisso. […]
Le tendenze
Poiché le piattaforme si fondano sull’estrazione di dati e la generazione di effetti di rete, dalle dinamiche competitive di queste enormi piattaforme emergono alcune tendenze: aumento dell’estrazione, posizionamento come gatekeeper/controllo, convergenza dei mercati, e chiusura degli ecosistemi. […] Tuttavia l’espansione può anche essere causata da fattori diversi che non siano la domanda degli utenti. Uno di questi è la spinta verso l’estrazione di dati ulteriori. Se raccogliere e analizzare questa materia prima è la fonte di reddito principale per queste società e dà loro vantaggi competitivi, c’è l’imperativo a metterne insieme sempre di più. […] Per molte di queste piattaforme, la qualità dei dati ha meno interesse della loro quantità e diversità. Ogni azione compiuta da un utente, non importa quanto minuscola, serve a riconfigurare algoritmi e a ottimizzare processi. L’importanza dei dati è tale che molte società potrebbero rendere open-source tutto il proprio software continuando a mantenere la propria posizione dominante grazie ai dati stessi. Non deve sorprendere allora che queste società siano state acquirenti e sviluppatori attivissimi di beni che consentono loro di aumentare la capacità che hanno nell’acquisire informazioni. […]
È in questo contesto che dovremmo interpretare gli investimenti significativi fatti nel settore dell’internet delle cose lato consumer (IoT), con sensori messi a dimora in determinati beni e nelle case. Per esempio, il fatto che Google abbia investito in Nest, un sistema di riscaldamento per abitazioni private, appare molto più logico quando è inteso come un allargamento della raccolta dati. Si può dire lo stesso per Amazon e il suo nuovo apparecchio, Echo, un dispositivo che rimane sempre acceso e che i consumatori installano in casa. Se viene fatto il suo nome, Echo risponderà a domande; ma è anche in grado di registrare attività che si svolgono vicino a esso. Non è difficile rendersi conto di come questo possa tornare utile a un’azienda che vuole capire le preferenze dei consumatori. Analoghi apparati esistono già in molti telefoni – Siri in Apple, Google Now in Android, per non parlare della comparsa delle smart TV. Le tecnologie indossabili sono un’altra componente essenziale dell’IoT lato consumer. […] Anche se tutti questi dispositivi possono avere un certo valore per i consumatori, il settore non è ancora animato da folle di utenti che li chiedono a gran voce. Al contrario, l’IoT lato consumer è pienamente comprensibile solo in quanto estensione, gestita da una piattaforma, della registrazione dati durante le attività quotidiane. Con l’IoT lato consumer, i nostri comportamenti di ogni giorno iniziano a essere monitorati: come guidiamo, quanto camminiamo, quando siamo attivi, cosa diciamo, dove andiamo e così via. Si tratta semplicemente dell’espressione di una tendenza innata all’interno delle piattaforme. Quindi non deve sorprendere che una delle acquisizioni più recenti di Facebook, il sistema di realtà virtuale Oculus Rift, sia in grado di raccogliere ogni tipo di dato su chi lo indossa e usi queste informazioni per persuadere gli inserzionisti. […]
Se questa attività è determinante per le piattaforme, l’analisi ne rappresenta il necessario complemento. La proliferazione di apparecchi che generano dati crea una nuova, enorme miniera di dati, che richiede strumenti di immagazzinamento e studio sempre più grandi e sofisticati, che portano ulteriormente alla centralizzazione di queste piattaforme. Se per queste aumentare la capacità di raccolta dati è un obbligo competitivo, sviluppare un corrispondente strumento di analisi ne rappresenta un altro. Gli avanzamenti nell’hardware, nell’organizzazione dei database e nell’infrastruttura dei network dunque giocano tutti un ruolo significativo per l’ottenimento di più rapidità e vantaggi sugli insight rispetto ai propri competitor. Per esempio, molto del successo iniziale di Google proviene dal suo lavoro pionieristico nella creazione di un utile software interno e di una architettura hardware innovativa. In maniera piuttosto inedita, Google progetta e costruisce i propri server su misura invece di comprarne di standard – ancora una volta, si tratta di un tentativo di ottenere vantaggi competitivi. E anche se spesso alla fine rende pubbliche le informazioni sulle proprie attività (che sono poi state copiate da molti altri), lo fa solo dopo aver raggiunto un evidente margine. È l’importanza delle analisi che ci permette di capire come mai Google sia anche così impegnata nel campo della ricerca sull’intelligenza artificiale (AI), considerando che questo è un ramo cruciale per lo sviluppo di un vantaggio competitivo su altre piattaforme.
