“Canto 6 dell’Inferno“: parafrasi

Canto VI

Quando ripresi conoscenza, vidi intorno a me, dovunque io mi girassi o volgessi o guardassi, nuovi dannati e nuovi tormenti.

Mi trovavo nel terzo cerchio, senza ben saper come vi fossi giunto.

Una pioggia violenta, gelida, flagellante percuoteva i dannati. Dall’aria, carica di tenebre, cadevano grandine, acqua nera e neve; dalla terra, si sprigionava un odore fetido.

Una creatura orrenda, Cerbero, mezzo cane e mezzo uomo, latrava, dalle sue tre gole, sopra i dannati. Un mostro schifoso: occhi di fuoco, barba nera e unta, ventre largo, mani umane con artigli neri. Graffiava gli spiriti, li spellava e squartava. E la pioggia li faceva urlare come cani. Per cercare di difendersi, quei miserabili si rigiravano da una parte e dall’altra.

Quando ci scorse, Cerbero spalancò le fauci e ci mostrò i denti, come se volesse sbranarci. Non c’era una parte del suo corpo che non fosse scossa da un tremito. Allora, Virgilio raccolse un po’ di terra melmosa e la gettò nelle gole di quel demonio. Proprio come un cane affamato, che si acquieta solo quando può addentare il suo pasto, così fece Cerbero: i suoi tre lerci musi si misero a divorare gli strani bocconi scagliati dal mio maestro e smisero di latrare, cosa che fu certo un sollievo per i dannati, di solito tanto assordati da quel mostro da desiderare di non avere più l’udito.

Passammo — sopra le anime e, camminando, calpestavamo quelle ombre che sembravano avere una consistenza corporea. Giacevano tutte a terra, eccetto una che, non appena ci vide passarle davanti, si levò a sedere.

Si rivolse a me e mi domandò se lo riconoscessi, dato che ero già un uomo fatto quando egli era morto. Gli risposi che mi era impossibile, tanto i suoi lineamenti erano stravolti. Gli domandai quindi di rivelarmi chi fosse e perché si trovasse in quel cerchio, dove la pena mi sembrava tanto grave che, se altre erano forse maggiori, certo nessuna poteva essere più spiacevole e disgustosa.

– Durante la mia vita terrena, – mi rispose – vissi, come te, in quella città che ora é così piena di odio e di gelosia che ormai ha superato la misura. Voi Fiorentini mi chiamavate Ciacco. Fu la gola a rovinarmi e a condannarmi a subire per l’eternità questa maledetta pioggia. Non sono la sola anima qui dannata, ché tutte le altre che vedi si sono macchiate di un peccato simile al mio. –

Le sue parole mi permisero di riconoscerlo. Era stato un banchiere che, per eccesso di cibo e bevande, era diventato quasi cieco, al punto da non riuscire più a riconoscere le monete. In effetti, mi ricordavo che la gente lo aveva soprannominato Ciacco, vale a dire Porco.

Un mio concittadino, il primo con cui parlavo nell’Inferno. Subito sentii dentro di me il rovello che tanto mi tormentava. Che ne sarebbe stato di Firenze? Quale sarebbe stato lo sviluppo futuro delle lotte che dilaniavano la nostra tormentata città? C’era ancora in Firenze una persona giusta?

Quali erano le cause che l’avevano ridotta in un simile stato di discordia? Queste furono le domande che posi a Ciacco.

– Dopo un lungo contrasto – mi rispose – le due fazioni principali della città, i Bianchi e i Neri, si scontreranno in modo diretto e cruento. In un primo momento, saranno i Bianchi a prevalere e i Neri subiranno esili, verranno multati, vedranno i loro beni confiscati e le loro case incendiate. Ma, prima che siano trascorsi tre anni, saranno i Neri ad avere la meglio, con l’aiuto di papa Bonifacio VIII che, per il momento, si barcamena fra le due parti senza svelare le sue esatte intenzioni. A lungo durerà il dominio dei Neri e tanti saranno gli abusi e le prepotenze che i Bianchi dovranno subire. Per rispondere alle altre tue domande, ti dirò che a Firenze, di uomini giusti, forse ne sono rimasti due o tre, ed è come se non ci fossero, perché nessuno li ascolta. All’origine di tanto sfacelo, c’é la superbia dei nobili, c’é l’invidia dei popolani, c’è l’avidità dei borghesi. –

Le parole di Ciacco erano state per me come pugnalate. La mia bella città, rovinata da odii e interessi meschini…

Ripensai agli uomini della generazione precedente alla mia, quelli che avevano reso grande Firenze: Farinata degli Uberti, il Tegghiaio, Jacopo Rusticucci, Arrigo Fifanti, Mosca de’ Lamberti e tanti altri. Domandai a Ciacco se sapeva dove si trovassero, se fossero dannati o beati.

Mi rispose che si trovavano tutti nell’Inferno e fra le anime più nere. Diverse colpe li avevano fatti sprofondare nei cerchi inferiori. Se io fossi giunto sin là, li avrei potuti vedere.

“In che cosa hanno sbagliato?” – pensai – “Perché hanno concluso in modo così misero la loro esistenza uomini tanto grandi e nobili?” –

Avrei forse posto a Ciacco queste domande, ma l’anima del mio concittadino mi disse che altro non poteva dirmi e altro non poteva più rispondermi.

Un’ultima preghiera. – mi disse ancora – Quando tornerai in quel mondo che ora mi sembra così dolce e bello, ricorda il mio nome a quelli che ancora vivono. Che io possa almeno sopravvivere nel loro ricordo! –

Furono le sue ultime parole. Storse gli occhi, mi guardò ancora un poco, poi chinò la fronte e cadde nel fango, in mezzo agli altri dannati: nella melma, come maiali.

Non si solleverà mai più. – disse Virgilio – Mai più, fino al giorno del Giudizio, quando ogni dannato tornerà alla sua tomba per riprendere il proprio corpo e ascolterà la sentenza definitiva che risuonerà per l’eternità. –

Riprendemmo a camminare in quella sozza mistura di anime e di fango. Discutevamo sulla vita del corpo dopo la morte. Domandai al mio maestro se le pene dei dannati, una volta che si fossero ricongiunti alla propria carne, sarebbero aumentate o diminuite o se sarebbero rimaste dolorose come ora.

Ripensa alla filosofia di Aristotele, – mi rispose- che tanto hai studiato. Essa insegna che quanto più una cosa è perfetta, tanto più sente il bene e il male. Quando si ricongiungeranno ai propri corpi, gli spiriti ancor più lo saranno. Dunque, qui nell’Inferno soffriranno di più, mentre in Paradiso godranno di una più completa beatitudine. –

Discutemmo ancora parecchio. Intanto, continuavamo a percorrere il cerchio, finché giungemmo dove si scendeva in quello sottostante. E qui trovammo il peggiore nemico dell’umanità, l’antico dio della ricchezza: Plutos.

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