Come Caronte, anche il mitico re di Creta Minosse è un personaggio del mondo dei morti già presso gli antichi. Nell’Eneide esercita questo stesso ruolo di giudice dei defunti all’ingresso dell’oltretomba.
Benché le anime in attesa di giudizio fossero molte, quando vide Dante, Minosse interruppe il suo lavoro e gli disse: «Tu che vuoi entrare in questa casa di dolore, stai attento. Non ti fidare della tua guida, e non lasciarti neppure ingannare dal fatto che l’ingresso sia così largo».
«Minosse,» lo interruppe Virgilio «smetti di gridare. Non puoi impedire un viaggio voluto dal fato: lo vuole Dio onnipotente, perciò taci.»
Il luogo, buio, muggiva come il mare in tempesta. Una bufera incessante trascinava le anime che, prese nel vortice, venivano sbattute qua e là e percosse tra loro. Dante comprese che quel tormento puniva i lussuriosi, i peccatori che sottomettono la ragione agli istinti. Il vento li faceva volare come fossero stornelli, li sballottava disordinatamente in tutte le direzioni. Non potevano sperare non solo che si fermasse, ma nemmeno che calasse un poco.
Nella tormenta Dante vide avvicinarsi, portata dal vento, una lunga fila di anime simile a quella che formano le gru volando una dietro l’altra, e come le gru anche le anime emettevano suoni lamentosi. Chiese al suo maestro chi fossero. Virgilio cominciò a elencarle a una a una. Semiramide, moglie di Nino, a cui succedette sul trono: regnò su molti popoli, fu rotta a ogni lussuria, al punto che, per cancellare l’infamia del suo amore incestuoso per il figlio, dal quale secondo alcuni sarebbe stata uccisa, decretò per legge che ciascuno potesse fare ciò che più gli piaceva. Didone, di cui nell’Eneide Virgilio racconta che si uccise per amore di Enea, dopo aver tradito la fedeltà promessa al defunto marito Sicheo. Cleopatra, la lussuriosa regina d’Egitto che si diede la morte per non cadere nelle mani di Ottaviano (suicidio ricordato anche nel canto 6 del Paradiso). Elena, a causa della quale fu combattuta la lunga e luttuosa guerra di Troia (e che Dante, forse, riteneva morta nella distruzione di quella città). Il grande Achille che, innamoratosi della figlia di Priamo, Polissena, si lasciò attrarre in un agguato dove morì per mano del di lei fratello Paride. Paride (il rapitore di Elena, che dopo aver ucciso Achille fu ucciso a sua volta da una freccia avvelenata scagliatagli da Filottete). Tristano (cavaliere della Tavola Rotonda legato da un tragico amore incestuoso a Isotta, moglie di suo zio Marco, re di Cornovaglia e, secondo alcuni, ucciso proprio da lui).
Questo elenco di donne e di cavalieri del passato suscitò in Dante un turbamento così forte che per poco non perse i sensi.
La sua attenzione fu attirata da due anime che non volavano una dietro l’altra, ma affiancate. Incuriosito, disse a Virgilio che avrebbe parlato volentieri con loro; lui gli rispose di aspettare che si fossero avvicinate e poi di pregarle in nome di quell’amore che le teneva strette nel volo: lo avrebbero accontentato. Così Dante fece. Le invitò a parlare con lui, se Dio non lo impediva, e allora quelle anime tormentate, avendo percepito quanto affetto pervadesse la sua richiesta, si staccarono dalla fila e come due colombe gli si avvicinarono in volo.