Google è il maggiore investitore in questo ambito, ma anche Amazon, Salesforce, Facebook e Microsoft vi stanno collocando molte risorse. Le società sono anche obbligate a sviluppare la totalità dello stack, non solo una delle sue parti (per esempio, il data management, o gli strumenti di analisi). Ostacoli nel flusso dei dati che va dai sensori al prodotto/commodity sono un impedimento alla produzione di ancora più valore. Il risultato è una tendenza a occuparsi di tutte le caratteristiche dello stack, dall’hardware al software.
Questo si accompagna a una seconda tendenza, nella quale l’espansione in tutto l’ecosistema attorno a un segmento di core business è in parte motivato dal bisogno di occupare posizioni chiave all’interno di quello stesso ecosistema. […] Facciamo un primo esempio. Mentre l’accesso a internet è andato spostandosi dai computer da scrivania agli smartphone portatili, il controllo sulle piattaforme di sistema operativo (OS) è diventato fondamentale. Questo cambiamento ha spinto le aziende a correre per posizionarsi sul mercato degli smartphone: Google ha seguito le orme della Apple, e Amazon e Facebook hanno successivamente tentato di raggiungerle. Google ha usato la tattica, classica per le piattaforme, delle sovvenzioni incrociate per occupare il mercato dei sistemi operativi mobili: ha dato Android in licenza gratuita a chi costruiva l’hardware, per tagliare le gambe al sistema chiuso di Apple. La mossa ha funzionato, e Android oggi possiede oltre l’80 per cento del mercato ed è l’OS più utilizzato su qualunque dispositivo. Analoghe battaglie fra concorrenti – con conseguenti espansioni del business – si sono svolte anche a livello di interfaccia. In quanto il mezzo principale attraverso il quale interagire con le piattaforme, le interfacce occupano una posizione di sostegno essenziale in un ecosistema più ampio. Negli ultimi dieci anni, il motore di ricerca di Google è stato l’interfaccia principale per l’accesso al resto di internet, superando gli sforzi di chiunque altro. Le piattaforme rivali hanno dovuto girare attorno al dominio del motore di ricerca allargando il proprio business a interfacce per altri ambiti. Espressione di ciò è che i motori di ricerca all’interno delle app (e non nel web aperto) si stanno diffondendo sempre di più. Invece di cercare su internet con Google, gli utenti possono farlo internamente, via Amazon o Facebook. Se la gente si spostasse all’interno delle app o iniziassero a cercare su Amazon e non più su Google, queste modalità rappresenterebbero una minaccia al modello di business base di Big G. […] Gli stessi concetti fondamentali sono veri nel caso degli sforzi da parte di Apple, Google o Facebook di diventare piattaforme in grado di accettare pagamenti e di costituire una base sulla quale svolgere transazioni economiche raccogliendo ogni volta oltre ai dati anche una piccola commissione. […]
Potremmo pensare che avere una posizione più bassa nello stack sia correlato a un potere maggiore, ma questo non è sempre vero. Forse sorprendentemente, gli operatori di rete (vale a dire coloro che forniscono l’infrastruttura di telecomunicazione di base) occupano una posizione a basso margine nell’ecosistema che ruota attorno alle piattaforme – una posizione che li ha portati a spingere verso tariffe discriminatorie per spostare i dati (la fine della “net neutrality”), una strategia per generare più ricavi. L’importanza strategica di una data posizione ha molto più a che vedere con il controllo dei dati da parte delle aziende e dei clienti che semplicemente con una posizione di stack più bassa. […]
Sotto la pressione di concorrenza e del conseguente obbligo a espandersi, dovremmo aspettarci che queste piattaforme acquisiscano tante imprese quante gliene servono. Anche piattaforme di secondo livello come Twitter e Yahoo rappresentano dei possibili acquisti, visto l’eccesso di liquidità in possesso dei campioni del settore (e infatti […] Microsoft ha acquisito LinkedIn per 26 miliardi di dollari, garantendosi l’accesso ai diversi interessi, alle capacità e alle professionalità di milioni di lavoratori). […]
