“Capitale algoritmico. Cinque dispositivi postmediali (più uno)” di Ruggero Eugeni

Prof. Ruggero Eugeni, Lei è autore del libro Capitale algoritmico. Cinque dispositivi postmediali (più uno) edito da Scholé: innanzitutto, a cosa si fa riferimento con l’espressione “capitale algoritmico”?
Capitale algoritmico. Cinque dispositivi postmediali (più uno), Ruggero EugeniNel volume affronto la questione dello statuto e del ruolo delle immagini nel mondo dei media contemporanei. Oggi le immagini che insistentemente ci circondano e interagiscono con noi derivano dalla visualizzazione di set complessi di dati: le immagini non “si mostrano” né “appaiono”, come in passato, ma “materializzano” alcune informazioni in forma luminosa. Ho chiamato (con un rischio calcolato) queste immagini di nuova generazione “algoritmi”, sia perché sono strettamente legate a processi di calcolo, sia perché la loro manifestazione coincide con una serie di procedimenti interattivi fortemente regolati come appunto gli algoritmi informatici. In altri termini la componente di calcolo è così massiccia che piuttosto che di “immagini algoritmiche” occorre parlare di algoritmi visuali.

Non solo: queste immagini (che siano quelle dei nostri computer, smartphone e tablet; o dei visori delle realtà virtuale, degli occhiali intelligenti o di mille altri apparecchi) sono dei “pacchetti” che uniscono strettamente una certa quantità di dati, una certa quantità di luce e una certa quantità di lavoro necessaria per passare dall’una all’altra; e che consentono di incrementare l’una e l’altra. Gli algoritmi sono dunque dispositivi “economici” che possono essere accumulati e che a loro volta permettono l’accumulo di altre risorse: il nostro stesso interagire con le immagini (il nostro lavoro con esse) crea nuove immagini (luce) e nuove informazioni (dati). Se le immagini sono algoritmi, i loro flussi e i loro utilizzi rispondono a logiche economiche e in particolare al loro accumulo e alla loro capitalizzazione. Il titolo del libro deriva da questi fenomeni che cerco appunto di studiare.

Su quali dispositivi si concentra la Sua analisi e in che senso essi rappresentano “dispositivi postmediali”?
In effetti il mio libro lavora su una serie di dispositivi concreti per la produzione di immagini computazionali o algoritmi, facendo emergere mano a mano le linee generali del discorso, che riassumo in forma più sistematica nell’ultimo capitolo. Il primo di questi dispositivi sono gli smart glass per l’utilizzo della realtà aumentata, come per esempio i Google Glass. Il secondo caso è quello delle macchine fotografiche e cinematografiche “a campo di luce”, che consentono di catturare immagini tridimensionali molto complesse e complete dell’ambiente in cui vengono utilizzate: il mio esempio è la Lytro Illum. I visori notturni che permettono di vedere e riprendere gli ambienti anche in condizione di visibilità molto scarsa rappresentano il mio terzo caso di analisi: essi sono stati sviluppati soprattutto in ambito militare, ma hanno poi trovato applicazioni in settori medicali o astronomici (soprattutto per la visione termica), in quelli della sorveglianza o anche in alcuni interventi artistici. Il quarto dispositivo analizzato è un ambiente di realtà virtuale mista (quello dell’azienda The Void), che è un po’ il punto di arrivo di una lunga serie di apparecchi di “realtà estesa”. L’ultimo dispositivo sono le c.d. Reti Generative Avversarie, un tipo di macchina algoritmica utilizzata per la produzione di immagini mediante processi automatizzati di Intelligenza Artificiale. L’ultimo capitolo come ho detto riassume quanto via via emerso: ho pensato tuttavia di introdurlo con un0analisi dell’utilizzo dei microscopi elettronici nella lotta contro il virus SARS-CoV-2 (è il “più uno” del titolo).

È chiaro da questa presentazione molto veloce che pur trattandosi di dispositivi per la produzione e l’esibizione di immagini e immagini audiovisive, essi non sono dispositivi mediali in senso stretto perché lavorano in ambiti che attraversano (e collegano) trasversalmente il mondo dei media, quello della difesa e della sicurezza, quello della sorveglianza e della ricerca medico scientifica, e così via. Tutti ambiti che si sono giovati notevolmente negli ultimi anni della capacità di dispositivi di produzione, trasmissione e visualizzazione di algoritmi: di qui la loro qualificazione di dispositivi “postmediali”, tipici cioè di una condizione in cui i media non sono più pensabili come un settore della vita sociale “ludico” separato dagli altri settori “pratici”.

