“Canto notturno di un pastore errante nell’Asia” di Giacomo Leopardi: parafrasi e riassunto

«Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia è considerato uno dei componimenti filosofici e maggiormente complessi di Giacomo Leopardi, anche se il poeta ha scelto, ed è l’unico caso dell’intera raccolta, di far parlare un personaggio umile, un pastore, attraverso sei ampie strofe di endecasillabi e settenari che hanno il ritmo e le cadenze di un vero «canto» orale, come quelli di cui Leopardi aveva letto notizie a proposito della popolazione nomade dei Kirghisi.

Il pastore è in cerca di ascolto da parte della luna, già privilegiata interlocutrice del poeta in canti precedenti, ma ora l’antico tema lirico, il dialogo con una realtà femminile lontana e impossibile, invece di essere sviluppato in direzione sentimentale diventa l’ossatura per sostenere un ragionamento «filosofico». E questo ragionamento ha una struttura calcolatissima, fatta di riprese, parallelismi, ripetizioni. I versi iniziali contengono un appello che implica una condivisione di azioni, poi resa più esplicita, una somiglianza tra l’errare del pastore e l’errare della luna («errante» è parola chiave, non solo per la suggestione che crea nel titolo): «Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, / Silenziosa luna? […]. Somiglia alla tua vita / La vita del pastore». Da qui prende inizio il dialogo. Ed è già sottinteso, nella ripetitività di queste azioni, il dubbio della noia, senza che il concetto si renda per ora esplicito: «Ancor non sei tu paga / Di riandare i sempiterni calli? / Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga / Di mirar queste valli?». Al v. 16 la domanda diretta, «Dimmi, o luna», poi ripetuta al v. 18, instaura un forte contrasto con il primo attributo della luna, «silenziosa», ma presuppone un sapere da parte della luna, un sapere che giunge al culmine nella quarta strofa, in una progressione (climax) che parte in modo attenuato per poi arrivare a una certezza: «tu forse intendi» (v. 62), «E tu certo comprendi» (v. 69), «Tu sai, tu certo» (v. 73), «Mille cose sai tu, mille discopri» (v. 77), «Ma tu per certo, / giovinetta immortal, conosci il tutto» (vv. 98-99).

Il «dimmi» rivolto alla luna è ripreso nella strofa quinta al v. 129 per la stessa richiesta rivolta al gregge, che rappresenta il punto opposto rispetto a quello lunare: il gregge è portatore di un ingenuo non sapere ma in questo suo non sapere è sottinteso il privilegio di non conoscere la noia. L’atto di richiesta alle bestie è a questo punto ironico (come sottolinea l’ipotetico «Se tu parlar sapessi, io chiederei», non contemplato al momento delle domande alla luna), tanto più in quanto capovolge la prospettiva di innalzamento cosmico della strofa precedente, interamente pervasa dallo sguardo del pastore rivolto verso l’alto. Inoltre, se nella strofa quarta si parla di un movimento perpetuo — quello degli astri — come chiave di un segreto universale («di tanti moti / d’ogni celeste, ogni terrena cosa, girando senza posa», vv. 93-95) nella quinta si descrive la quiete imperturbabile delle bestie: «Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe, / tu se’ queta e contenta» (vv. 113-114). In questa parabola tra modalità estreme dell’esistere (gli astri in cielo, le pecore in terra), l’unico a soffrire le conseguenze sia del movimento che della quiete è l’uomo, rappresentato dal pastore-filosofo. Anche a livello formale alla staticità apparente data dalle ripetizioni e dai parallelismi corrisponde un movimento di riprese che percorre tutto il sistema delle strofe. Nella seconda strofa l’immagine allegorica del «vecchierel bianco» esprime l’idea di un movimento frenetico («corre via, corre, anela, […] senza posa o ristoro») il cui scopo è del tutto vano: «infin ch’arriva / Colà dove la via / E dove il tanto affaticar fu volto: / Abisso orrido, immenso, / Ov’ei precipitando, il tutto obblia» (vv. 32-36). Nella quinta strofa, invece, la quiete che il pastore potrebbe condividere con le sue bestie diventa subito causa di tedio: «Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, / E un fastidio m’ingombra / La mente, ed uno spron quasi mi punge / Sì che, sedendo, più che mai son lunge / Da trovar pace e loco» (vv. 117-121). Dunque la corsa affannosa del vecchierello, immagine della «sventura» del vivere, trova corrispondenza, al contrario, nell’ozio infelice del pastore, e così le strofe seconda e terza sono alluse e rovesciate dalla quinta, insieme alla quale fanno da cornice al quadro cosmico della quarta.