Una terza tendenza dominante è l’incanalare l’estrazione dei dati in piattaforme cosiddette silo. Quando i grandi mezzi non sono sufficienti a raggiungere un vantaggio competitivo, questo specifico approccio prova a vincolare utenti e dati alla piattaforma legandoli al sistema con misure diverse: dipendenza da un servizio, impossibilità a usare alternative, o mancanza di trasferibilità di dati, per esempio. La Apple è probabilmente leader di questa tendenza, visto che rende i suoi servizi e dispositivi tutti altamente dipendenti fra loro e chiusi ad alternative (con l’eccezione di rilievo dell’App Store, semiaperto). Facebook è un altro esempio evidente di questo andamento. Infatti, una delle ragioni principali del successo di Facebook è che mentre Google ha dominato il web libero attraverso la tecnologia applicata alle ricerche, Facebook è stato costruito come una piattaforma chiusa che si è sottratta alla morsa di Google. L’obiettivo di Facebook era di fare in mondo che gli utenti non dovessero mai lasciare quell’ecosistema per così dire enclosed, chiuso: notizie, video, audio, messaggi, email, e anche comprare generi di consumo sono progressivamente stati portati all’interno della piattaforma stessa. Questa forma di enclosure in Facebook assume connotati ancora più rigidi grazie al suo tentativo di portare l’accesso a internet in India e in altri paesi grazie al programma Free Basics. I servizi di Facebook verrebbero forniti gratuitamente, ma altri dovrebbero associarsi a Facebook passando attraverso di esso, chiudendo a tutti gli effetti l’intera esperienza di internet nel silo di Mark Zuckerberg. Anche se in India è stato respinto, il servizio Free Basics è attualmente attivo in 37 nazioni e usato da oltre 25 milioni di persone. […] Anche Amazon ambisce a diventare una piattaforma chiusa, separata da Google. Invece di rivolgersi a un motore di ricerca per cercare prodotti online, gli utenti andrebbero a cercarli, li paragonerebbero, li acquisterebbero, li monitorerebbero e recensirebbero senza mai lasciare la piattaforma Amazon.
Vediamo anche che il modello della piattaforma guida il cambiamento da web di tipo aperto ad app sempre più chiuse. L’espansione degli smartphone ha portato sempre più utenti a interagire con internet via app e non più visitando siti, e questo è un modo che permette alle società sia di espandersi che di chiudere la raccolta dati. Con un numero sempre maggiore di persone che usano una specifica app, i loro dati vengono estratti in quella sede, e le altre piattaforme ci vanno a perdere. […] Anche in profondità nello stack, le piattaforme stanno lavorando alla costruzione della loro infrastruttura di rete. Google, per esempio, sta costruendo il proprio browser privato per internet, sistemi operativi, network via fibra e centri dati – con informazioni che potrebbero non dover mai più viaggiare attraverso un’infrastruttura pubblica. Analogamente, il network via cloud di Amazon non è nulla se non un internet privato, con Microsoft e Facebook a collaborare per la creazione di un proprio cavo transatlantico in fibra. Se portata a una conclusione logica, questa tendenza potrebbe condurre le piattaforme specializzate a rinunciare all’idea di informatica generale per concentrarsi invece sull’ottimizzazione dei loro specifici servizi e delle tariffe associate a questi servizi. Alla fine, la predisposizione delle piattaforme principali a crescere fino a una dimensione enorme grazie agli effetti di rete, insieme all’inclinazione a convergere verso una forma simile, come dettato dalle richieste del mercato, le porterà a chiudersi – lo strumento cruciale per la competizione contro i diversi rivali. Se questa analisi è corretta, allora la concorrenza capitalistica sta portando internet a frammentarsi. Non c’è necessità perché si arrivi a questo risultato, visto che gli sforzi politici possono bloccarlo o ribaltarlo, ma all’interno di un modo di produzione capitalista ci sono forti pressioni concorrenziali che vanno verso questa conclusione.