«O uomo cortese e benevolo» cominciò una delle due «che in questo luogo tenebroso vieni a far visita a noi che macchiammo il mondo con il nostro sangue, se Dio ci fosse amico lo pregheremmo di premiare la compassione che mostri per il nostro male crudele concedendoti di vivere in pace. Fino a che il vento, qui, si manterrà calmo come è adesso, noi vi diremo tutto ciò che desiderate ascoltare.» Dopo essersi presentata – «Sono nata a Ravenna, una città vicina al mare nel quale sfocia il Po con i suoi affluenti» – raccontò come tra lei e il compagno fosse nato l’amore e a quale tragico destino li avesse condotti: «Amore, che in un cuore nobile attecchisce veloce, accese in costui un così smodato desiderio del mio bel corpo, di cui adesso sono priva, che ancora, dannata, ne soffro le conseguenze. Amore, che impone di riamare chi ti ama, accese me di un desiderio così forte della bellezza di quest’uomo che, come vedi, ancora mi possiede. Amore ci portò a morire insieme. Chi ci uccise a tradimento vive ancora, ma è atteso nella Caina» (al fondo dell’Inferno, dove sono puniti i traditori dei parenti).
Dante ha riconosciuto i protagonisti di una storia di amore e morte accaduta non molti anni prima. Francesca da Polenta, figlia di Guido il Vecchio signore di Ravenna e moglie del signore di Rimini Giovanni Malatesta detto Gianciotto perché sciancato («ciotto»), aveva una relazione con il fratello del marito, Paolo Malatesta detto il Bello, lui pure sposato. La relazione, dunque, oltre che adulterina era incestuosa, dal momento che allora veniva considerato incestuoso un rapporto carnale anche con parenti acquisiti. Adulterio e incesto sono sì peccati individuali, ma di forte impatto sociale perché turbano l’armonia della famiglia e le regole della convivenza. Gianciotto, scoperta la tresca, li uccise entrambi. Dante è il solo a parlare di questa vicenda, della quale tacciono tutte le fonti dell’epoca, comprese quelle romagnole. Il duplice delitto, dunque, non aveva fatto scalpore, anche perché non dovevano essere rari i casi di mariti, soprattutto di rango, che lavavano con il sangue l’onore macchiato. Quel fatto di sangue, però, era ben noto a Firenze, dove i protagonisti erano molto conosciuti: Paolo Malatesta vi aveva esercitato la funzione di capitano del Comune tra il 1282 e il 1283 e il padre di Francesca vi aveva ricoperto la carica di podestà nel 1290, pochi anni dopo il delitto, databile intorno al 1285.
Udite le parole di quelle anime ferite, Dante chinò il capo, tanto a lungo che Virgilio gli chiese: «A cosa stai pensando?». Quando finalmente gli rispose, esclamò: «Ahimè, quali dolci pensieri d’amore, e che grande desiderio condusse questi due a un così doloroso Poi si rivolse a loro: «Francesca, i tuoi tormenti mi impietosiscono fino alle lacrime, ma dimmi: al tempo dolcissimo nel quale in ciascuno di voi si accendeva il desiderio, con quali indizi e in quale occasione amore fece in modo che lo rivelaste l’uno all’altro?».
E lei gli rispose: «La tua guida sa bene che non c’è dolore più grande del ricordare la passata felicità quando si è infelici, ma siccome sei così desideroso di conoscere come sia nato il nostro amore, te lo racconterò, pur piangendo». […]
Francesca disse, infatti, che un giorno, per svago, lei e il suo compagno stavano leggendo il Lancelot, il romanzo che racconta come il cavaliere Lancillotto si fosse innamorato di Ginevra, moglie di re Artù. Erano soli e non sospettavano cosa sarebbe accaduto. È vero che ciò che leggevano li aveva spinti più di una volta a guardarsi negli occhi e che quegli sguardi li avevano fatti impallidire, ma a farli cedere fu un punto ben preciso del racconto. Quando lessero che quel nobile innamorato baciò la bocca da lui desiderata, Paolo, tremante d’emozione, baciò la sua. Da quel momento smisero di leggere. Come nel romanzo il siniscalco Galeotto aveva indotto Ginevra a baciare Lancillotto, il libro aveva spinto loro a baciarsi.
Mentre Francesca parlava, l’altra anima, mai nominata, piangeva. Colpito da tanto dolore, Dante perse conoscenza, e cadde a terra come se fosse morto.»
tratto da Il racconto della Commedia. Guida al poema di Dante di Marco Santagata, Mondadori