In che modo la visione computazionale condiziona la percezione umana?
Nel mio libro cerco di argomentare che esiste una linea di sviluppo unitaria, per quanto discontinua, nel passaggio da uno strato archeologico all’altro dei dispositivi postmediali. E che questa linea di sviluppo riguarda proprio la capacità dei dispositivi di produzione delle immagini di contribuire a determinare le condizioni dell’esperienza percettiva (e non solo) dei soggetti sociali. Senza entrare troppo nei particolari, vedo all’opera due movimenti opposti e complementari, che partono fin dall’avvento della prospettiva rinascimentale e vengono ripensati e implementati fino agli algoritmi. Da un lato c’è il “farsi immagine del mondo”, ossia la traduzione del mondo in modelli logici e matematici che ne assicurino il controllo e l‘appropriazione. Dall’altro c’è il “farsi mondo delle immagini”, il loro entrare nei nostri ambienti reclamando o imponendo presenza, attenzione e spazio di esercizio di una certa “agentività”. Questi due movimenti si saldano appunto negli algoritmi: qui, nel momento in cui si interagisce con le immagini presenti nel mondo, si viene tracciati e tradotti in immagini-dati. La nostra esperienza percettiva è in questo senso costantemente implementata dall’utilizzo delle tecnologie digitali della visione; ma anche le immagini-algoritmo sono costantemente implementate dalla nostra presenza e dalle nostre azioni.

Quale nuova economia politica della luce inaugurano gli algoritmi?
Occorre premettere rapidamente che nel mio libro utilizzo il termine “economia politica” in un senso ampio (come ho accennato prima), non ristretto cioè all’accezione che il termine ha assunto con riferimenti ai fenomeni di mercato. L’economia in questo senso ampio è l’analisi di qualunque flusso regolato di risorse, da quelle materiali a quelle simboliche, cognitive, sociali, relazionali, e così via. Esiste quindi una economia della conoscenza, della creatività, della reputazione, del tempo, e così via. Occorre di volta in volta capire chi, come e mediante quali dispositivi questi flussi vengono amministrati e regolati nella loro circolazione, nella loro relazione reciproca e ovviamente anche nel loro scambio e accumulo (o nel loro depauperamento). Dal momento che tali risorse fanno parte di e determinano le forme del mondo comune in cui tutti noi viviamo, questa economia è intrinsecamente politica: essa implica meccanismi collettivi di determinazione e conseguenze che ci riguardano tutti. Ci sarebbe qui da insistere su come una eco-logia rimandi sempre a una eco-nomia e quindi a una dimensione politica, ma non posso farlo adesso.

A partire da qui, possiamo concepire l’esistenza di una economia politica della luce, legata a quella che Jacques Rancière chiama una “partizione del sensibile” – e più esattamente del visibile. Come tutte le economie, anche quella della luce possiede una storia, che cerco di ricostruire nel mio libro. Alla metà dell’Ottocento la luce entra nel novero delle forze elettromagnetiche e diviene quindi producibile e modulabile tecnologicamente: la connessione tra questa economia moderna della luce e quella delle immagini porta alla nascita dei media, sia quelli cumulativi come il cinema sia quelli trasmissivi come la televisione. Per converso, le immagini cambiano di statuto rispetto al passato, perché la loro apparizione è legata alla gestione della luce elettrica. Vilém Flusser parla a questo proposito di “tecno-immagini” e di “immagini-luce”. Questo quadro viene rivoluzionato circa cento anni dopo, all’inizio degli anni Sessanta del Novecento, a partire da un nuovo innesto: questa economia delle immagini-luce si salda su quella dell’informazione e le immagini divengono la visualizzazione di set complessi e manipolabili di dati (come ho accennato sopra a proposito della mia definizione di immagine-algoritmo). Noi oggi viviamo all’interno di una economia politica della luce inestricabilmente connessa con quella della informazione: ciò che scambiamo, e implementiamo; ciò che ci fa lavorare e con cui lavoriamo; ciò che contempliamo e che al tempo stesso ci contempla: insomma le risorse di cui e in cui viviamo sono insieme luminose e informazionali. Solo che, come i giovani pesci dell’apologo con l’acqua, non ci rendiamo più conto di questa complessa economia che ci circonda e della sua crucialità per la nostra esperienza.