Le sfide
[…] Le piattaforme offrono nuove forme di concorrenza e controllo, ma alla fine la redditività rimane il grande giudice del loro successo. […] le aziende del settore manifatturiero scommettono sul fatto che l’internet industriale cambierà le cose. Sia Germania che Stati Uniti vedono la situazione come una enorme opportunità – la prima vuole mantenere la propria posizione dominante nella produzione di alto livello, la seconda rivitalizzare il ruolo che aveva guadagnato nel dopoguerra. L’internet industriale sicuramente farà nascere alcune società di successo che per un po’ saranno in grado di ottenere profitti in più, molto al di là di quanto avviene coi loro competitor. La domanda cruciale tuttavia è se nel lungo periodo questo supererà o no la mancanza di redditività e la sovracapacità del settore produttivo a livello mondiale. Sembra improbabile, perché niente nel sistema dell’internet industriale sembra trasformare radicalmente il concetto di produzione, ma semplicemente si limita a ridurre costi e fermo macchina. Invece di migliorare la produttività o sviluppare nuovi mercati, l’internet industriale sembra portare ancora più in basso i prezzi e sembra aumentare la concorrenza per le quote di mercato, esacerbando di conseguenza uno dei principali ostacoli alla crescita globale. Chi possiede le piattaforme semplicemente sottrarrà ancora di più dei ricavi generati, lasciando ancora meno a chi produce direttamente. […] In questo scenario – considerato anche la spinta verso il basso dei tassi di interesse a breve e a lungo termine (a volte fino a toccare territori negativi) – è comprensibile che il patrimonio eccedente avrebbe cercato ricavi dove possibile. In maniera simile al boom degli anni Novanta, quello delle start-up di oggi sembra essere guidato in grandissima parte da forze di questo tipo […]
Questo ci porta all’ultimo dei limiti significativi: le piattaforme lean sono completamente dipendenti da un’immensa mania di eccedenza di capitale. Investire in start-up del settore tech oggi è sempre meno un’alternativa alla centralità della finanza e più che altro una sua espressione. Proprio come nel primo boom del settore tech, anche questo è stato innescato e sostenuto da una politica monetaria accomodante e da grandi quantità di capitale alla ricerca di ricavi più alti. […]
Laddove la maggior parte degli altri tipi di piattaforma sembrano occupare una posizione abbastanza forte per sopportare qualunque crisi economica e ogni colpo inferto al loro modello di business, le piattaforme pubblicitarie continuano a essere dipendenti in maniera incerta dai ricavi pubblicitari (come si è visto, Google all’89,0 per cento e Facebook al 96,6 per cento). Bisogna anche ricordare che le piattaforme usano le sovvenzioni incrociate per costruire i propri imperi. Il portfolio di servizi gratuiti messi a disposizione da Google e i suoi investimenti in tecnologia di alto livello sono completamente basati sui profitti generati dai suoi servizi pubblicitari […]. La pubblicità è, nel processo di valorizzazione capitalista, un mezzo per assicurarsi che il valore delle materie prime venga raggiunto attraverso le vendite. È un’espressione della concorrenza tra società, ma non produce nuovi beni. Per di più, la pubblicità non è immune alle crisi economiche. […] Più in generale, una lunga serie di studi in ambito economico mostra come la pubblicità sia altamente correlata alla crescita economica complessiva. Il basso costo delle inserzioni pubblicitarie digitali rispetto a quelle tradizionali ha anche implicato che la crescita del settore abbia accusato un ritardo rispetto alla crescita economica, ed