Alla fine, prima di terminare il canto con una lapidaria sentenza epigrammatica, il pastore non può sottrarsi dal proporre un ultimo balzo dell’immaginazione: se lui potesse, come un uccello, volare sulle nubi e vedere le stelle, oppure, come il tuono, muoversi da una cima all’altra dei monti, forse la sua vita sarebbe felice. Ma queste due ipotesi sono subito sconfessate. Tutti gli esseri che nascono sono ugualmente sottoposti all’infelicità: «È funesto a chi nasce il dì natale» (v. 143).»

Canto notturno di un pastore errante nell’Asia (Canti)

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenzïosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.

[5] Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita

[10] la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:

[15] altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,

[20] il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,

[25] per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l’ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,

[30] cade, risorge, e più e più s’affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch’arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu volto:

[35] abisso orrido, immenso,
ov’ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.

Nasce l’uomo a fatica,
[40] ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato.

[45] Poi che crescendo viene,
l’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell’umano stato:

[50] altro ufficio più grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?

[55] Se la vita è sventura,
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,

[60] e forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu solinga, eterna peregrina,
che sì pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;

[65] che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi

[70] il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,

[75] a chi giovi l’ardore, e che procacci
il verno co’ suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro

[80] star così muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi vïaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;

[85] dico fra me pensando:
a che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?

[90] Così meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba,
e dell’innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d’ogni celeste, ogni terrena cosa,

[95] girando senza posa,
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.

[100] Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell’esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors’altri; a me la vita è male.

[105] O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
quasi libera vai;

[110] ch’ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
tu se’ queta e contenta;

[115] e gran parte dell’anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
e un fastidio m’ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge

[120] sì che, sedendo, più che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,

[125] non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
dimmi: perché giacendo

[130] a bell’agio, ozïoso
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?

Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,

[135] e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
più felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,

[140] mirando all’altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.

2 silenzïosa: epiteto di sapore virgiliano
4 i deserti: probabile allusione alle steppe dell’Asia centrale, dove vive il pastore; ti posi: tramonti
6 di riandare… calli: di ripercorrere sentieri eternamente uguali
7 Ancor… vaga: ancora non ti sei annoiata, ancora sei desiderosa
12 greggia: forma metaplastica, di uso letterario, abituale in Leopardi
16 a che vale: a che cosa giova
21 Vecchierel ecc.: è una delle tessere petrarchesche caratteristiche del Canto notturno. I versi 21-32 hanno un andamento accumulativo
25 sassi… fratte: rocce aguzze, sabbia profonda (alta ha l’accezione latineggiante, restata oggi in “alto mare”) e dirupi
27 l’ora: la stagione
28 anela: ansima
37 Vergine: l’epiteto si addice alla Luna come divinità, ma allude anche al suo non essere minimamente toccata (intatta si dirà al verso 57) dai mali dell’uomo
40 rischio di morte: non è solo un motivo poetico; all’epoca la mortalità neonatale, oggi presente solo nelle aree di sottosviluppo, era molto diffusa ovunque
48 studiasi fargli core: cerca di fargli coraggio
50 ufficio: dovere (latinismo, come parenti ‘genitori’ al verso successivo)
54 convenga: sia necessario
56 si dura: si continua a sopportare
60 ti cale: ti importa
61 Pur: eppure
70 il frutto: lo scopo
75 che procacci: quale vantaggio procuri
80 star… piano: ripresa delle immagini iniziali: silenzïosa (2), deserti (4)
86 facelle: fiammelle (le stelle)
90 stanza: mondo (propriamente ‘dimora degli esseri animati e delle cose inanimate’)
92 innumerabile famiglia: le innumerevoli specie che popolano la terra
101 degli eterni giri: delle orbite celesti
102 dell’esser mio frale: della mia precaria (frale) esistenza
106 che la miseria… sai: che sei inconsapevole della tua infelicità
113 siedi: sosti
120-121 sedendo… loco: anche quando riposo, sono lontano dal trovare pace
122-123 nulla… pianto: non ho desideri insoddisfatti, né finora ho motivo di piangere
127 mi lagno: mi lamento
136 di giogo in giogo: da una vetta all’altra
140 mirando all’altrui sorte: guardando alla condizione degli altri esseri viventi
142 dentro covile o cuna: in una stalla (gli animali) o in una culla (gli esseri umani)

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