Nel libro Lei tratta anche di speciali reti neurali, le cosiddette Reti Generative Avversarie: quali caratteristiche presenta la creatività artificiale?
Le Reti generative Avversarie (Generative Adversarial Network, o GAN) nascono come macchine algoritmiche per l’auto-addestramento al riconoscimento automatizzato di immagini (il cosiddetto machine learning) e vengono quasi immediatamente utilizzate per la produzione di immagini artificiali: sono immagini particolari, variamente plasmabili dall’artista-programmatore, che hanno di recente trovato una propria collocazione interessante anche nel mercato dell’arte. Nel mio libro ne parlo come uno degli strumenti di produzione di immagini mediante l’intervento di macchine computazionali: questi esempi di Intelligenza Artificiale applicati alle immagini sono in effetti solo un esempio di quel meccanismo ordinario di cui parlavo sopra: tutte le immagini algoritmiche sono visualizzazioni più o meno parziali e orientate di data set e data cube.

Il caso dei GAN è interessante anche per un’altra ragione: esse hanno alimentato il mito di Intelligenze Artificiali in quanto “artisti” dotati di una propria “personalità”. Questo mito si connette all’idea postmoderna dell’immagine contemporanea come “sguardo di nessuno”, o all’idea collegata del postumano come una situazione di equiparazione di soggetti umani e soggetti “artificiali”. Nel mio libro mi mostro critico verso queste tendenze di pensiero: penso che la società basata sul capitale algoritmico non sia il frutto di una casualità o di un determinismo impersonale ma sia piuttosto e a tutti i livelli il frutto di scelte individuali e collettive precise e volte a favorire alcuni soggetti sociali a scapito di altri. Il mio approccio economico-politico cui ho accennato sopra intende appunto svelare tali scelte, dare nomi e cognomi ai soggetti che se ne fanno responsabili – come pure a coloro che le contestano e che propongono forme alternative di distribuzione e redistribuzione dei dati, delle immagini, della luce.

Ruggero Eugeni è professore ordinario di Semiotica dei media presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e Brescia. Dirige presso la stessa Università il Master in Media relation e comunicazione di impresa e coordina il Corso di Laurea magistrale in Gestione di contenuti digitali (sede di Brescia). Dal 2002 al 2016 ha diretto presso la stessa Università l’Alta Scuola in Media, Comunicazione e Spettacolo (http://almed.unicatt.it/). La sua ricerca si è svolta principalmente nell’ambito della teoria del cinema e dei media audiovisivi, con particolare attenzione per la dimensione semiotica e discorsiva. I suoi interessi di ricerca attuali sono (a) la neurofilmologia: una teoria dell’esperienza dello spettatore derivante da un dialogo tra teoria dei media audiovisivi e scienze neurocognitive; un interesse specifico viene dedicato alla percezione soggettiva del tempo nei media audiovisivi. (b) Cinema e ipnosi: una ricostruzione storica, archeologica e genealogica dell’ipnosi come modello dell’esperienza cinematografica. (c) La condizione postmediale: una esplorazione delle coordinate dell’esperienza sociale nel momento presente della completa assimilazione dei media negli ambienti di vita. I suoi lavori più recenti e consistenti sono Semiotica dei media. Le forme dell’esperienza (Roma 2010), Invito al cinema di Stanley Kubrick (nuova edizione, Milano 2014), La condizione postmediale (Brescia 2015) e Il capitale algoritmico. Cinque dispositivi postmediali (più uno) (Brescia, 2021). Ha curato con Adriano d’Aloia i volumi Neurofilmology. Audiovisual Studies and the Challenge of Neurosciences (Milano 2014), e Teorie del cinema. Il dibattito contemporaneo (Milano 2017); e con Fausto Colombo Storia della comunicazione e dello spettacolo in Italia. Vol. II I media alla sfida della democrazia (1945-1978) (Milano, 2015). Tra i suoi lavori precedenti: Il testo visibile. teoria, storia e modelli di analisi (in collaborazione con Fausto Colombo: Roma, 1996), Analisi semiotica dell’immagine. Pittura, illustrazione, fotografia (Milano, nuova ed. 2004), Film, sapere, società. Per un’analisi sociosemiotica del testo cinematografico (Milano, 1999), La relazione d’incanto. Studi su cinema e ipnosi (Milano, 2002). Ha curato con Fausto Colombo il volume Il prodotto culturale. Teorie, tecniche di analisi, case histories (Roma, 2001) e con Dario Viganò Attraverso lo schermo. Cinema e cultura cattolica in Italia, 3 voll. (Roma, 2006). Il suo sito Media | Experience | Semiotics (con un panorama completo e aggiornato delle sue attività e vari papers disponibili per il download) è http://ruggeroeugeni.com

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