è destinata a calare ancora di più nei prossimi anni55. È semplicemente più economico che mai avere la stessa quantità di visibilità pubblicitaria. […] Oltre a tutto ciò, non è chiaro come il settore pubblicitario possa prosperare in un mondo di ad blocker, di bot che falsano il numero di view degli spot, e di spam sistematico. […] Le aziende combattono contro questi trend tecnici – ma bisogna chiedersi se la ricchezza della società sia ben spesa finanziando una corsa alle armi pubblicitaria. Nel frattempo, nuovi tipi di software danno alle persone ancora più controlli sui dati che rendono disponibili, e i governi mondiali iniziano a legiferare sulla raccolta dati online. La pubblicità rimane una fonte di ricavo instabile per queste aziende. Anche il chief economist di Google Hal Varian prevede che la pubblicità perderà la propria importanza e che Google alla fine adotterà un modello pay-per-view.
Se la pubblicità diminuisce – in seguito alla combinazione di crisi economica, ad blocking e leggi in materia – che cosa finiranno col fare queste piattaforme? Da un lato, un declino simile potrebbe accelerare la tendenza verso l’enclosure. Gli ad blocker funzionano nell’open web, ma all’interno delle app la piattaforma ha il controllo completo su quello che viene visualizzato. Per Google, in quanto interfaccia dell’open web, del web aperto, l’enclosure non è una possibilità. Questo porta a un’altra opzione, come suggerito da Varian: uno spostamento verso pagamenti diretti di un qualche tipo (noleggi, abbonamenti, contributi, micropagamenti, eccetera). Ci si potrebbe orientare alla fornitura di piattaforme essenziali in altri ambiti – una percentuale su ogni transazione finanziaria, un canone per consentire ai produttori di auto di usare le piattaforme senza autista di Google, un affitto richiesto a ogni azienda che usa i servizi cloud di Google. O potrebbe esserci una enorme espansione nei micropagamenti, giacché l’IoT consente la trasformazione di ogni bene in un servizio fa pagare per il suo utilizzo: auto, computer, porte, frigoriferi, toilette. […] Con questa opzione, si ottiene un canone dall’utilizzo di un servizio e, considerata la posizione di monopolio di queste piattaforme, le alternative rimangono inaccessibili. […] A ogni modo, l’imperativo capitalista verso la generazione di profitti significa che queste piattaforme saranno forzate o a sviluppare nuovi modi per ottenere un surplus dalla torta economica generale, oppure di ridurre i propri monopoli espansivi basati su sovvenzioni incrociate in forme di business molto più tradizionali.
Gli scenari futuri
Cosa ci riserva, dunque, il futuro? Se le tendenze delineate in questo libro continueranno, possiamo aspettarci uno scenario in particolare. Le piattaforme andranno avanti a espandersi in tutto l’ambito economico, e la concorrenza le condurrà sempre di più verso una forma di enclosure. Le piattaforme che dipendono dai ricavi pubblicitari saranno portate a trasformarsi maggiormente in aziende con possibilità di pagamenti diretti. […] Alla fine, appare chiaro che il capitalismo delle piattaforme incorpori tendenze che lo portano a richiedere dei canoni in cambio di servizi (sotto forma di piattaforme cloud, piattaforme infrastrutturali o piattaforme prodotto). In termini di redditività, Amazon è più vicina al futuro di Google, Facebook o Uber. In questo scenario, le sovvenzioni incrociate dietro molta parte dell’infrastruttura rivolta al pubblico di quello che è attualmente internet andrebbero a sparire, e le disuguaglianze già esistenti a livello di reddito e ricchezza verrebbero ripetute sotto forma di disparità di accesso.»